giovedì 20 settembre 2007

GLOSSARIO KANTIANO

GLOSSARIO DI FILOSOFIA KANTIANA


A PRIORI/A POSTERIORI

Si deve a Immanuel Kant (1724-1804) la definitiva sistemazione della distinzione. Per il grande filosofo tedesco ciò che è a posteriori, quindi di origine empirica, proprio per questo non può essere né universale né necessario: l'esperienza infatti ci presenta solo cose singole o contingenti. Solo ciò che è a priori, in quanto indipendente dall'esperienza, può ambire ad una validità assoluta e per tutti. Ebbene, secondo Kant le nostre conoscenze scientifiche sono tali (e quindi hanno universalità e necessità) perché contengono sempre elementi a priori; essi sono le forme della conoscenza, proprie della nostra sensibilità (spazio e tempo) e del nostro intelletto (categorie). In altre parole, per conoscere non possiamo non fare riferimento all'esperienza, che ci fornisce il materiale del sapere, ma tale materiale lo sistemiamo entro uno spazio e un tempo o lo organizziamo secondo modi di conoscere o categorie (ad esempio la causalità) che sono a priori, cioè indipendenti dall'esperienza e propri del soggetto conoscente.

CATEGORIA

Per Immanuel Kant (1724-1804) invece le C. non sono più modi d'essere della realtà, ma solo nostri modi di conoscerla. Il filosofo tedesco ritiene che l'uomo non può pretendere di conoscere le cose come sono in sé; noi possiamo cogliere delle cose soltanto il loro aspetto fenomenico (v. Fenomenismo), ciò che ci appare secondo specifiche modalità. La sensibilità e il pensiero umani (di ogni uomo adulto e ragionevole) agiscono infatti secondo speciali funzioni, lo spazio e il tempo la prima, le C. il secondo (v. A priori/A posteriori). Esse sono come un paio di occhiali: non ho altro modo di vedere il mondo che attraverso quelle lenti.
Giudizi di questo genere, e soprattutto quelli scientifici, sono chiamati da Kant giudizi d'esperienza; essi vanno distinti dai giudizi percettivi: "Che la camera sia calda, lo zucchero dolce, l'assenzio disgustoso, sono giudizi validi soltanto soggettivamente. Giacché io non pretendo che io debba sempre ritener ciò e che ogni altro debba ritener ciò proprio come me" (Prolegomeni ad ogni futura metafisica che voglia presentarsi come scienza, 19). La differenza tra i due sta nel fatto che i primi sono formulati rigorosamente secondo le C., i secondi no.

CAUSALITÀ

4. Hume e Kant.
Però, anche così ridimensionato, il principio di C. prestava il fianco ad alcune critiche, che arrivarono soprattutto da Hume (1711-1776), il quale sostenne che il rapporto di causa-effetto non è neanche una descrizione di regolarità, e non consente previsioni o anticipazioni di sorta. Le conoscenze relative alle questioni di fatto derivano dall'esperienza, che è sempre di eventi singoli; quindi, non solo è impensabile una deducibilità logica dell'effetto dalla causa, ma è comunque difficile da accettare la stessa idea di connessione necessaria, la quale comporta appunto la convinzione che, dato A, segue sempre B. Ma non c'è niente che mi garantisca che relazioni che ho verificato in passato si ripresenteranno anche in futuro. È la mente umana che, contratta l'abitudine a una certa successione di eventi, si ritiene autorizzata a sostenere che in futuro accadrà la stessa cosa. La connessione necessaria non è quindi delle o nelle cose, ma in noi; è un procedimento associativo proprio della nostra psiche, che non può garantire alcuna regolarità oggettiva, ma su cui si fonda una nostra credenza, che Hume definisce "un'idea vivace, relativa o associata a un'impressione presente" (Trattato sulla natura umana, I, III, 7).
Le conclusioni di Hume sono di tipo scettico (v. Scetticismo) e tolgono fondatezza al sapere scientifico. È ciò di cui si preoccupa Immanuel Kant (1724-1804), che ha in grande considerazione le opinioni di Hume, ma a cui interessa giustificare filosoficamente la validità della scienza newtoniana. Kant riconosce, con Hume, che nessuna regolarità empirica è in grado di fondare una legge universale. Ma se la scienza non riuscirà mai a giustificarsi a partire dall'oggetto, la cosa è possibile dal punto di vista del soggetto conoscente. Infatti per Kant l'intelletto umano è dotato di funzioni, o forme a priori (v.), mediante le quali ordina il mondo; Kant stesso porta l'esempio di un paio di occhiali: o vedo il mondo attraverso quelle lenti, o non lo vedo proprio. Ebbene, una di queste forme a priori o categorie (v.) è quella di causa-effetto; il che è come dire che l'intelletto umano non può guardare alle cose del mondo se non secondo l'ottica per cui "ogni evento dipende da cause". Quest'ottica è una componente logica del pensiero umano; pensare significa infatti per Kant ordinare mediante categorie un materiale empirico dato attraverso la sensibilità (v. anche Criticismo).

CRITICISMO

Filosofia critica e filosofia trascendentale.
Il C. kantiano si risolve poi in una filosofia trascendentale, cioè in uno studio "che si occupa non di oggetti, ma del nostro modo di conoscenza degli oggetti, in quanto questo dev'essere possibile a priori" (Critica della ragion pura, VII). La garanzia della validità (oggettività) della conoscenza è infatti ritrovata nelle forme a priori proprie del soggetto conoscente. Tali a priori (v.) sono forme prive di contenuto, il che significa che se per un verso il C. fonda l'oggettività in modo del tutto nuovo, attribuendo al soggetto funzioni "costruttive", e non semplicemente descrittive o astrattive, per un altro richiede che le forme siano riempite di un contenuto empirico, senza il quale la ragione si perde nella metafisica (v.). In questo senso trascendentale non ha niente a che fare con trascendente; mentre quest'ultimo termine designa ciò che è al di là dell'esperienza, trascendentale è l'analisi delle condizioni (a priori) che rendono possibile la conoscenza. Ciò vale a delimitare il campo del conoscibile, che è il fenomeno; il che significa che possiamo conoscere solo gli oggetti come sono per noi, e non come sono in sé (cosa in sé). Quindi il C. è una filosofia del limite, riscontrabile anche nell'etica, in cui Kant mostra l'impossibilità della santità, cioè della "conformità completa delle intenzioni con la legge morale" (Critica della ragion pratica, I, II, II, IV).

IDEA

Kant (1724-1804). Riprende la tradizione platonica, interrotta dalla filosofia moderna (Cartesio, Locke, ecc.) e tratta delle I. nella sezione della Critica della ragion pura dedicata alla "Dialettica", la parte dell'opera in cui si sostiene l'impossibilità del pensiero di dimostrare la realtà dell'anima, del mondo (inteso come "totalità", da cui nascono i problemi relativi alla sua finità e infinità, divisibilità o indivisibilità in parti, ecc.), di Dio. Queste sono per Kant tre I., intese come "non realtà", perché ad esse non corrisponde nell'esperienza alcun oggetto. Tali I. possono avere solo una funzione "regolativa", cioè stimolano e indirizzano alla ricerca, per esempio a spostarsi da un fenomeno all'altro di causa in causa, come se la totalità dei fenomeni costituisse un unico mondo.

INTELLETTO/INTELLIGENZA

Per Immanuel Kant (1724-1804) l'I. è la facoltà che formula giudizi, organizzando i contenuti empirici secondo modi o categorie (v.) che sono a priori (v.), che cioè non derivano dall'esperienza, ma fanno parte del corredo del pensiero. Per conseguenza l'I. è anche la facoltà delle regole, in quanto tende a connettere unitariamente i dati e a sottoporli a leggi. Quindi il mondo, almeno così come ci appare, è anche il risultato delle strutture logiche della mente. Anche, perché se è vero che l'I. è il potere che l'uomo ha di pensare, pensare non è ancora conoscere; per conoscere ci vuole il dato sensibile; l'intuizione intellettuale, cioè la capacità di rapportarsi agli oggetti senza la mediazione dei sensi, non è facoltà umana, ma eventualmente divina. Quanto alla ragione, che in questo nuovo contesto corrisponde al noús della filosofia greca, essa ha la pretesa di essere superiore all'I., ma è una pretesa destinata al fallimento. Come la colomba si illude di poter volare nello spazio vuoto d'aria, così la ragione si illude di poter fare a meno dell'esperienza. Con ciò Kant chiude con la metafisica classica e dichiara la natura finita, cioè limitata, del pensiero umano.

INTUIZIONE

Immanuel Kant (1724-1804) definisce l'I. la "rappresentazione di un fenomeno": oltre alle I. empiriche (i dati della sensibilità), vi sono quelle I. "pure" che costituiscono le forme a priori della sensibilità (lo spazio e il tempo). L'intelletto, facoltà giudicante e attiva, è contrapposto alla conoscenza sensibile, passiva e intuitiva: di "intuizioni intellettuali" si può parlare solo rispetto a Dio, in cui creazione e conoscenza coincidono (Critica della ragion pura, Estetica trascendentale, II, 8). Johann Gottlieb Fichte (1762-1814) e Friedrich Wilhelm Schelling (1775-1854) rivendicano l'esistenza nell'uomo di una "intuizione intellettuale", intesa come "l'immediata coscienza che io agisco e di ciò che faccio" (Fichte) o "una conoscenza che è insieme produzione del suo oggetto" (Schelling). Arthur Schopenhauer (1788-1860) la definisce "pura conoscenza intellettiva della causa dall'effetto": poiché il principio di causalità, che è una funzione dell'intelletto, è essenziale alla trasformazione della "confusa e bruta sensazione" in "rappresentazione", si può affermare che "ogni intuizione è intellettuale. [...] Solo allor che l'intelletto risale dall'effetto alla causa, apparisce il mondo" (Il mondo come volontà e rappresentazione, I, 4).

IO PENSO

L'I. trascendentale è tutt'altra cosa; Kant lo chiama "io penso" o "appercezione trascendentale". Per capire di che cosa si tratta proviamo a individuare la differenza tra queste due espressioni: "quando porto un corpo, sento un'impressione di peso" e "il corpo è pesante". Nel primo caso la relazione corpo-peso è soggettiva, nel secondo invece io dò un giudizio valido oggettivamente. Quest'ultimo è possibile perché non mi limito ad accompagnare con la coscienza ciascuna delle rappresentazioni (in questo caso: "sollevamento di un corpo" e "impressione di penso"), ma "perché le compongo tutte l'una con l'altra, e sono consapevole della loro sintesi" (Critica della ragion pura, I, I, 16). Ora, la coscienza empirica, che accompagna diverse rappresentazioni, "è in sé dispersa e senza relazione con l'identità del soggetto"; per poter dire che quelle rappresentazioni sono tutte "mie", un "io penso" deve poterle accompagnare; "altrimenti io dovrei avere un Me stesso variopinto, diverso, al pari delle rappresentazioni delle quali ho coscienza". L'"unità necessaria" delle rappresentazioni postula la coscienza dell'unità del soggetto, o, che è lo stesso, l'autocoscienza è la condizione di ogni unità. Con ciò esco dalle impressioni soggettive e dò un giudizio che ritengo valido oggettivamente, e quindi per tutti. E infatti l'"io penso" non è una coscienza individuale, realtà psicologica, ma categoria logica, coscienza in generale, unità sintetica originaria, cioè a priori, del molteplice delle intuizioni. L'unità dell'oggetto non è quindi data dall'oggetto stesso: "L'unificazione non è dunque negli oggetti [...] ma è soltanto una funzione dell'intelletto, il quale non è altro che la facoltà di unificare a priori, e di sottoporre all'unità dell'appercezione il molteplice delle rappresentazioni date; ed è questo il principio supremo di tutta la conoscenza umana". L'"io penso" è forma e non sostanza, e cioè condizione della conoscenza degli oggetti; ma non è a sua volta oggetto di conoscenza. Se lo fosse, non sarebbe più "principio dell'unità sintetica dell'appercezione", ma entità psicologica, soggettiva, per cui i suoi giudizi, quindi le categorie, non sarebbero oggettivamente validi. Kant così risolve l'aporia cartesiana: l'"io penso" (cogito) non si può risolvere in una serie di contenuti psichici determinati.

LIBERTÀ

Per parte sua Immanuel Kant (1724-1804) sostenne che l'uomo è libero perché è un ente morale, ed è ente morale perché dotato di ragione. È la ragione infatti a dettare gli imperativi; proprio per ciò l'uomo è libero, perché i comandi si rivolgono solo a chi può disobbedire (tu devi, dunque puoi). In quanto soggetto libero, l'uomo è dotato di una natura noumenica (v. Noumeno), cioè incondizionata (cosa in sé). Tutti i fenomeni sono effetti, eventi dipendenti da una causa secondo una legge costante; libero è chi si sottrae a questa catena di causazioni, perché è l'inizio degli effetti, "senza che l'attività della causa abbia bisogno di cominciare anch'essa e perciò senza che essa sia costretta ad avere un altro principio che determini il suo inizio" (Prolegomeni, 53). Ma se la causalità libera non sottostà a determinazioni temporali, essa non è fenomeno (v.), ma cosa in sé; fenomeni saranno soltanto i suoi effetti. In quanto soggetto morale l'uomo scopre la sua natura sovrasensibile, che fa di lui la più alta delle creature viventi; dell'uomo "in quanto essere morale, non si può domandare ancora per qual fine (quem in finem) esiste. La sua esistenza ha in se stessa lo scopo supremo, al quale, per quanto è in sua facoltà, egli può sottomettere l'intera natura [...]. Ora, se le cose del mondo, in quanto esseri condizionati relativamente alla loro esistenza, abbisognano di una causa suprema che agisca secondo fini, l'uomo sarà lo scopo finale della creazione [...]" (Critica del giudizio, 84).

NATURA

Questo significato è espresso nel modo più efficace da Immanuel Kant (1724-1804): "Col termine N. (in senso empirico) noi designiamo la connessione dei fenomeni, quanto alla loro esistenza, in base a regole necessarie, cioè a leggi" (Critica della ragion pura, Analitica dei principi, cap. III). Tali leggi non ineriscono alle cose in quanto tali, ma dipendono dalle forme a priori del soggetto, mediante le quali soltanto è possibile la scienza fisica. È solamente nell'intuizione pura a priori soggettiva del tempo (v.) che noi giudichiamo la permanenza, la successione, la simultaneità, sulle quali si fonda la causalità dei fenomeni, e dunque la N. è il sistema delle leggi mediante le quali il soggetto costituisce l'unità dell'esperienza. La rinuncia kantiana ad investigare la cosa in sé (v.) e ad affermare l'assolutezza delle leggi naturali prepara la crisi del modello realistico della scienza fisica classica.

RAGIONE

Il punto di vista di Immanuel Kant (1724-1804) si colloca, per così dire, a metà strada tra razionalismo ed empirismo; da una parte il filosofo tedesco condivide la tesi che la R. è autonoma rispetto all'esperienza, dall'altra considera il suo lavoro (quasi) del tutto improduttivo. Per la verità, nella Critica della ragion pura Kant utilizza il termine R. in modo equivoco, ora nel senso di facoltà del conoscere in generale (proprio in questa accezione il termine è presente nel titolo dell'opera), ora come funzione attiva del conoscere, contrapposta alla sensibilità, che è passiva o ricettiva, ora come terza facoltà, accanto alla sensibilità e all'intelletto. Quest'ultimo è il significato proprio; in quanto tale l'operare della R. è improduttivo, proprio perché fondato sulla pretesa di fare a meno dell'esperienza. Mentre l'intelletto è la "facoltà delle regole", la R. è la "facoltà dei principi": "essa non si indirizza mai immediatamente all'esperienza o a un oggetto qualsiasi, ma all'intelletto, per imprimere alle conoscenze molteplici di esso un'unità a priori per via di concetti; unità, che può dirsi unità razionale, ed è di tutt'altra specie da quella che può essere prodotta dall'intelletto" (Critica della ragion pura, Dialettica trascendentale, Introduzione, II, A). E più avanti: "Il principio proprio della ragione in generale (nel suo uso logico) è: trovare per la conoscenza condizionata dell'intelletto quell'incondizionato, con cui è compiuta l'unità di esso intelletto" (II, C). Tale principio, aggiunge Kant, ha un carattere sintetico; analitico sarebbe se rimanesse nella serie delle cose condizionate. Esso principio, e tutti quelli derivati, ha natura trascendente; di questo principio cioè "non potrà mai farsi un uso empirico ad esso adeguato" (ivi). La R., in altre parole, pretende di unificare tutto il molteplice entro le tre idee "totali" di anima (totalità dei fenomeni interni), mondo (totalità dei fenomeni esterni), Dio (totalità assoluta). Ma a queste idee non corrispondono oggetti. Quindi: mentre i concetti dell'intelletto (categorie) servono a intendere (le percezioni), i concetti della R. (idee) servono a comprendere (nel senso di abbracciare); ciò in quanto "il concetto trascendentale della ragione non è altro che il concetto della totalità delle condizioni per un dato condizionato" (Libro I, Sez. II); tale concetto è incondizionato, idea, appunto.

SENTIMENTO

Si deve a Immanuel Kant (1724-1804), che riprende criticamente i temi humiani, un'ulteriore messa a punto del ruolo del S. con la classica tripartizione dell'animo in: 1) facoltà del conoscere; 2) S. del piacere e dispiacere; 3) facoltà del desiderare. Nella Critica del giudizio (1790) egli distingue il S. dalla facoltà del conoscere e dai principi che presiedono alla ragione pratica (che sono l'espressione più alta della facoltà del desiderare), rilevando che in esso non si fa valere nessuna istanza teoretica. Osserva poi che il S. del piacere e del dispiacere si differenzia dalla sensazione, in quanto è "ciò che deve restar sempre puramente soggettivo e non può assolutamente costituire una rappresentazione di un oggetto" (Critica del giudizio, Parte I, Sez. I, Libro I, 3), tanto è vero che è presente anche nei giudizi di gusto (che vertono sul bello), teleologici (che indicano la finalità della natura) e morali. Questo genere di S. è peraltro diverso dalle passioni - giudicate da Kant accidentali ed empiriche, prive di qualsiasi valore intersoggettivo, "cancri pressoché inguaribili della ragion pura pratica" - perché pretende all'universalità: distinguere le diverse espressioni del piacere, separando il sensibile dal puro: ambedue sono connessi con la facoltà del desiderare, ma solo il piacere puro distingue gli uomini dagli animali e non è condizionato patologicamente: "Il piacevole, il bello, il buono designano dunque tre diversi rapporti delle rappresentazioni verso il S. di piacere e dispiacere, secondo cui distinguiamo gli oggetti o i modi della rappresentazione. Anche le espressioni adeguate, con le quali si designa il compiacimento nei tre casi, non sono le stesse. Ognuno chiama piacevole ciò che lo diletta; bello ciò che gli piace senz'altro; buono ciò che apprezza, approva, vale a dire ciò cui dà un valore oggettivo. Il piacevole [sensibile] vale anche per gli animali irragionevoli; la bellezza solo per gli uomini, nella loro qualità di esser animali, ma ragionevoli" (ivi, 5).

Soggetto/oggetto nella filosofia kantiana e idealistica.

La crisi della concezione sostanzialistica di S./O. viene affrontata da Kant. Con la sua rivoluzione copernicana, scontato l'abbandono della pretesa dualità originaria cartesiana di spirito e materia - già superata del resto all'interno dello stesso razionalismo dalle filosofie di Baruch Spinoza (1632-1677) e di Gottfried Wilhelm Leibniz (1646-1716) - S. e O. si costituiscono nell'esperienza come recto e verso del medesimo foglio, del quale si possono ritagliare le parti, ma non separare le facce. L'Io-penso-S., che opera la sintesi del molteplice mediante le forme pure della sensibilità e dell'intelletto, non si può separare dall'O., cioè dai fenomeni conosciuti nella forma dell'obiettività: al di fuori di questi esso semplicemente non esiste. S. e O., intesi come anima (v.) e cosa in sé (v.), son divenuti ora sostanze inconoscibili. Con Kant il processo di rifondazione della conoscenza, iniziato da Cartesio con la speranza di ricostruire sul S. una nuova metafisica, si risolve ora nella delimitazione del mondo conoscibile alla rappresentazione della coscienza o, per meglio dire, alla coscienza come rappresentazione, oltre la quale il terreno appare impraticabile, se non al costo o del ritorno alla metafisica del S./O. o del superamento del criticismo (v.).

SOSTANZA PER Kant e l'idealismo.
Immanuel Kant (1724-1804) riprende il concetto tradizionale di S.; infatti il "principio della permanenza della sostanza", prima analogia dell'esperienza, si esprime in questi termini: "[...] in ogni cangiamento dei fenomeni la sostanza permane, e la quantità di essa nella natura non aumenta né diminuisce" (Critica della ragion pura, Analitica dei principi, II, III). La novità introdotta da Kant sta nel fatto che egli definisce S. e accidente in termini di categorie dell'intelletto, e precisamente della prima categoria della relazione, corrispondente al giudizio categorico; ciò significa che il giudizio, mediante il quale individuiamo i caratteri permanenti di un oggetto, non è altro che un modo a priori, mediante cui la soggettività pensante sintetizza i dati empirici. La S., in questo modo, perde la sua carica metafisica, per essere utilizzata ai fini della costruzione del mondo fisico.

SPAZIO

Nella filosofia di Immanuel Kant (1724-1804) lo S. occupa un posto assolutamente centrale: insieme al tempo, esso precede l'esperienza, ma all'interno del soggetto. È definito infatti come una forma a priori della sensibilità, congiuntamente al tempo. Il tempo è la forma a priori del senso interno, lo S. è la forma a priori del senso esterno. La loro validità è limitata ai fenomeni: le cose in sé invece non sono accessibili. Lo S. è per Kant un tutto unico, che non è possibile identificare con una sua parte speciale né esaurire in essa. Per questo riesce a contenere rappresentazioni infinite. Kant definisce la sua posizione come un idealismo formale oppure trascendentale per distinguerlo da quello di Berkeley: il termine formale o trascendentale si riferisce appunto al fatto che riguarda il nostro modo di conoscere le cose, in quanto è possibile a priori. Kant riesce in questo modo a salvare la scienza newtoniana dagli attacchi che le vengono rivolti ma senza stabilire, come Newton, uno S. assoluto.

TEMPO

Un importante tentativo di uscire dal dilemma si deve a Immanuel Kant (1724-1804): il T., egli afferma, è una condizione necessaria per il costituirsi dell'ordine causale dei fenomeni; infatti soltanto nel T. possiamo rappresentarci permanenza, simultaneità e successione. Tra causalità e temporalità vi è stretta parentela: la direzione irreversibile del T., l'ordine della successione, per esempio, è analoga all'irreversibilità propria delle relazioni di causa ed effetto. Il T. non è però derivato dalle sensazioni: esso è dato a priori (v.), i fenomeni possono dileguare "ma il tempo come tale (in quanto condizione universale della loro possibilità) non può essere soppresso" (Critica della ragion pura, Estetica, par. 4). Il T. non è un concetto, non è ricavato per via di ragionamento; è una forma pura dell'intuizione sensibile, si dà immediatamente ed è il modo necessario nel quale noi costituiamo in esperienza (v.) il contenuto delle sensazioni. Il T. non esiste di per sé, come realtà assoluta: in quanto condizione soggettiva dell'intuizione sensibile, fuori dal soggetto non è nulla. Ma non perciò è qualcosa di irreale o immaginario. Diversamente dalle intuizioni empiriche, il cui contenuto particolare non possiede alcuna necessità, l'intuizione pura del T. è necessaria per rappresentare qualsivoglia fenomeno e si deve considerare, nel soggetto, universale, necessaria e dunque oggettiva.