domenica 30 settembre 2007

HEGEL


 
VITA ED OPERE
George Wilhelm Friedrich Hegel nasce nel 1770 a Stoccarda, dove compie gli studi ginnasiali, ricevendo una formazione di tipo umanistico. Si iscrive poi all'Università di Tubinga e diviene borsista dello Stift (un istituto per la formazione del clero protestante) dove stringe amicizia con Hölderlin e Schelling. Nonostantela cultura di Tubinga sia strettamente legata all' ancien régime e alla cultura tradizionale e oltranzista, Hegel e i suoi amici seguono con entusiasmo gli eventi della Francia rivoluzionaria e scoprono le nuove filosofie, da Rousseau a Herder, da Fichte a Kant. Dal 1793 in poi, egli inizia una lunga serie di soggiorni in città diverse: questi soggiorni coincidono spesso con una fase particolare dello sviluppo della sua personalità filosofica o con la stesura di particolari opere o cicli di opere. Nel 1793, appunto, compiuti gli studi di teologia e filosofia, Hegel, non intendendo avviarsi alla carriera ecclesiastica, si trasferisce a Berna per svolgere l'attività di precettore presso una famiglia nobile. Nel 1797 si stabilisce a Francoforte, dove la sua prospettiva filosofica e i suoi interessi culturali ricevono grande impulso dalla frequentazione del circolo di Hölderlin. Nei periodi di Berna e Francoforte, egli compone la serie di scritti giovanili dedicati all'analisi della religione e del cristianesimo generalmente noti come Scritti teologici giovanili. Nel 1799, in seguito alla morte del padre, che gli lascia in eredità un piccolo patrimonio, Hegel abbandona l'attività di precettore e si dedica in tutto e per tutto agli studi per intraprendere la carriera universitaria. Si trasferisce quindi, nel 1801, a Jena, dove ottiene l'abilitazione all'insegnamento universitario con la dissertazione De orbitis planetarum ; dal 1805, per interessamento di Goethe, viene nominato professore straordinario. Jena era stata centro di diffusione della scuola kantiana attraverso Reinhokl e, dal 1798, era sede del "circolo romantico" di Novalis, Tieck e i fratelli Schlegel. A Jena insegnava in quegli anni anche Schelling, con il quale Hegel inizia una stretta collaborazione pubblicando, nel 1802-1803, il "Giornale critico della filosofia". Agli anni di Jena risalgono scritti importantissimi: La differenza dei sistemi filosofici di Fichte e di Schelling (1801), lo scritto politico La costituzione della Germania (1801 - 2), Il sistema dell'eticità (1802 - 3) nonché gli abbozzi di Sistema sulla logica metafisica e filosofia della natura (1802). Ma l'opera fondamentale del periodo è la Fenomenologia dello spirito (1807). È di questi anni anche la lettera in cui Hegel, durante l'occupazione francese di Jena, racconta di aver visto Napoleone, “quest'anima del mondo”, questo individuo storico - universale che “concentrato qui in un punto (…) seduto a cavallo (…) si estende sul mondo e lo domina”. Nel 1807 Hegel si trasferisce a Bamberga, dove lavora come redattore della gazzetta locale. Già nel 1808, abbandonata l'attività redazionale, anche in seguito a problemi con la censura, egli diventa direttore del Ginnasio di Norimberga. L'opera più importante di questo periodo è la Scienza della logica (1812 - 16), che avrà una seconda edizione nel 1831 poco prima della sua morte. Grande importanza riveste però anche la Propedeutica filosofica (pubblicata postuma nel 1840) destinata agli allievi del Ginnasio. Nel 1816 Hegel è chiamato come professore di filosofia all'Università di Heidelberg, dove rimane per due anni. In questo periodo viene pubblicata l'Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, che rappresenta una compiuta esposizione dell'intero sistema hegeliano. Pubblicata una prima volta nel 1817, l'Enciclopedia conoscerà due ulteriori edizioni ampliate nel 1827 e nel 1830. Nel 1818 Hegel viene chiamato all'Università di Berlino, dove rimarrà fino alla morte, avvenuta nel 1831 in seguito ad un'epidemia di colera. In quegli anni, dopo il Congresso di Vienna, la Prussia era diventata lo stato-guida della Germania e si proponeva di affiancare all'egemonia politico-militare anche una egemonia culturale. La chiamata di Hegel sulla cattedra che fu di Fichte obbediva a quest'ottica di rinnovamento. Per parte sua Hegel, consapevole delle valenze "politiche" della sua funzione di professore universitario, seppe destreggiarsi in un a volte difficile gioco di equilibri tra la difesa dello statalismo prussiano e l'apertura a istanze moderatamente liberali. La prima esigenza appare prevalente nella più importante opera del periodo berlinese, i Lineamenti della filosofia del diritto (1821), mentre le lezioni tenute all'Università sullo stesso argomento una libertà che la censura prussiana non consentiva nel testo a stampa. L'importanza delle lezioni di Hegel, non solo di filosofia del diritto, per una più profonda interpretazione delle opere pubblicate ufficialmente, fu riconosciuta già dai contemporanei. Alcuni cicli di esse, che Hegel tenne all'Università di Berlino, furono raccolti dagli allievi e fatti circolare, con il suo stesso consenso, dentro e fuori la Germania; successivamente furono pubblicati con i titoli di Lezioni sulla filosofia della storia, Lezioni sulla storia della filosofia, Lezioni di estetica, Lezioni sulla filosofia della religione.

IL PERIODO DI BERNA
Solamente nel 1907 fu pubblicata una serie di scritti hegeliani, di argomento prevalentemente religioso, cui il curatore Herman Nohl diede il nome complessivo di Scritti teologici giovanili: essi furono redatti durante la permanenza di Hegel a Berna e a Francoforte (eccetto il primo di essi, che risale probabilmente al periodo di Tubinga). Questa fase iniziale di attività speculativa di Hegel è diventata uno dei maggiori punti di interesse della critica del Novecento, dal momento che permette di accostare alla tradizionale immagine ottocentesca di un Hegel sistematico la conoscenza di un "giovane" Hegel (gli scritti arrivano fino all'età di trenta anni) nel quale il "sistema" è ancora in piena formazione e lascia spazio a un maggior ventaglio di problemi e di interpretazioni. Il fulcro tematico degli scritti è la religione, ma, attraverso l'analisi del fenomeno religioso e del Cristianesimo, Hegel comincia a dare forma a quello che è l'elemento fondamentale della sua filosofia: la concezione della realtà come “totalità unitaria nella quale i suoi diversi aspetti trovano la loro collocazione razionale”. Nel primo scritto, Hegel oppone, fin dal titolo, Religione popolare e Cristianesimo (1792 - 94).
La religione popolare presenta due caratteri fondamentali. Come primo carattere è una religione "soggettiva", la quale "impegna la fantasia e il cuore" del soggetto che agisce in essa: non c'è dunque alcun aspetto di coercizione, di precettistica esteriore, di rigidi dogmatismi affidati all'intelletto e alla memoria, come avviene invece nella religione "oggettiva", scritta per sempre in un libro e conservata da un apparato chiesastico autoritario. In secondo luogo, essa è una religione pubblica, che si manifesta nella concretezza dei costumi, della mentalità e delle istituzioni di un popolo, in opposizione alla religione privata, che si consuma nel rapporto interiore tra il singolo uomo e Dio: infatti, oltreché letteralmente come "religione popolare" il termine tedesco che la esprime (Volksreligion) è traducibile come "religione nazionale".
Mentre il Cristianesimo incarna il tipo di religione oggettiva e privata, l'ideale della religione popolare o nazionale (soggettiva e pubblica) è ritrovato da Hegel nella polis greca, dove le credenze religiose, da un lato rispondono alle esigenze di gioia e di serenità proprie della natura umana, dall'altro si estrinsecano sempre in culti che, avendo forti valenze sociali e politiche, coinvolgono l'intera comunità. Nella Grecia idealizzata da Hegel, attraverso l'influenza di Schiller, Winckelmann e Hölderlin, la città-Stato rappresenta una comunità unitaria nella quale si fondono in una sola realtà gli aspetti sociali, politici e religiosi e nella quale, soprattutto, gli individui sono parti organiche di un tutto vivente e non ancora meccanicamente contrapposti in un aggregato. Qui nasce la vera libertà, che esclude tanto il dominio coercitivo della comunità sul singolo, quanto la totale indipendenza di ciascun individuo da tutti gli altri individui: la vera libertà è quella nella quale l'individuo ritrova l'espressione della propria volontà nella realtà socio-politica (e quindi anche religiosa) alla quale appartiene. Tramite la contrapposizione tra religione popolare e Cristianesimo, Hegel tratteggiava il contrasto tra l'idea di una totalità che ricomprende in sé armonicamente tutti i suoi aspetti e quella di un aggregato meccanico le cui parti non hanno alcuna relazione reciproca sostanziale e stanno forzosamente insieme in base a connessioni estrinseche, arbitrariamente imposte dall'intelletto. Se in questo primo scritto il Cristianesimo viene opposto alla religione popolare, nella Vita di Gesù (1795) esso, in quanto religione positiva, è contrapposto alla religione naturale, cioè a una religione ricondotta all'etica nazionale del dovere. Il modello cui Hegel apertamente si ispira è la Religione entro i limiti della sola ragione di Kant.
L'insegnamento originario di Cristo si ridurrebbe pertanto ad illustrare quelli che sono i comandi universali della ragione. Hegel arriva ad attribuire a Gesù la stessa formulazione dell'imperativo categorico kantiano: "Agite secondo una massima tale che, ciò che voi volete che valga come legge universale fra gli uomini, valga anche per voi". In che modo dunque la religione naturale professata da Cristo si è tradotta in una religione positiva che si articola in un rigido corpo dogmatico e si fonda sulla rivelazione divina e sulla struttura autoritaria della Chiesa? Hegel cerca di rispondere a questa domanda nello scritto La positività della religione cristiana (1795 - 1796). Sicuramente la causa più generale di questa degenerazione sta nell'ambiente e nella cultura ebraici, incapaci di cogliere la pura spiritualità dell'insegnamento cristiano e legati all'esteriorità del formalismo e del legalismo farisaici. Ma, in realtà, già nello stesso magistero di Cristo sono contenuti i germi della successiva e progressiva positivizzazione del Cristianesimo. Ebreo egli stesso, Gesù è infatti condizionato dall'ambiente in cui è nato e dal pubblico al quale deve rivolgersi: così egli fonda la propria dottrina non sulla pura ragione legislatrice, bensì sulla rivelazione e sul comando di Dio; per lo stesso motivo egli è portato a parlare di sé come del Messia, a ricorrere alla testimonianza dei miracoli, a fondare una Chiesa scegliendo, nei dodici apostoli, un corpo sacerdotale deputato alla conservazione e alla diffusione del suo insegnamento: tutti segni, questi, dell'incipiente positivizzazione del Cristianesimo.

IL PERIODO DI FRANCOFORTE
Il trasferimento di Hegel da Berna a Francoforte, avvenuto nel 1797, segna anche l'inizio di un nuovo indirizzo di pensiero. Il Cristianesimo, precedentemente fatto oggetto di un giudizio negativo, viene ora rivalutato, mentre la funzione di modello negativo viene assegnata alla religione ebraica. Nel più importante scritto francofortese, Lo spirito del Cristianesimo e il suo destino (1798-1800), Hegel ravvisa nel popolo ebreo la costituzionale incapacità di cogliere l'unità del reale: in esso vige lo spirito della separatezza, cioè dell'opposizione reciproca dei diversi aspetti della realtà, che non riescono a trovare una loro correlazione e una loro armonia. Ritenendo di essere il popolo eletto da Dio, gli ebrei si contrappongono a tutti gli altri popoli, così come al loro interno una tribù particolare, quella di Levi, impone la sua diversità e superiorità a tutte le altre. La stessa frattura si realizza nella cultura ebraica tra l'uomo e la divinità (intesa come un principio esterno al mondo e signore di esso), così come tra l'uomo e la natura (intesa come una potenza ostile da dominare con la forza), e tra uomo e uomo (inteso come individuo che esaurisce la sua personalità nel suo rapporto singolare con Dio). Il popolo ebreo è dunque l'esatto contrario di quello greco, in cui la peculiarità nazionale si spostava con l'universalità della natura umana, gli uomini e gli dei apparivano come un prolungamento della natura e gli individui, nella loro qualità di cittadini della polis, erano considerati parte integrante della comunità. Ma il correlato positivo del popolo ebreo, in quest'opera, non è più la città-stato greca, ma il Cristianesimo, che allo spirito di separatezza ebraico oppone la dottrina dell'amore, cioè della consapevole riconciliazione di ciò che è stato infranto e separato. L'evento più importante del Cristianesimo, l'incarnazione di Cristo, rappresenta appunto la capacità di ricongiungere divinità e umanità, Dio e mondo, sovrannaturale e naturale. Analogamente, l'amore predicato dal Cristianesimo è il segno dell'unità tra gli uomini: ma questa unità non è spontanea e naturale, come quella realizzata nella polis greca, ma consapevolmente ricercata dopo l'esperienza della separazione. In questo modo, Hegel riprende il tema di fondo della sua speculazione filosofica: la priorità della totalità rispetto a quel che è parziale, diviso, separato, ovvero, nella terminologia che gli sarà propria, la priorità del concreto rispetto all'astratto (inteso etimologicamente come parte "tratta da", separata dal tutto). Ma, e questo è l'elemento nuovo rispetto al periodo di Berna, la totalità non è più rappresentata dall'unità originaria e inconsapevole di sé, vissuta spontaneamente come natura, ma è una totalità consapevolmente riconquistata dopo l'esperienza della scissione e della separatezza.
Nella terminologia dell'Hegel maturo, si tratta di una totalità non più immediata, bensì riflessa. L'uomo greco non conosceva fratture od opposizioni che incrinassero l'armonica unità del reale, l'ebreo ha completamente perso il senso della totalità e non vede altro che aspetti particolari che si contrappongono vicendevolmente; il cristiano, attraverso l'amore, ritrova la riconciliazione nell'unità sostanziale di quel che è stato frantumato in una molteplicità di realtà parziali. Senza essere esplicitamente formulato, in quest'opera è già embrionalmente contenuto il procedimento dialettico che caratterizza la filosofia hegeliana: in un primo momento, affermativo, la realtà è colta in quanto immediatezza, così come essa si presenta complessivamente nelle manifestazioni più naturali (mondo greco); in un secondo momento, negativo, la realtà viene vista nelle sue componenti parziali, e quindi nell'opposizione problematica tra i suoi diversi aspetti (mondo ebraico); infine, in un terzo momento, sintetico, quella opposizione viene risolta con il riferimento a una realtà superiore nella quale ritrovano la loro unità gli aspetti che prima apparivano divisi (Cristianesimo).
L'ultimo degli Scritti teologici giovanili è il cosiddetto Frammento di sistema del 1800, nel quale Hegel sviluppa ulteriormente il concetto di totalità. La filosofia non è in grado di conseguire l'unità assoluta, dal momento che essa conserva la distinzione tra soggetto e oggetto, tra pensante e pensato. L'unità totale viene invece raggiunta dalla religione, la quale attinge la "vita infinita" al di là di ogni riflessione e distinzione. La vita infinita è lo "spirito" (altro termine destinato ad avere un significato particolare nell'opera hegeliana) qui inteso come "vivente unità del vario". Questa totalità assoluta, però, non è soltanto unificazione, ma anche opposizione, distinzione: infatti, una unità assoluta che escludesse da sé l'opposizione, non sarebbe una vera unità, dato che comporterebbe la frattura tra il momento unitario e quello oppositivo, che devono invece essere intesi come i due aspetti di un'unica realtà. La vita è dunque " l'unione dell'unione e della non unione " (cioè dell'opposizione). Attraverso queste nozioni Hegel comincia a delineare un concetto di totalità che non è più l'identità indifferenziata di cui parlava Schelling, nella quale le opposizioni si risolvono e si fondono l'una nell'altra perdendo le caratteristiche specifiche, ma è piuttosto una unità articolata in un complesso di opposizioni : queste ultime, se nel superiore momento unitario trovano la loro reciproca conciliazione e il loro vero significato, non perdono tuttavia le differenze specifiche che, anche all'interno del tutto, le connotano come aspetti parziali di esso, non costituenti da sole il tutto.


LA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO
L' opera più significativa del periodo di Jena è la Fenomenologia dello spirito, portata a termine nel 1807: essa è definita da Hegel come “storia romanzata della coscienza che attraverso contrasti, scissioni, quindi infelicità e dolore esce dalla sua individualità e raggiunge l'universalità, riconoscendosi come ragione che è realtà e realtà che è ragion”.
In essa ritornano, trovando un più ampio sviluppo, due presupposti già presenti nelle opere precedenti. La Fenomenologia obbedisce al principio per cui "il vero è l' intero": la verità si consegue soltanto quando i diversi aspetti parziali della realtà sono considerati non più nella loro astratta separazione, bensì come momenti e articolazioni della totalità di cui fanno parte. Secondariamente, Hegel ribadisce che questa totalità, che è oggetto del vero sapere, non è qualcosa di già dato, che staticamente si offra all' analisi del soggetto come una realtà diversa e contrapposta ad esso. Al contrario, la conoscenza della totalità assoluta in cui consiste la verità, è il risultato di un processo gnoseologico, nel quale il soggetto che conosce è intimamente implicato.
In termini hegeliani, la verità non è "sostanza", cioè qualcosa di immobile nella sua compiutezza, ma "soggetto", spirito, cioè attività, svolgimento, movimento: " La verità è il movimento della verità in se stessa ". Le diverse fasi del processo che porta alla verità non sono altro che i diversi modi in cui il soggetto conosce se stesso e, di conseguenza, si rappresenta la realtà. La Fenomenologia descrive quindi l' "esperienza" della coscienza che passa progressivamente dai gradi più bassi della conoscenza (che sono espressioni provvisorie e apparenti, cioè appunto fenomeniche, della verità) al "sapere assoluto", alla forma di conoscenza con cui lo spirito conosce infine la sua autentica essenza.
Il soggetto del processo fenomenologico è quindi sempre l'Assoluto, il quale però nelle prime fasi di esso non si conosce ancora come tale, ma soltanto secondo il grado di sviluppo raggiunto dalla coscienza in quel particolare momento. Solamente al termine del processo, quando lo spirito ha esplicato completamente se stesso, quando la verità è ricomposta nella totalità delle prospettive e dei gradi che la compongono, la coscienza giunge a conoscere completamente se stessa come Assoluto. I diversi momenti del processo fenomenologico si esprimono in figure dello spirito, che hanno una duplice valenza. Da un lato, esse manifestano, per così dire, il punto di vista acquisito dalla coscienza (o dalle sue determinazioni superiori) in un particolare momento del suo sviluppo. Dall'altro, esse sono considerate dal punto di vista della totalità del processo, in modo da cogliere non soltanto quel che esse contengono, ma anche quel che non contengono ancora, quel che costituisce il loro limite in quanto materia del successivo sviluppo dello spirito. In questo modo la successione delle figure non appare arbitraria o causale, ma rispecchia il concatenamento necessario nelle diverse fasi relative allo sviluppo dello spirito assoluto.
Ciascuna figura rappresenta insieme il superamento e la conservazione delle figure che la precedono, le quali non vengono da essa eliminate, ma soltanto integrate con gli aspetti di cui esse ancora non erano consapevoli, fino a pervenire alla consapevolezza totale dell'Assoluto. Più precisamente la successione delle figure, e in generale il processo fenomenologico, obbedisce a un movimento dialettico. In ogni fase di sviluppo del processo, infatti, il soggetto appare prima in sé, come la semplice coscienza di un oggetto (momento dell'affermazione immediata); poi, dal momento che l'oggetto appare come qualcosa di altro rispetto al soggetto, come il suo contrario, il soggetto viene negato dall'oggetto (momento della negazione, della mediazione); alla fine, il soggetto si rende conto che l'oggetto non è altro che la proiezione (in termini hegeliani, l' "alienazione") di se stesso al di fuori di sé, ritrovando l'unità di soggetto e oggetto: il soggetto diventa così un per sé, ossia diventa cosciente di se stesso, conosce come se stesso quel che nel momento precedente gli era apparso come diverso da sé.
La progressiva presa di coscienza di sé da parte del soggetto, in cui consiste lo sviluppo fenomenologico, è considerabile come un processo di progressiva interiorizzazione dell'oggetto che via via si presenta come esteriore al soggetto. Il movimento dialettico si ripresenta infatti in tutti i passaggi da una fase all'altra del processo, pur variando, naturalmente, i contenuti del soggetto e dell'oggetto. Il passaggio dialettico è il movimento interno alla coscienza, ossia il principio tramite cui la coscienza sviluppa se stessa, passando dai gradi inferiori a quelli superiori. Ma dal momento che alla fine del processo la coscienza si conosce come Assoluto, la dialettica è anche il principio interno dello sviluppo dell'Assoluto, ossia è il principio che regola lo svolgimento e l'esplicazione della realtà. Ancora una volta la dialettica è insieme la legge del pensiero e dell'essere.
Di conseguenza, le diverse figure dello spirito vengono ad avere una seconda duplice valenza. Da un lato, esse sono momenti della coscienza singola, cioè fasi, che ciascun singolo individuo ripete nella sua esperienza personale; dall'altro, esse sono momenti di quella coscienza universale che è l'Assoluto, e quindi fasi dello sviluppo della realtà, della storia. Per questo alcune figure fanno riferimento a determinate fasi dello sviluppo storico: ma anche in questo caso i periodi storici che passano sulla ribalta della Fenomenologia non dovevano essere considerati come individualità prettamente storiche, come fenomeni inseriti in una successione rigorosamente cronologica (spesso disattesa da Hegel): essi sono piuttosto esemplificazioni concrete di momenti ideali dello sviluppo dello spirito, i quali in nessun modo si possono esaurire in un insieme di circostanze. La concezione hegeliana della conoscenza come processo dialettico esclude i due modelli gnoseologici prevalenti all'inizio dell'Ottocento.
In primo luogo è respinta la concezione rappresentativa (propria della tradizione filosofica fino a Kant), secondo la quale la conoscenza è la rappresentazione ottenuta mediante l'attribuzione di un predicato (o di più predicati) a un soggetto: questo modello conoscitivo si fonda sulla semplice proposizione identica, la quale si limita ad affermare l'identità tra il soggetto e i predicati ad esso riferiti. Per Hegel invece la conoscenza è conseguibile soltanto attraverso un processo nel quale ogni aspetto della realtà viene dialetticamente connesso con il suo opposto (il soggetto viene dialetticamente connesso con l'oggetto), per poi contrapporre la totalità parziale così ottenuta alla totalità parziale ad essa esposta, e così via fino al conseguimento progressivo della conoscenza dell'intero, ovvero del sapere assoluto. Per fare questo si deve però ricorrere alla proposizione speculativa, la quale non è data dalla semplice congiunzione di un soggetto ad un predicato, ma consiste in un'affermazione dialettica che, essendo indisgiungibile dall'insieme complessivo e interconnesso delle altre proposizioni conoscitive, rimanda in ultima analisi all'intero sistema della conoscenza. Secondariamente, la concezione dialettica della conoscenza esclude anche quella posizione (sostenuta dai filosofi romantici) per cui la verità assoluta, pur non essendo conseguibile mediante una conoscenza di tipo rappresentativo e discorsivo, può essere colta con un atto di intuizione immediata. Il procedimento dialettico, infatti (o, se si vuole, la proposizione speculativa), comporta la presa di coscienza dell'articolazione razionale del tutto, attraverso la quale soltanto è possibile pervenire alla verità. Solamente passando attraverso le diverse figure fenomenologiche, la coscienza può giungere al sapere assoluto; ovvero, considerando la cosa dal punto di vista sistematico che prevarrà in Hegel dopo il periodo jenese, la conoscenza della totalità è data esclusivamente dalla ricomposizione articolata (cioè differenziata) delle parti del sistema.
Chi cerca di cogliere l'Assoluto praticando scorciatoie conoscitive e appellandosi alle facoltà rivelative dell'intuizione finisce col confondere tutte le distinzioni in un'unità che, assolutamente indifferenziata, non è più nulla o, secondo la famosa espressione della Prefazione della Fenomenologia, è " la notte in cui tutte le vacche sono nere ". Non a caso, infatti, la pubblicazione della Fenomenologia dello spirito, nel 1807, segue la fine della collaborazione e dell'amicizia fra Schelling ed Hegel.

COSCIENZA:
T
CERTEZZA SENSIBILE
A PERCEZIONE
S INTELLETTO

AUTOCOSCIENZA
T
SERVO-PADRONE
A STOICISMO-SCETTICISMO
S COSCIENZA INFELICE

RAGIONE
T SCIENZA MODERNA
A AZIONE INDIVIDUALE
S ETICITA'

SPIRITO
T
BELLA ETICITA'
A REGNO DELLA CULTURA
S SAPERE ASSOLUTO

La prima figura della Fenomenologia dello spirito è la coscienza naturale, considerata come il momento in cui il soggetto sente l'oggetto come altro rispetto a sé. A sua volta, la coscienza trova la sua più immediata espressione nella certezza sensibile (cioè nella sensazione), che solo in apparenza sembra essere la forma di conoscenza più ricca e più piena: " il contenuto concreto della certezza sensibile fa sì che essa appaia immediatamente come la conoscenza più ricca. […] Appare inoltre come la più verace; infatti essa non ha ancora tralasciato nulla dell'oggetto, anzi lo ha in tutta la sua pienezza dinanzi a sé ". La sensazione si presenta come la conoscenza che un individuo particolare (un “questi”) ha di un oggetto altrettanto particolare (un “questo”), definito nella concretezza del “qui” e dell' “ora”. Ma ad un superiore livello di consapevolezza il “qui” e l' “ora” appaiono essere applicabili a qualsiasi contenuto, per cui il “questo” diventa un generico “questo”, un “questo” universale che non si riferisce a nulla di specifico. Allo stesso modo, il soggetto appare un “questi” universale, riferibile a qualsiasi soggetto. La certezza sensibile perde così ogni autonoma valenza conoscitiva e si risolve nell'universalità formale del linguaggio.
Si passa pertanto alla percezione, nella quale si intende cogliere la cosa nell'insieme delle qualità che la costituiscono. Ma anche in questo caso ci si trova di fronte ad una contraddizione, dal momento che la cosa percepita appare nel contempo come una e molteplice. Da una parte, infatti, essa è una molteplicità di qualità (il sale è bianco, sapido, ha un certo peso, ecc.); dall'altra, parte tali qualità si raccolgono nell'unità della cosa (il sale). Si perviene così alla consapevolezza che l'unità non è intrinseca alla cosa, ma è la coscienza che “si fa carico” di essa, collegando e unificando le diverse proprietà della cosa. Il terzo momento della coscienza è l'intelletto, al quale l'oggetto appare come fenomeno, cioè come manifestazione di forze che agiscono secondo una legge determinata e in essa trovano la loro unità. Questa legge, però, non fa più parte del fenomeno sensibile, ma è un elemento soprasensibile che dipende dal soggetto. Il che vuol dire che l'oggetto della sensibilità viene ricondotto alla coscienza e risolto in essa. In altre parole, la coscienza si rende conto del fatto che ciò che essa opponeva a sé come oggetto non è qualcosa di diverso da se stessa. In questo modo essa diviene consapevole di sé (non essendo più solamente un oggetto contrapposto a un oggetto), diventa cioè un' "autocoscienza".
L' autocoscienza così realizzata è però un'autocoscienza individuale, che trova di fronte a sé una pluralità di altre autocoscienze. Tra di esse, anzi, si instaura un rapporto conflittuale: infatti ciascuna di esse nutre un "appetito", rivolto al possesso della natura, il quale è in competizione con quelli delle altre autocoscienze. Per affermare la propria superiorità l'autocoscienza deve ottenere il riconoscimento da parte delle altre: questo è possibile soltanto attraverso una lotta a morte, in cui l'autocoscienza deve rivelare la propria superiorità mostrando di sapere mettere in gioco la vita e di non aver paura della morte. L'autocoscienza che riuscirà in questo, apparirà come il "signore", mentre quella che preferirà sottomettersi all'altra pur di aver salva la vita diventerà il "servo": sorge così la figura della signoria e servitù che rappresenta i rapporti di potere che si instaurarono tra gli uomini nel mondo antico. In virtù del suo stato di soggezione, il servo lavora per il suo padrone: "il signore è la coscienza che è per sé; ma non più soltanto il concetto della coscienza per sé, anzi coscienza che è per sé, la quale è mediata con sé da un'altra coscienza". Ma in questo modo, proprio attraverso il lavoro, egli si rende progressivamente conto di saper dominare la natura e di trasformarla in un suo prodotto, trasferendo in essa la sua personalità di uomo, a diversità del signore stesso il quale, incapace di provvedere da solo ai propri bisogni, rivela la sua "dipendenza" dal lavoro del servo e dalla natura. Tramite il lavoro, il servo prende quindi coscienza della sua "indipendenza" dalla natura e, conseguentemente, dal signore, conquistando in questo modo la propria libertà. Alla figura del "servo-signore", che descrive la progressiva conquista della libertà da parte dell'autocoscienza, succedono altre figure, che corrispondono a diverse forme e livelli di realizzazione di tale libertà.
Nello stoicismo quest'ultima esprime come "indifferenza" della coscienza interiore, e quindi del pensiero, nei confronti del mondo attuale esterno: "tale coscienza è quindi negativa verso la relazione signoria/servitù: il suo operare non è né quello del signore che trova la propria verità nel servo, né quello del servo che trova la propria verità nella volontà del signore e nel servizio resogli; anzi il suo operare è di essere libera sul trono e in catene e in ogni dipendenza del suo singolo esserci è di riservarsi l'inerzia che dal movimento dell'esistenza, così dall'agire come dal patire, si rifugia sempre nell'essenza semplice del pensiero. […] Lo stoicismo è la libertà che, uscendo sempre da lei stessa, ritorna nella pura universalità del pensiero". Nello scetticismo, invece, la libertà del mondo esterno si radicalizza nella sua completa negazione: " lo scetticismo è la realizzazione di ciò di cui lo stoicismo è soltanto il concetto: è l'esperienza effettuale di ciò che sia la libertà del pensiero. […] Nello scetticismo si palesa per la coscienza la totale inessenzialità e dipendenza di questo altro. […] Il pensiero diventa pensare perfetto che annienta l'essere del mondo molteplicemente determinato. […] Indica pure l'inessenzialità di ciò che ha importanza nel comportamento del dominare e del servire, e di ciò che anche per il pensare astratto conta come qualcosa di determinato. […] Nello scetticismo la coscienza fa in verità esperienza di sé come di una coscienza contraddicentesi entro se stessa." La libertà che nell'autocoscienza conquista rispetto al mondo esterno non elimina però un'altra e più profonda scissione: quella tra il finito e l'infinito, tra il mutevole e l'immutevole, cioè tra l'autocoscienza e la divinità. La consapevolezza di questa separazione, ancora irrisolta, dà luogo alla figura della coscienza infelice: essa "è la coscienza di sé come dell'essenza duplicata e ancora del tutto impigliata nella contraddizione. […] Assistiamo così alla lotta contro un nemico, contro cui la vittoria è piuttosto una sottomissione: aver raggiunto un contrario significa piuttosto smarrirlo nel suo contrario. La coscienza della vita, la coscienza dell'esistere e dell'operare della vita stessa, è soltanto il dolore per questo esistere e per questo operare; quivi infatti come consapevolezza dell'essenza ha soltanto la consapevolezza del suo contrario, ed è quindi conscia della propria nullità. Da questa posizione essa inizia la sua ascesa verso l'intrasmutabile". Per risolvere questa scissione e realizzare pienamente la propria libertà, l'autocoscienza cerca di perdersi nell'immutabile, nell'infinito: è il momento dell'ascetismo cristiano medioevale, in cui l'uomo (l'autocoscienza) si innalza a Dio e si perde in lui. Grazie a questa unificazione la coscienza riconosce la propria assolutezza, si rende conto di comprendere in sé l'intera realtà. Ma quando consegue "la certezza di essere ogni realtà ", l'autocoscienza diventa ragione; il che prima appariva qualcosa di esterno alla coscienza, ora non è più che un suo momento interno. Giunge così a compimento l' "idealismo", cioè la consapevolezza che la realtà è l'idea, il pensiero stesso. Questo processo di appropriazione della realtà da parte del pensiero conosce naturalmente diversi gradi. In un primo momento la ragione osservativa si appropria della natura conoscendola, cioè cercando nella struttura del mondo naturale (inorganico e organico) la legge della ragione stessa: "la coscienza osserva: vale a dire, la ragione vuol trovare e avere sé quale oggetto nell'elemento dell'essere, quale modo effettuale e sensibilmente presente".
Successivamente la ragione si accorge che, per oggettivarsi nella realtà, non può limitarsi a conoscerla, ma deve operare su di essa con l' azione individuale, prima facendone l'oggetto del proprio godimento (l'azione faustiana indirizzata al piacere) poi cercando di imporre al corso delle cose la propria norma interiore (la romantica "legge del cuore"). Ma l'obiettivo della completa appropriazione del mondo da parte della ragione è raggiunto soltanto quando l'autocoscienza si realizza non più come ragione individuale, in singole azioni e singole opere, ma come ragione universale, nei costumi e nelle istituzioni di un popolo, ossia nell'elemento dell'eticità. Non più confinata nella sfera dell'individualità, ma oggettivata nella concreta vita dei popoli, la ragione è diventata spirito. Le sue configurazioni non sono più soltanto " figure della coscienza", ossia modi in cui la coscienza si rappresenta soggettivamente la realtà, ma " figure di un mondo", ossia momenti oggettivi del processo storico. Il primo di questi momenti è la bella eticità del mondo greco, nel quale la vita dell'individuo è tutt'uno con quella della comunità. Ma (come sempre accade nel processo dialettico, fino a che non si consegue la completa comprensione filosofica della totalità assoluta) questa unità immediata e naturale dell'esistenza etica, non ancora penetrata dal punto di vista dell'Assoluto, contiene in sé il germe della scissione. Nella fattispecie la separazione è quella descritta nell' Antigone di Sofocle tra legge divina e legge umana, cioè tra la legge dello Stato, fatta di norme scritte, e quella della famiglia, fatta di consuetudini consolidate. Questa divisione si consuma nel mondo romano, dove individuo e Stato vengono contrapposti: la legge non è più la stessa volontà individuale che trova un'espressione pubblica nelle istituzioni dello Stato, ma un "diritto" che quest'ultimo impone estrinsecamente al cittadino come un potere che lo sovrasta. Nell'Antigone di Sofocle Creonte, re di Tebe, aveva vietato la sepoltura di Polinice, considerato traditore della patria, mentre aveva promosso quella del fratello di Polinice, Eteocle; però Antigone, sorella dei due defunti, non può permettere che il corpo di uno dei due fratelli rimanga insepolto e così gli getta sopra, in gesto simbolico, una manciata di polvere. Qui inizia il contrasto tra Antigone e Creonte: Antigone, seguendo le ragioni private, vuole seppellire il fratello caduto, Creonte, seguendo le ragioni dello Stato, è contrario. Nel contrasto Antigone/Creonte Hegel vede il conflitto tra la Famiglia e lo Stato. L'abbandono dell'eticità naturale, nella quale l'unità è ritrovata spontaneamente come già data, appunto, nello stesso elemento naturale, comporta il passaggio al "regno della cultura", dove viene rifiutato tutto quel che è immediato e si assegna valore soltanto a quel che è mediato e riflesso, ossia frutto di un'operazione del pensiero. La "filosofia della riflessione" (contro la quale Hegel aveva accanitamente polemizzato negli scritti precedenti) assume ora una duplice valenza. Da un lato essa ha un valore positivo, perché segna il superamento dell'immediatezza naturale (che si accontenta di cogliere la realtà così com'è data, senza conoscerla come spirito) e l'ingresso in quella "mediazione" del pensiero che è indispensabile per la comprensione dialettica della realtà. D'altro lato la "riflessione" riveste una connotazione negativa dal momento che è opera dell'intelletto o di una ragione intesa ancora intellettualisticamente come facoltà conoscitiva che, anziché cogliere la realtà nella sua totalità unitaria (concreta), la mette da parte e la frantuma in una molteplicità di aspetti parziali (astratti). Il punto più elevato della "riflessione" è conseguito dall' illuminismo, che tutto sottopone al vaglio della ragione riflettente, ingaggiando con la "fede" (che è una forma di sapere ancora immediato) una lotta che si conclude con la totale vittoria della riflessione. Ma la libertà della ragione che così subentra ai vincoli imposti dalla fede e dalla tradizione è una libertà puramente negativa, che tutto abbatte senza proporre nulla di positivo (come era accaduto, per esempio, durante il periodo rivoluzionario del Terrore giacobino). Dopo essere passato attraverso la negatività della riflessione, lo spirito giunge finalmente alla consapevolezza di se stesso. Nell'eticità del mondo greco l'unità sostanziale dello spirito era infatti ancora vissuta inconsapevolmente, in maniera ingenua, come qualcosa di offerto spontaneamente dalla natura. Soltanto attraverso il momento negativo della cultura e della riflessione dello spirito prende coscienza delle sue articolazioni interne, che gli appaiono, per ora, come una serie di opposizioni e scissioni. Al termine e in virtù di questo processo però lo spirito riconquista consapevolmente la propria unità, risolvendo in una totalità unitaria le opposizioni della riflessione, e prendendo coscienza di sé come di un Assoluto. Nella religione, però, quest'ultimo è colto ancora sotto forma di una rappresentazione, che varia in base al livello di sviluppo conseguito dalla coscienza dei diversi popoli: si avrà così una religione naturale (popoli orientali fino agli egizi), una religione artistica (popolo greco e romano), una religione rivelata (cristianesimo). Ma la rappresentazione, per quanto elevata, appare non adeguata a esprimere l'identità dello spazio con sé stesso. Infatti, in essa si mantiene la distinzione tra il soggetto (che rappresenta) e l'oggetto (rappresentato): Dio appare ancora come trascendente il mondo. Soltanto con il sapere assoluto, che è l'ultima figura fenomenologica, lo spirito diventa consapevole di sé in forma non rappresentativa, ma concettuale: solamente per mezzo del concetto filosofico, infatti, lo spirito può "pensare" se stesso, ossia essere insieme soggetto e oggetto del sapere. In questo modo la Fenomenologia non è più soltanto sviluppo, processo, storia della coscienza; essa è anche scienza, cioè conoscenza totalizzante e sistematica dello spirito nella complessità dei suoi momenti. Nella Fenomenologia, però, i due aspetti sono assolutamente indisgiungibili, dal momento che la scienza è conseguibile soltanto come risultato del processo conoscitivo, ossia della storia della coscienza.

CARATTERI GENERALI DELLA LOGICA
Per Hegel alla verità si perviene soltanto con la conoscenza della totalità. Il processo della costituzione dell'intero, però, può avvenire in due modi diversi. Per un verso, esso può venire rappresentato in termini di fenomenologia dello spirito, descrivendo il cammino della coscienza dalla più bassa e più parziale consapevolezza di sé come "coscienza naturale" al "sapere assoluto", cioè alla scienza perfetta della realtà totale e infinita. Per altro verso, esso può essere rappresentato in termini di sistema, analizzando le diverse determinazioni parziali in cui si articola la realtà e illustrando le relazioni che, appunto, organizzano tali articolazioni in tutto. L'esposizione completa del sistema hegeliano è contenuta nell'Enciclopedia delle scienze filosofiche, mentre ad altre opere o raccolte di lezioni è affidato all'approfondimento di alcune sezioni del sistema. L'oggetto generale della trattazione del sistema hegeliano è la totalità della realtà intesa come ragione assoluta e infinita, che Hegel chiama Idea. L'idea è però considerabile in tre modi diversi, che mettono capo alle tre articolazioni fondamentali del sistema. La logica, ora non più intesa come scienza propedeutica, ma come prima parte del sistema, è trattata diffusamente nella Scienza della logica e più concisamente nella prima parte dell'Enciclopedia delle scienze filosofiche. In essa l'Idea viene considerata "nell'elemento astratto del pensiero", cioè in base alle categorie che costituiscono la struttura formale della realtà conferendole un carattere assolutamente razionale. Sebbene queste categorie razionali non siano distinguibili dalla realtà stessa, nella logica esse vengono considerate (con un atto di astrazione, cioè di separazione dalla realtà concreta) come a sé stanti, indipendentemente dalla loro incarnazione al di fuori del pensiero. Hegel esprime questo concetto dicendo che la logica è la scienza dell' "Idea pura" dell'Idea in sé. Avvalendosi di una metafora, egli sostiene anche che essa riguarda" l'esposizione di Dio, come egli è nella sua eterna essenza prima della creazione della natura e di uno spirito infinito". Così come, secondo la tradizione filosofica, l'intelletto divino, prima della creazione, contiene già in sé il mondo non come realtà materiale, bensì come forma archetipa (ossia come modello originario), nello stesso modo la logica descrive la struttura razionale che costituisce l'elemento formale della realtà. Si tratta però soltanto di una metafora dal momento che, mentre secondo la teologia tradizionale l'intelletto divino trascende il mondo e quindi la forma archetipa esiste come una realtà ontologica indipendente da esso, per Hegel l'oggetto della logica è una mera astrazione: la struttura razionale del mondo è indisgiungibile dalla sua realtà metafisica ed è quindi totalmente immanente ad essa. La seconda e la terza parte del sistema sono la filosofia della natura e la filosofia dello spirito. La filosofia della natura ha per oggetto l'estraniazione dell'Idea da se stessa, ovvero la sua uscita dal puro elemento del pensiero, per realizzarsi nell'altro da sé, nell'elemento materiale della natura. In questo modo l'Idea perde il carattere universale che aveva nella logica e, determinandosi nelle singole realtà naturali, si particolarizza nel per sé. Nella filosofia dello spirito, invece, l'Idea ritorna in sé tessa, in quanto, risolvendo la natura in un momento interno al pensiero, si esprime come "spirito", come unità di razionale e di reale, di formale e di materiale, di pensiero astratto e di natura. In quanto tale essa rappresenta l' in sé e per sé. Tornando alla logica, bisogna notare che Hegel insiste nel differenziare la sua logica dalla logica formalistica (detta anche "logica generale"). Quest'ultima intendeva le forme del pensiero puro come entità concettuali aventi una funzione esclusivamente gnoseologica e un'esistenza soltanto soggettiva (cioè presente solo nella mente del soggetto pesante). Per Hegel le categorie logiche, oltreché determinazioni del pensiero puro, sono anche elementi costitutivi dell'essenza della realtà. In altri termini esse hanno un valore ontologico, oltreché logico. Pertanto la logica coincide con la metafisica : il pensiero puro è la realtà (o, come Hegel dice, la "cosa in sé") e la cosa in sé è il pensiero puro. Più tardi (nella prefazione alla Filosofia del diritto) Hegel riprenderà questo tema sostenendo l'identità di razionale e reale ("Tutto ciò che è razionale è reale, tutto ciò che è reale è razionale"). Con questo Hegel intende che, dal momento che le categorie hanno una portata insieme logica e metafisica, la struttura razionale del mondo non è qualche cosa che esista soltanto nella mente finita di un uomo (o anche in quella infinita di un Dio trascendente), ma è tutt'uno con l'essenza del reale. Nella Scienza della logica le categorie sono dette astratte non perché, come avviene nella logica tradizionale, siano prive di un contenuto materiale, ma perché esse vengono considerate a parte (in sé); separate dai loro contenuti reali, cioè appunto come espressioni del pensiero puro. Quest'operazione di astrazione (che per Hegel significa sempre separazione) è però del tutto unilaterale e non ci dà la vera scienza della realtà, che si avrà soltanto quando, nella filosofia dello spirito, pensiero puro e realtà oggettiva saranno di nuovo considerati nella loro intrinseca unità. La facoltà di concepire l'unità di logica e metafisica, ovvero di razionale e reale, di soggetto e oggetto, sta per Hegel nella ragione speculativa (che corrisponde a quello che nella Fenomenologia è il sapere assoluto).Viceversa, ogni filosofia che non giunga a quest'unità, irrigidendo l'astrazione dei diversi aspetti e consolidandola in un'opposizione definitiva e irresolubile, rimane sul piano dell' intelletto ; all'inizio dell' Enciclopedia Hegel stesso sintetizza le tre posizioni fondamentali della filosofia dell'intelletto astratto, ancora vive nella tradizione filosofica del suo tempo. La prima di esse è data dalla metafisica tradizionale (soprattutto quella di Wolff) la quale ha il merito di pensare che la ragione possa conoscere in maniera assoluta la realtà, espressa dagli oggetti metafisici fondamentali: l'anima, il mondo e Dio. Però questa realtà metafisica è ancora concepita in modo ingenuo come qualcosa di esterno alle forme soggettive del pensiero, intese come funzioni conoscitive indipendenti dal loro oggetto. La seconda posizione rappresenta la reazione a tale razionalismo dogmatico e può assumere a sua volta due forme. All’inizio essa si presenta come empirismo, che risolve il conflitto tra soggetto e oggetto semplicemente rinunciando all'oggettività e accontentandosi del valore soggettivo della conoscenza. Il criticismo kantiano, se da un lato recupera l'oggettività fondandola sulla sintesi categoriale dell'Io penso, dall'altro lato riporta l'oggetto alla dimensione della coscienza soggettiva attraverso la "rivoluzione copernicana": l'oggettività così recuperata non è quindi assoluta, ma esclusivamente fenomenica, perché vale soltanto per il soggetto che compie l'unificazione. La terza posizione è quella del sapere immediato, che caratterizza il pensiero di Jacobi e delle filosofie intuizionistiche romantiche, le quali, al fianco della conoscenza fenomenica dell'intelletto, riconoscono una conoscenza razionale che, senza passare attraverso le strutture dell'unificazione categoriale, coglie immediatamente il proprio oggetto, come una forma di fede. Ma in questo modo il sapere risulta inevitabilmente arbitrario e astratto, ossia soggettivo, e non si risolve quindi realmente l'opposizione di fondo tra soggettività e oggettività. Solamente facendo riferimento a una ragione che operi non intuitivamente, ma dialetticamente, dunque, le determinazioni soggettive del pensiero possono nello stesso tempo acquisire oggettività e realtà. Ed è a questo punto che Hegel illustra chiaramente i tre momenti in cui si scandisce il procedimento dialettico. Il primo momento è quello della posizione, detta anche comunemente tesi (dal greco tiqhmi, "pongo"); è il momento intellettuale che pone appunto i singoli aspetti della realtà, astraendoli (ossia separandoli) dal tutto al quale essi concretamente appartengono. Il secondo momento è la negazione (o antitesi): in esso la particolare determinatezza del dato separato o astratto (cioè degli aspetti finiti della realtà) viene confrontata con il suo opposto, con quel che, "de-finendola", la rende appunto finita e separata; questo secondo momento è quello propriamente dialettico, in cui si attua la mediazione tra quel che è posto come finito e quel che gli si oppone come altrettanto finito, preparando in questo modo la comprensione dell'intero. Il terzo momento è quello del superamento (in tedesco Aufbebung), detto anche comunemente sintesi (dal greco suntiqhmi, "pongo insieme"), dove l'opposizione delle determinazioni viene risolta in una superiore totalità. Il superamento comporta insieme l'atto del "togliere", in quanto l'opposizione come tale viene eliminata, e del "conservare", dal momento che, al contrario, gli opposti non vengono eliminati, ma soltanto considerati ad un livello superiore, nella loro non-opposizione, nell'unità che "toglie", ovvero risolve, il loro carattere di opposizione. Questo terzo momento è quello razionale-speculativo, come lo definisce Hegel stesso.

LE CATEGORIE DELLA LOGICA
La Scienza della logica si divide in tre parti, che riguardano rispettivamente la "logica dell'essere", la "logica dell'essenza" e la "logica del concetto". L'opera principia infatti dal concetto di essere, il quale, essendo il concetto più indeterminato e non presupponendo quindi per la propria determinazione nessun altro concetto (ma, viceversa, entrando nella determinazione di tutti gli altri), può costituire il "cominciamento" della scienza della logica. L'essenza di cui parla Hegel, infatti, è l'essere di Parmenide, assolutamente privo di determinazioni: è l'essere di cui non si può dire altro se non che è. Ma un essere così indeterminato (ossia l'essere che non è "nulla" di determinato) si traduce o, come Hegel si esprime, "trapassa" nel suo opposto, nel concetto di nulla. La separazione di essere e nulla è dunque soltanto apparente: in realtà (il che sfuggì a Parmenide, il quale irrigidì intellettualisticamente la loro opposizione) essi sono i due momenti, anche se opposti, di un' unica realtà. Questa loro sintesi, come ben aveva afferrato Eraclito, primo esponente del pensiero dialettico, è il divenire. Il divenire, superando l'indeterminatezza dell'essere e del nulla, conduce all'essere determinato, ovvero all'"alcunché", alla cosa che è questo e non è altro. La determinazione dell'alcunché deriva appunto dal fatto che esso si oppone all'"altro", a quel che è determinato diversamente da sé; esso è determinato in quanto viene "definito", limitato dall'altro, ossia in quanto è finito. L'insieme di tutti gli esseri determinati (ovvero degli aspetti finiti della realtà) è un infinito. Al concetto di infinito Hegel dà quindi un significato peculiare. L'infinito non è un processo senza termine e senza compimento, così come lo intendeva Fichte, per il quale l'Io ricomprende in sé all'infinito il Non-io. Questo per Hegel è il "cattivo infinito", che non è mai la totalità, perché lascia sempre risorgere qualcosa che è al di fuori di esso. Il vero infinito è una totalità conchiusa in se stessa : è la totalità infinita di tutti i finiti, la cui infinitezza deriva proprio dal fatto di non lasciare fuori di sé nulla, cioè di non essere più "de-finito" da nessun'altra cosa. La rappresentazione grafica del cattivo infinito è la retta, che in realtà non è mai data, in quanto prolungabile indefinitivamente; quella dell'infinito autentico è il cerchio, " la linea che ha raggiunto se stessa, che è conchiusa e tutta presente, senza inizio né fine ". Naturalmente questo vuol dire che il finito non ha un'esistenza propria, ma è soltanto un momento dell'infinito: in termini più hegeliani, la realtà del finito è soltanto ideale, mentre reale è solamente la totalità infinita. L'unica vera, infinita realtà è l'idea, la Ragione assoluta che ricomprende in sé ogni determinazione della realtà. La seconda parte della Scienza della logica, riguardante la "logica dell'essenza", si apre con l'espressione: " La verità dell'essere è l'essenza " ; con questa asserzione Hegel intende dire che l'essenza è l' essere considerato non nella sua immediatezza (come nella "logica dell' essere"), ma come oggetto della riflessione, del pensiero che lo conosce nella sua verità. Le articolazioni fondamentali di questa parte sono l' essenza come appare in se stessa, nella "riflessione" del pensiero (dove il termine "riflessione" perde la connotazione negativa che aveva nelle prime opere hegeliane, non riferendosi più soltanto all' attività "astratta" dell' intelletto, ma esprimendo piuttosto la funzione di "mediazione" esercitata dal pensiero in generale di contro all' "immediatezza" del dato sensibile); l' essenza come si manifesta nell' esistenza, cioè il fenomeno; e la realtà effettiva come unità di essenza e di esistenza. Anche in questo caso non è ovviamente importante seguire il succedersi delle varie determinazioni dell' essenza. Soffermiamoci dunque soltanto sulle categorie della prima sezione, corrispondenti a quelle che la logica tradizionale considerava "leggi universali del pensiero". La prima determinazione è quella dell' identità, per cui ogni essenza viene riferita soltanto a se stessa, appunto come identica a se stessa. La vera identità, per Hegel, è però soltanto quella conseguita dialetticamente, attraverso la negazione e il ritorno in sé dell' identico. Il "principio di identità" su cui tradizionalmente si fonda questa categoria non è dunque sufficiente, dal momento che si limita all' affermazione dell' immediatezza, ovvero a una pura e semplice tautologia (A = A). Il conseguimento della vera identità deve dunque passare attraverso la negazione dell' identità, cioè attraverso la differenza. Quest' ultima si manifesta dapprima come diversità, intesa come differenza immediata, ancora indeterminata; poi si traduce in opposizione, cioè differenza determinata da un oggetto che si pone, o meglio, si oppone, come "altro"; infine, come contraddizione, nella quale si chiarisce che gli opposti, se da un lato si negano vicendevolmente, essendo l' uno il contrario dell' altro, d' altro lato si "pongono" vicendevolmente, dal momento che l' uno esiste in quanto esiste l' altro. Se nella logica aristotelica la contraddizione comporta l' esclusione di uno dei termini contradditori, in quanto inconciliabile con l' altro, in quella hegeliana essa diventa la condizione stessa della determinabilità dell' oggetto: l' elemento contraddittorio è quel che, essendo affermato in uno degli opposti e negato nell' altro, li lega insieme e permette di scorgere la loro essenziale unità a un livello superiore a quello dell' opposizione. Alla logica della non-contraddizione della tradizione aristotelica Hegel oppone la logica della contraddizione. E così la contraddizione non deve essere rimossa ma, al contrario, riconosciuta come fondamentale: infatti, l' ultima categoria della riflessione, il fondamento, non è altro che la contraddizione "risolta" in una superiore unità. L' ultima parte della Scienza della logica è "la logica del concetto ", che comporta l' unione dell' essere (immediato) e dell' essenza (riflessa), consentendo in questo modo l'intelligibilità dell'essere. A sua volta, questa parte si divide in: 1) dottrina della soggettività (o del concetto formale), nella quale si esaminano gli elementi in cui si articola l' attività del soggetto pensante: il concetto, il giudizio, il sillogismo (che in questa sede non possono essere oggetto di trattazione); 2) dottrina dell' oggettività, che riguarda i diversi momenti dello sviluppo dell' oggetto del pensiero, cioè la natura: meccanismo, chimismo, teologia (temi ripresi più ampiamente nella "filosofia della natura"); 3) dottrina dell' Idea, intesa come "unità assoluta del concetto e dell' oggettività", cioè come realtà razionale considerata nella sua totalità.

LA FILOSOFIA DELLA NATURA
La filosofia della natura, illustrata nell' Enciclopedia delle scienze filosofiche, è la seconda parte del sistema hegeliano. La prima parte di esse, la logica, riguarda l'Idea in sé, considerata nella forma del pensiero puro. Per oggettivarsi, per essere oggetto a se stessa, l'Idea deve quindi uscire dall'"in sé", esteriorizzarsi, diventare "altro" rispetto al pensiero puro. Questa "Idea nella forma dell'essere altro" è la natura. Se il pensiero puro (l'Idea in sé) è universalità, necessità, unità, la natura (l'Idea fuori dal sé) è, al contrario, particolarità, accidentalità, dispersione, "per sé". La natura è infatti caratterizzata dall'estraneità non solo nel senso che essa è "altro" rispetto al pensiero puro, ma anche nel senso che è estrinsecità in se stessa, ossia dispersione di momenti particolari che non trovano un principio e una legge unitari. Però anche la natura, come le altre parti del sistema, obbedisce ad uno schema dialettico. Infatti, essa si presenta come ' un sistema di gradi di cui l'uno esce dall'altro necessariamente ed è la prossima verità di quello da cui risulta '. Questi, che sono poi 3, costituiscono una gerarchia in cui si rivela un progressivo passaggio dall'estrinsecità all'unitarietà attraverso il graduale affermarsi di quell'elemento dell'individualità che troverà il suo più proprio campo di applicabilità nell'ultima parte del sistema hegeliano, la filosofia dello spirito. La filosofia della natura in Hegel ha dunque una funzione prevalentemente sistematica: essa è il necessario momento di passaggio della logica alla filosofia dello spirito, ossia dal pensare che non ha un oggetto esterno a sé, all'autocoscienza dell'Assoluto come unità sostanziale di soggetto e oggetto, di pensiero e realtà, di finito ed infinito. Ma questo passaggio può avvenire soltanto attraverso la negazione dell'Idea in sé, attraverso l'esperienza di quel che non è pensiero puro, di quel che è puro oggetto senza soggetto, ossia appunto la natura. Il primo grado della natura è la meccanica, che rappresenta il momento dell'estrema particolarità ed estrinsecità. In essa, infatti, l'unità della forma è imposta soltanto dal di fuori, attraverso leggi astratte (le leggi del movimento della materia) e concetti anch'essi astratti (come lo spazio ed il tempo). Il secondo momento è la fisica, nella quale, attraverso la sostituzione dell'analisi qualitativa a quella quantitativa, comincia a sorgere l'individualità, dapprima come "individualità universale" (le qualità fisiche degli elementi fondamentali), poi come "individualità particolare" (le qualità fisiche considerate nei singoli oggetti: peso specifico, coesione, suono, colore) ed infine, come " individualità totale " (le qualità fisiche considerate come espressioni particolari di tutta la natura: la struttura dei corpi, il magnetismo, l'elettricità, il chimismo). Il terzo grado è la fisica organica, in cui emerge l'elemento dell' " individualità soggettiva " tenuta su da un'unità che presenta già caratteri ideali. I tre momenti interni alla fisica organica (natura geologica, natura vegetale, natura animale) sono interpretati in chiave teologica e vitalistica, in modo da essere finalizzati gerarchicamente alla realizzazione dell'individualità soggettiva, la quale trova piena espressione soltanto laddove le parti animate diventano membra di un unitario organismo animale. Hegel è fortemente polemico con le concezioni romantiche della natura. Rispetto ad esse egli dissente su due punti fondamentali. Innanzitutto egli non accetta l'identificazione della natura con Dio (o comunque in riconoscimento di un carattere divino della natura). Questo equivarrebbe a identificare la natura con la sostanza infinita, mentre per Hegel essa rappresenta soltanto una "caduta", una "negazione" (per quanto necessaria per la successiva realizzazione dialettica dello spirito) rispetto alla purezza dell'Idea in sé. In secondo luogo, Hegel non condivide la concezione romantica e soprattutto propria di Schelling di una natura sostanzialmente convergente con lo spirito: al contrario, per lui spirito e natura si oppongono e lo spirito non può sorgere se non laddove la natura in quanto tale (ovvero in quanto non-pensiero, in quanto esteriorità e occidentalità) viene negata e risolta in un momento interno all'Idea. In comune con la filosofia romantica della natura, Hegel ha invece la profonda ostilità alla tradizione newtoniana che aveva imparato nel Settecento. La fisica newtoniana (e, prima ancora, galileiana) era fondata sulla convergenza di due metodi: metodo empirico e metodo matematico. Nessuno dei due piace ad Hegel. All'esperienza egli oppone il metodo speculativo, che non si limita a connettere rapsodicamente le testimonianze della sensibilità, ma definisce ogni aspetto particolare della realtà mediante il suo rapporto con il tutto inteso come sostanza infinita ed assoluta. Al metodo matematico, che impone agli oggetti una razionalità astratta ed estrinseca, Hegel sostituisce il metodo dialettico, che mostra l'intrinseco derivare di un aspetto dall'altro in una reciproca relazione di opposizione e di unità. Inoltre, tanto l'esperienza quanto la matematica hanno il comune difetto di accontentarsi del fato, sia esso sensibile (come nel caso dell'esperienza), sia esso intuitivo (come nel caso della matematica), che esse assumono ingiustificatamente come punto di partenza: al contrario la filosofia speculativa, con il suo metodo dialettico, fornisce un fondamento assoluto ad ogni aspetto della realtà, riconducendolo, attraverso successive mediazioni, alla totalità infinita (che ovviamente, per Hegel, è fondata su se stessa).

LA FILOSOFIA DELLO SPIRITO SOGGETTIVO
Dopo essersi estraniata dalla natura, l'Idea può portare a compimento il circolo dialettico ritornando in se stessa arricchita dall'esperienza della negazione. Al temine di questo processo, infatti, l'Idea non è più soltanto in sé, mero pensiero primo di oggettivazione, ma in sé e per sé: "pensiero puro" e "natura" sono ormai congiunti in una concreta realtà, nella qualche le categorie del pensiero astratto sono dispiegate nelle loro determinazioni oggettive. L'Idea che ha questa consapevolezza di sé, come "in sé e per sé", è lo spirito. La filosofia dello spirito rappresenta quindi la terza ed ultima parte del sistema hegeliano e viene illustrata nella corrispondente sezione dell'Enciclopedia delle scienze filosofiche. Essa si articola, come di consueto, in tre momenti dialettici. Il primo è lo spirito soggettivo, il quale rappresenta la consapevolezza che lo spirito ha di sé in quanto singolo individuo umano e giunge al culmine con la presa di coscienza della sostanziale liberà dell'uomo. Il secondo è lo spirito oggettivo, in cui qualche la liberà umana (termine del processo dello spirito soggettivo) si realizza, o, appunto, si "oggettiva" nella comunità sociale e delle istituzioni. Il terzo momento è lo spirito assoluto, nel quale lo spirito acquista consapevolezza di sé come Assoluto, ossia come totalità della realtà razionale. Anche lo spirito soggettivo si divide in tre momenti interni. La sua prima determinazione è quella dell' anima, concepita come il principio vitale che è alla base dello sviluppo biologico dell'uomo. In questa fase lo spirito è ancora uno spirito naturale, dal momento che le sue manifestazioni sono ancora strettamente legate con la base naturale da cui prorompono. Però Hegel ordina tali manifestazioni in una scala progressiva che va dalle determinazioni in cui è più forte il condizionamento della natura a quelle in cui comincia a manifestarsi l'indipendenza dell'individuo da essa. L'antropologia, che è la scienza dell'anima così concepita, si occuperà quindi dapprima delle manifestazioni vitali che l'uomo ha in comune con l'intero universo o con il pianeta terra, poi dei ritmi naturali della vita dell'uomo (crescita, riproduzione sessuale, rapporto sonno-veglia come indizio dell'emergere della coscienza), poi ancora delle condizioni della vita sensitiva, per giungere, tra le ultime determinazioni, all'analisi dell'abitudine, quella "seconda natura" tramite cui l'uomo comincia a dominare la sua corporeità attraverso gli stessi meccanismi corporei, in una stretta unione di libertà e necessità. L'anima non è quindi intesa da Hegel come principio spirituale da opporsi alla materialità corporea, bensì come un principio vitale in cui natura e spirito, materia e pensiero sono ancora strettamente congiunti (di qui l'assurdità della questione se l'anima sia materiale o immateriale) anche se, in seguito alla sua evoluzione interna, essa giunge, nei suoi gradi più elevati, alle prime concrete manifestazioni di libertà spirituale. Il secondo momento dello spirito soggettivo è la coscienza, nella quale il processo di realizzazione della libertà individuale si estrinseca non più nella liberazione della natura, ma nella progressiva consapevolezza dell'unità tra soggetto conoscente e oggetto conosciuto. In questa sezione Hegel riprende dunque le tesi sostenute nelle prime parti della Fenomenologia dello spirito. La fenomenologia è infatti la scienza che si occupa della coscienza, e le articolazioni interne a quest'ultima sono la coscienza propriamente detta, l'autocoscienza e la ragione. Vengono invece tralasciate le ultime due determinazioni studiate nell'opera del 1807 - lo spirito (che in quell'opera significava "spirito oggettivo") e il sapere assoluto (che equivaleva a "spirito assoluto") - le quali saranno trattate nelle successive sezioni dell'Enciclopedia. Il processo fenomenologico descritto nella Fenomenologia dello spirito viene quindi ridimensionato nell'Enciclopedia, apparendo non più come l'introduzione generale alla filosofia, bensì come una parte specifica (e debitamente amputata) del sistema. Questo può voler dire che nella definizione sistematica della realtà assoluta, nella qualche ciascun momento particolare riceve la sua giusta collocazione rispetto al tutto, anche la vicenda della coscienza, che è un punto di vista particolare finché non arriva alla consapevolezza della propria identità con lo spirito, deve occupare soltanto un luogo specificatamente determinato. Ma la tensione tra le due descrizioni del processo fenomenologico lascia comunque aperti numerosi problemi interpretativi. La terza manifestazione dello spirito soggettivo è lo spirito propriamente detto, che indica qui ancora la coscienza individuale, giunta però alla consapevolezza dell'identità tre sé e il proprio oggetto. La scienza che studia le tre determinazioni dello spirito così definito è la psicologia. Inizialmente lo spirito appare come spirito teoretico, nel quale si sottolinea il momento della conoscenza (e quindi l'azione dell'oggetto sul soggetto). In secondo luogo, esso si manifesta come spirito pratico, nel qualche prevale il momento della volontà (e quindi l'azione del soggetto sull'oggetto). Operando la sintesi di questi due momenti, che sono dialetticamente correlati, lo spirito si conosce infine come volontà libera. Ma quest'ultima, ormai pienamente consapevole, tende necessariamente a realizzarsi nel mondo esterno a sé, cioè ad oggettivarsi: il che comporta il passaggio dallo spirito soggettivo a quello oggettivo, ossia dalla sfera dell'interiorità soggettiva al mondo oggettivo della società e delle istituzioni.


FILOSOFIA DELLO SPIRITO OGGETTIVO
Lo spirito oggettivo è il momento in cui lo spirito si realizza anche esteriormente nella concretezza delle istituzioni storicamente esistenti; ad esso Hegel dedica, oltre ad una parte dell'Enciclopedia delle scienze filosofiche, anche i Lineamenti di filosofia del diritto (1821), che sono l'unica opera di rilievo pubblicata durante il periodo berlinese. Proprio nella Prefazione dei Lineamenti è contenuta la famosa affermazione hegeliana relativa alla coincidenza di razionale e reale: “ciò che è razionale è reale; e ciò che è reale è razionale”. Con questo Hegel non intende dire, come talvolta si è creduto, che tutto quel che esiste è assolutamente razionale e deve esistere necessariamente: le manifestazioni particolari dell'esistenza, alle quali con compete nessuna razionalità intrinseca, sono del tutto accidentali e possono indifferentemente esistere o non esistere. Egli vuole invece sostenere che quel che è in sé intrinsecamente ed assolutamente razionale non può non essere reale, dal momento che la ragione e la realtà sono la stessa cosa (identità di logica e metafisica). E a queste realtà intrinsecamente razionali appartengono innanzitutto le determinazioni universali dello spirito oggettivo - le istituzioni, i costumi e lo Stato. La prima determinazione dello spirito oggettivo è il alla diritto astratto o formale. Esso corrisponde in gran parte alla concezione del diritto naturale o razionale come era stata elaborata dalla tradizione giusnaturalistica (nella quale rientrano ancora Kant e Fichte). Lo scopo del diritto è infatti quello di trovare, attraverso le astratte procedure dell'intelletto, un "sistema delle libertà individuali" che consenta a ciascun individuo di oggettivare la propria volontà libera senza interferire con quella degli altri. L'individuo non è ancora concepito come membro di un organismo politico concreto, ma solo come persona giuridica, ovvero come un essere astratto caratterizzato esclusivamente dalla facoltà di essere, appunto, latore di diritti. Il termine "persona" è qui da prendersi nella sua accezione latina originaria di "maschera teatrale": in essa quel che conta non è la vera e semplice natura dell'individuo, diversa da caso a caso, ma la semplice capacità esteriore, eguale per definizione in tutti gli individui, di compiere atti giuridicamente validi. Per questo la persona giuridica si deve esprimere in una determinazione altrettanto esteriore, che è la proprietà, così come carattere estrinseco hanno i contratti che regolano i rapporti giuridici tra individui diversi. Se nel diritto si realizza una forma di universalità astratta ed esteriore, nella alla moralità (che è il secondo momento dello spirito oggettivo) tale universalità è completamente interiorizzata. Il protagonista della moralità è ancora l'individuo, ma esso viene qui considerano non più nella sua esteriore capacità di possedere una proprietà e di entrare in un contratto, bensì nella dimensione interiore della alla coscienza morale. La forma più alta della moralità è esemplificata dall'etica kantiana, cioè appunto dalla legge del dovere nella quale la coscienza si erge a legislatrice universale. Ma appunto perché puramente interiore, la moralità viene posta di fronte al contrasto tra il bene universale cui essa aspira e il benessere o la felicità particolare cui ogni uomo naturalmente mira; e soprattutto essa conduce al conflitto tra l'essere e il dover essere, tra la razionalità oggettiva della realtà e la razionalità ideale del comando morale. In altre parole, se il diritto appariva insufficiente a causa della sua esteriorità, della sua incapacità di coinvolgere l'interiorità dello spirito, la moralità è inadeguata perché si esaurisce nell'interiorità, senza mai conseguire una vera oggettivazione esterna. Il terzo momento dello spirito oggettivo è l' alla eticità, nella quale l'universalità non si manifesta più né come legge formale (diritto), né come identità interiore (moralità), bensì come un ordine reale che esprime la vita di un popolo. Il carattere fondamentale dell'eticità è quindi la alla concretezza, dal momento che in essa trovano conciliazione gli opposti (e in quanto tali astratti) caratteri del diritto e della moralità. In essa si esprimono insieme l'interiorità dello spirito, che anima le istituzioni e ne costituisce l'intima razionalità, e l'esteriore oggettività con cui le istituzioni operano nella vita sociale e politica di una comunità. Oltre alla concretezza, l'eticità è essenzialmente caratterizzata dall' organicità. In essa, infatti, gli individui non sono più considerati né come astratte persone giuridiche, né come semplici coscienze, bensì come membri di un tutto di cui sono parti indissolubili: la vita dell'individuo è un momento della vita stessa della comunità etica e viene da essa informata in ogni suo aspetto. L'eticità si articola a sua volta in tre momenti distinti. La alla famiglia è la prima espressione di concreta società organica: in essa gli individui non sono più atomi sociali, ma membri di uno stesso organismo. Nonostante abbia ancora un fondamento naturale (l'unione sessuale e la generazione fisica), la famiglia si spiritualizza attraverso il matrimonio e l'educazione dei figli, manifestando così la sua intima sostanza etica. Con il conseguimento della maturità da parte dei figli, la famiglia si dissolve dal punto di vista etico, preparando il passaggio alla società civile, che è la seconda determinazione dell'eticità. La società civile è infatti concepita innanzi tutto come sistema dei bisogni dei singoli individui. Si tratta cioè di elaborare un sistema nel quale i bisogni "concreti" dell'individuo, che spesso, nella loro particolarità, contrastano con quelli degli altri individui, possano essere trasformati in bisogni più generale (o "astratti") che interessino non più soltanto il singolo, ma l'intera società. A tale scopo Hegel distingue nella società civile tre diversi alla ceti o stati (nella stessa concezione del francese étais) preposti a diverse funzioni complementari. Lo "allo stato sostanziale " è quello legato alla coltivazione della terra (che è appunto la base, la "sostanza" della vita economica del paese) e riunisce in un'unica finalità i grandi proprietari terrieri e i contadini che lavorano materialmente nei campi. Lo " allo stato industriale" raccoglie tutti quelli che elaborano materie prime o provvedono alla diffusione delle merci. E, dulcis in fundo, lo "stato generale" è quello dei funzionari dello Stato, nei quali l'interesse economico privato coincide con il servizio prestato alla comunità. Per l'individuazione del sistema dei bisogni Hegel fa ampio riferimento all'opera degli economisti classici (Smith, Ricardo), condividendo con essi (oltre all'analisi di alcuni problemi specifici, come la divisione del lavoro, la distribuzione del capitale, l'automazione della produzione) la netta alla distinzione tra società civile e società politica. Quest'ultima è la comunità dei cittadini (Hegel Si serve del francese citoyens) che operano per un fine generale, e si identifica con lo Stato. Al contrario, la società civile è l'insieme degli individui privati, dei "borghesi" (bourgeois) che operano per i propri scopi particolari, e quindi primariamente in vista del proprio utile economico. In quanto particolari, ovvero legati ai fini del singolo privato, gli interessi economici sono originariamente in reciproco contrasto. Di qui sorge il bisogno di elaborare un sistema che trasformi la loro naturale incompatibilità in una artificiale complementarità. Il sistema dei bisogni, infatti, non rispecchia la sostanziale organicità della vita etica, ma è il prodotto artificiale di un'operazione dell'intelletto (che costitutivamente procede per divisione del tutto in parti) costruisce non una vera totalità (che sarebbe la realtà stessa), ma solamente un aggregato nel quale le parti sono connesse esteriormente e forzosamente le une alle altre. La stessa società civile soffre dunque di questo vizio d'origine, e appare come uno "Stato esteriore", come uno "Stato di necessità e intellettualistico" che deve risolversi nel vero Stato, il quale nasce spontaneamente dall'interno della stessa eticità, come fondamento e coronamento insieme della vita di un popolo.

LO STATO E LA STORIA UNIVERSALE
Il terzo momento dell'eticità è lo Stato. Esso viene definito da Hegel "la realtà dell'idea etica", ovvero la piena realizzazione dell'eticità. Lo Stato infatti è per Hegel la più elementare manifestazione della ragione assoluta, colta nell'elemento immediato dell'esistenza di un popolo e delle sue istituzioni. Lo sviluppo dialettico dello Stato di articola in tre momenti. Per prima cosa la costituzione dello Stato determina i tre poteri che regolano la vita politica della comunità: il potere legislativo, il potere governativo (esecutivo) e il potere sovrano, che compendia nella figura del monarca l'aspetto dell'individualità (il sovrano è una persona singola, cui spetta la decisione finale) e quello dell'universalità (il sovrano rappresenta lo Stato e decide in base al quadro normativo generale apprestato dal potere legislativo). Per questo Hegel si dice a favore della monarchia costituzionale, nella quale il sovrano non comanda arbitrariamente (e quindi non è pura soggettività), ma fonda la propria volontà sul rispetto della volontà popolare (ossia della componente oggettiva dello Stato). I sudditi fanno infatti sentire la propria voce attraverso l'attività legislatrice delle due Camere in cui si divide il potere legislativo: la prima, riservata al ceto agrario, è espressioni delle componenti politiche più conservatrici e ha la funzione di garantire la continuità con il passato; la seconda, composta dai rappresentanti delle corporazioni in cui si divide il ceto artigianale-manifatturiero, è portavoce delle forze più innovatrici e progressistiche della società civile. Lo Stato si manifesta come diritto statale esterno, ossia come insieme dei rapporti che lo connettono e lo contrappongono agli altri stati. Avendo consapevolezza di sé come totalità etica, ovvero come massima espressione dell'eticità, nella quale si manifesta l'essenza stessa dell'Assoluto, ogni Stato non riconosce al di sopra di sé nessuna autorità superiore. Non esiste quindi un diritto internazionale che non si risolva semplicemente nei singoli trattati che gli Stati possono sovranamente stipulare ed altrettanto sovranamente infrangere. In caso di divergenza di interessi fra gli Stati, la guerra è il solo modo per dimostrare il diritto dell'uno sull'altro. Il terzo momento dello sviluppo dialettico dello Stato è la Storia universale. Ad essa vengono dedicati gli ultimi paragrafi dei Lineamenti di filosofia del diritto (opera che tratta soltanto dello spirito oggettivo), così come gli ultimi paragrafi della sezione dell' Enciclopedia relativa alla filosofia dello spirito oggettivo. Il momento della storia universale si colloca infatti in una posizione intermedia tra lo spirito oggettivo e lo spirito assoluto, dal momento che in essa gli Stati, che sono la massima espressione dello spirito oggettivo, si manifestano anche come ragione assoluta. Questo processo è illustrato più ampiamente da Hegel nelle Lezioni sulla filosofia della storia naturale che egli tenne a Berlino in più corsi universitari. Lo spirito universale, la ragione assoluta che coincide con l'assoluta realtà, sarà colto nella sua purezza nei diversi momenti della filosofia dello spirito assoluto: l'arte, la religione e la filosofia. Esso può però rivelarsi anche in una maniera più immediata e più concreta nello spirito di un popolo, ovvero in quel insieme di manifestazioni etiche e istituzionali (costumi, diritto, religione, costituzione politica etc) in cui si sviluppa l'esistenza di un popolo. In questa sua determinazione nell'elemento dell'esteriorità oggettiva, della dimensione spazio-temporale, cioè della storia, lo spirito universale prende il nome di spirito del mondo. Ogni spirito di popolo potrà però esprimere più o meno adeguatamente lo spirito del mondo, a seconda della sua maturità etica, rapportata sia al momento dello sviluppo storico in cui fiorisce sia alla sua superiorità o inferiorità rispetto agli altri popoli. In ogni fase del processo storico vi sarà dunque un popolo il cui spirito rappresenta la miglior incarnazione dello spirito del mondo in quel momento, il più alto grado di autocoscienza possibile per lo spirito universale in quel punto del suo processo di realizzazione. In virtù di questa sua superiorità, tale popolo acquista una posizione di egemonia su tutti gli altri, ai quali impone in modo assoluto la sua forza, il suo diritto e la sua cultura. Questo vale però soltanto fino a che il popolo può adeguatamente esprimere l'universale: quando, a causa dell'inarrestabile sviluppo dello spirito del mondo, esso non sarà più in grado di rappresentare la nuova e più elevata autocoscienza spirituale che sta emergendo, questa funzione passerà, insieme al diritto e al dominio assoluto, a un altro popolo. In questo modo gli stessi popoli dominanti appaiono semplici strumenti delle manifestazione dello spirito del mondo, i quali vengono abbandonati al loro destino non appena abbiano consumato la loro energia ed assolto la loro funzione. Così l'individualità della storia (tanto quella nazionale quanto quella personale) obbediscono ad una "astuzia della ragione" universale, della quale persegue i disegni anche quando credi di agire in vista di fini particolari. In base a questi principi, Hegel ravvisa 4 fasi fondamentali del processo storico, ovvero 4 mondi storici (dove il termine “mondo”, come nell'espressione “spirito del mondo”, mette in risalto la dimensione esteriore, spazio-temporale in cui si sviluppa la storia). Questi mondi sono connessi al significato unitario del processo storico, in cui si manifesta a poco a poco il carattere essenziale dello spirito, ossia la libertà. E così nel mondo orientale, in cui lo spirito non è ancora pervenuto alla coscienza della propria libertà, ma è ancora intriso di naturalità, gli uomini non sanno di essere liberi: solo uno di loro è libero (il principe, l'imperatore) ma anche lui, esercitando una libertà solo arbitraria e tirannica, non è libero come uomo. Nel mondo greco e nel mondo romano nasce a poco a poco la coscienza della libertà: presso di loro alcuni sono liberi, altri non lo sono. La coscienza della libertà dell'uomo in quanto tale, ancora mancante nei due mondi classici, si realizza invece nel mondo cristiano-germanico, in cui il cristianesimo, abbracciato e propagato dalle nazioni germaniche, mostra il valore assoluto dell'umanità tramite il dogma dell'incarnazione. Questo non vuol dire ancora che tutti gli uomini sono liberi, ma solo che si sa che l'uomo in generale è libero: la progressiva realizzazione di questa consapevolezza è la struttura portante della storia europea dall'avvento del cristianesimo fino alla storia del mondo germanico moderno. Ecco allora che Hegel può sostenere, con un'espressione destinata a grande successo, che “possiamo essere liberi solo se tutti lo sono”.

LA FILOSOFIA DELLO SPIRITO ASSOLUTOLo spirito assoluto universale si manifesta già nella vita etica dello Stato e, specialmente, nello sviluppo della storia universale, come “spirito del mondo”. In questi casi però la manifestazione dell'universale è legata alla dimensione dell' oggettività, vale a dire dell' esteriorità del mondo politico e storico. L' idea non è ancora ritornata completamente a sé, non è ancora giunta a comprendersi nella purezza dell'elemento spirituale, che risolve in sé, come una sua componente, l'oggettività del mondo storico-politico. Questo accade soltanto nel terzo ed ultimo momento del processo dello spirito, che Hegel designa con il nome dello spirito assoluto. Lo spirito assoluto è la ragione infinita che diventa finalmente consapevole di se stessa, dopo essere passata per le sue determinazioni finite ed averle progressivamente conosciute come tali: pertanto esso non si contrappone al finito come qualcosa di trascendente ad esso, ma non è che lo stesso finito che si comprende come infinito o, meglio, come totalità dialettica dei finiti. Lo spirito assoluto si articola in tre momenti: l'arte, la religione e la filosofia. Oltre che nelle corrispondenti sessioni dell' Enciclopedia, arte, religione e filosofia sono trattate anche nei corsi universitari che Hegel dedicò loro in modo specifico: le Lezioni sull'estetica, le Lezioni sulla filosofia della religione, le Lezioni sulla storia della filosofia. Il contenuto delle tre determinazioni dello spirito assoluto è sempre lo stesso, dal momento che unico è il loro oggetto: l'Assoluto, l'infinito, in termini religiosi, Dio. Ogni momento dello spirito assoluto coglie però l'infinito in una forma diversa, più o meno adeguata ad esprimerlo. Sulla base di questa maggiore o minore adeguazione della forma espressiva si sviluppa anche l'ordine di successione dell'arte, della religione e della filosofia. L'arte è il momento in cui l'assoluto viene colto in forma immediata, attraverso l' intuizione sensibile. Nell'arte, infatti, una determinata realtà sensibile (che può avere qualsiasi contenuto specifico) si configura in maniera tale da lasciare trasparire l'Idea assoluta: per questo Hegel dice che in essa l'Assoluto appare come ideale. Non tutte le intuizioni sensibili, però, sono ugualmente adeguate ad esprimere l'Idea. Anche nel caso dell'arte si assiste ad un processo di sviluppo tramite il quale si perviene ad una sempre maggiore consapevolezza dell' essenza infinita, per quanto questo è consentito nella limitata forma espressiva della sensibilità. I momenti fondamentali di tale processo coincidono con le grandi tappe della storia dell'arte. La prima determinazione è costituita dall' arte simbolica, che storicamente corrisponde all'arte orientale (fino agli egizi), e trova nell' architettura la sua forma espressiva caratteristica. In essa lo spirito non ha ancora una conoscenza adeguata dell' Idea: per questo anche le forme sensibili in cui si tenta di esprimere l'Assoluto mostrano la loro insufficienza e possono valere solo come simboli del contenuto infinito che ancora sfugge. La seconda determinazione è l'arte classica che si esprime prevalentemente nella forma della scultura. Infatti, proprio attraverso la raffigurazione artistica del corpo umano e della sua perfezione (si pensi alle statue di Fidia o di Prassitele), l'arte classica giunge a realizzare il pieno equilibrio tra la forma sensibile ed il contenuto spirituale che essa deve manifestare. Hegel aderisce quindi al neoclassicismo sostenuto, soprattutto in Germania, da autori come Johann Joachim Winckelmann, che vide nell'arte greca l'apice delle possibilità espressive nel campo dell' estetica, dal momento che la forma artistica raggiunge in essa la massima aderenza possibile all'idea del bello assoluto. Il terzo momento dello sviluppo universale dell' arte è costituito dall' arte romantica (o cristiano romantica, visto che essa prende l'avvio dal cristianesimo post-classico), la quale trova espressione soprattutto nella pittura, nella musica e nella poesia. Come già nell'arte simbolica, anche nell'arte romantica si verifica uno squilibrio tra forma e contenuto: non più però perché non si conosca adeguatamente l'Idea che deve fungere da contenuto della forma ma, viceversa, perché si giunge alla consapevolezza che l'infinito del contenuto, ossia dello spirito, non può essere adeguatamente espressa nella finitezza della forma sensibile. Per questo l'arte romantica trascura le forme artistiche nelle quali l'elemento sensibile è più forte, come l'architettura e la scultura, per concentrarsi su quelle in cui esso diventa sempre più tenue: nella pittura si perde il fattore della corporeità e rimane soltanto il colore, nella musica viene meno ogni dimensione figurative e resta solamente il suono, nella poesia infine anche il suono assume una forma meramente spirituale per mezzo della parola. L'arte romantica segna per Hegel la morte dell'arte: espressione per molti versi problematica, la quale non significa che dopo l'esperienza romantica non si possa più fare arte, ma soltanto che con essa lo spirito giunge definitivamente alla consapevolezza che l'arte è una forma inadeguata di espressione dell'Assoluto e che essa deve quindi essere superata da alter forme di conoscenza. La determinazione che succede all' arte e che elimina le inadeguatezze dell' intuizione sensibile è la religione. In essa l'Assoluto viene colto sotto forma di rappresentazione intellettuale. La rappresentazione presenta il vantaggio di essere una forma riflessa di conoscenza. L'Assoluto, che per definizione è pensiero che pensa se stesso, quindi riflessione, processo spirituale, non viene più dato nell'immediatezza della sensibilità, che gli è per essenza estranea, ma appunto nell' elemento della riflessione. D'altra parte, la rappresentazione, in quanto conoscenza riflessa, è ancora qualcosa di limitato, di finito, al pari della facoltà dell'intelletto da cui scaturisce; essa è rappresentazione di qualcosa di determinato, che si distingue e si oppone all'altro da sé, alle rappresentazioni diverse. In altri termini, nella religione l'uomo conosce già l'Assoluto nella sua vera natura, che è spirito (mentre nell' arte la forma sensibile si limitava ad alludere intuitivamente ad esso), ma non giunge a cogliere tale spirito nella sua unità organica, perché lo frantuma ancora in una molteplicità di rappresentazioni. Ad esempio, Dio (l'Assoluto) viene ancora conosciuto come Il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, e il concerto unitario della Trinità si divide nelle Persone che, pur essendo legate dialetticamente, ne costituiscono aspetti diversi. Anche i limiti della religione vengono superati nella terza determinazione dello spirito assoluto: la filosofia. Essa infatti non opera più tramite rappresentazioni finite e distinte, ma attraverso il concetto della ragione: in questo modo l'uomo diventa consapevole dell'assoluta unità del reale, conoscendo nel contempo l'articolazione dialettica nella quale la totalità unitaria necessariamente si organizza. La filosofia è quindi lo spirito assoluto stesso che, per mezzo dell'autocoscienza umana, pensa se stesso e giunge alla consapevolezza di sé. Ma questo pensare se stesso, che è proprio dello spirito, è il risultato di un processo evolutivo. Lo spirito, come Hegel spiegava a partire dalla Fenomenologia, è essenzialmente sviluppo. In altri termini, l'autoconsapevolezza dello spirito coincide con la consapevolezza della sua storia. Di conseguenza, Hegel sostiene la perfetta identità di filosofia e storia della filosofia: le diverse filosofie, che si sono storicamente realizzate, non sono che manifestazioni o "apparizioni" nel mondo fenomenico di una specifica determinazione dello spirito, ossia di quello spirito assoluto a cui quest'ultimo perviene in un dato momento del proprio sviluppo. L'aspetto sistematico - la connessione ordinata e unitaria delle diverse determinazioni dell'idea - e l'aspetto storico - il susseguirsi delle diverse filosofie - sono due facce della stessa medaglia. Rimane da chiedersi allora se la filosofia hegeliana, che si pone all'apice dello sviluppo storico del pensiero occidentale, sia da considerarsi come l'ultima e definitiva sistemazione della filosofia (rispetto alla quale sono possibili soltanto revisioni e aggiustamenti interni, ma non un "superamento" da parte di una nuova filosofia); o se anch'essa non sia che un momento, per quanto importante, di un processo evolutivo che prosegue per il suo cammino. Questo problema può essere espresso in termini più generali: il sistema hegeliano è un "sistema chiuso", che rispecchia la comprensione definitiva della totalità di un reale che, essendo assolutamente razionale, non è suscettibile di ulteriori sviluppi (per cui con Hegel si conclude non solo la storia della filosofia, ma anche la storia universale stessa, almeno nei suoi aspetti essenziali); oppure esso è un "sistema aperto", nel quale la totalità del reale e razionale che ora, nel momento in cui Hegel scrive, si presenta come definitiva apparirà provvisoria alla luce di una nuova razionalità (e una nuova totalità) divenuta reale? Sono problemi questi su cui si sono arrovellati gli interpreti di Hegel fin dall'Ottocento (la spaccatura tra destra e sinistra hegeliana nascerà all'interno di questo quadro) e che continuano ad affaticare la critica contemporanea, dal momento che entrambe le alternative trovano nel testo hegeliano stesso argomenti per una loro difesa.

LO STATO E LA STORIA UNIVERSALE
Alla filosofia della storia Hegel dedica le famose Lezioni sulla filosofia della storia, poi raccolte e pubblicate dai suoi allievi. Secondo Hegel, muovendo dal principio che lo spirito si realizza nella storia, è ovviamente possibile una spiegazione razionale del vicenda storica, e quindi una vera e propria filosofia della storia. L'esposizione più compiuta si trova nelle Lezioni sulla filosofia nella storia, che furono edite da Eduard Gans e dal figlio, Karl Hegel. Hegel afferma una tesi davvero singolare: "La ragione governa il mondo." E spiega: siccome la storia è opera dello spirito oggettivo, quindi dello stesso Assoluto, e sappiamo che questo non può agire che in modo razionale, ecco la dimostrazione. Anche quando si verifica un male, dice Hegel, si tratta solo di un male transitorio e necessario, perchè anch'esso concorre alla realizzazione di un bene maggiore. L'idea di un progresso lineare, tipica dell'illuminismo, viene qui sostituita da quella di un progresso dialettico, che contiene sempre un lato negativo necessario. "Noi vediamo - scrive Hegel - un enorme quadro di eventi e di azioni, di infinatamente varie formazioni di popoli, stati, individui, in un succedersi instancabile...dappertutto vengono proposti e perseguiti fini...Diffuso su tutti questi eventi e casi noi vediamo un umano agire e soffrire, una realtà nostra dovunque e perciò dovunque una inclinazione o un'avversione del nostro interesse...Talora vediamo il più vasto corpo di un interesse generale procedere con maggiore difficoltà, e disgregarsi lasciato in preda ad infinito complesso di piccoli rapporti; talora vediamo nascere il piccolo da un enorme dispiegamento di forze, e l'enorme da ciò che appariva insignificante...e se una viene meno, ecco che un'altra ne prende il posto." Hegel prosegue, asserendo che la prima categoria che impariamo "osservando la vicenda di individui, popoli e stati, che per un certo tempo esistono...e quindi scompaiono, è la categoria del mutamento." "A questa categoria del mutamento è però senz'altro connesso anche l'altro motivo, che dalla morte sorge nuova vita." E qui si innesta il vero nocciolo della filosofia hegeliana della storia, ovvero che il Weltgeist, lo Spirito del mondo, lo stesso Assoluto, si incarna volta per volta nei singoli popoli, formando in ciascuno lo spirito del popolo, diventando così il soggetto che esprime la civiltà, il costume, il contributo di ciascun popolo alla storia del mondo. In ogni fase storica c'è un popolo che domina, anche attraverso la guerra, su tutti gli altri: ciò significa che in quel momento quel popolo è lo Spirito del mondo. E quando la missione sarà compiuta, quando quel popolo sarà giunto al suo declino, allora lo Spirito lo abbandonerà e si incarnerà in un altro popolo, e così via, in un processo progressivo, dove chi prevale è sempre migliore di chi soccombe. Non è che Hegel qui mostri un cinismo del tutto particolare. Trova parole tremendamente efficaci: " Ma pure quando consideriamo la storia come un simile mattatoio, in cui sono state condotte al sacrificio la fortuna dei popoli, la sapienza degli stati e la virtù degli individui, il pensiero giunge di necessità anche a chiedersi in vantaggio di chi, e di quale finalità ultima, siano stati compiuti così enormi sacrifici." Goethe aveva scritto: "La storia è un tessuto di assurdità per il pensatore superiore." Considerazione reiterata in una conversazione con lo storico Luden: "E anche se voi foste in grado di interpretare e di esaminare tutte le fonti, che cosa trovereste? Niente altro che una grande verità, che è stata scoperta da gran tempo e di cui non occorre cercare la conferma: la verità cioè che in ogni tempo e in ogni luogo la condizione umana è stata miserabile. Gli uomini sono stati sempre preoccupati e angosciati, si sono tormentati e torturati reciprocamente, hanno reso difficile a sé ed agli altri quel po' di vita loro concesso e non sono stati capaci di apprezzare e godere la bellezza del mondo e la dolcezza dell'esistenza, loro offerta da quella bellezza..." (Goethe Gespräche, Gesautausgabe, a cura di F. von Biederman, Lipsia 1929, vol.I, p.434) Certo, sarebbe lecito chiedersi perchè non ci si dovrebbe fermare qui, invece di chiedersi se esista uno scopo finale. Ma Hegel, nel reiterare la domanda, insiste, ovviamente, per far passare la sua risposta. Dopo aver descritto la storia come un incessante mutamento, dove la morte segue la vita e la vita la morte, lo spiega come un concetto "orientale", come la fenice mitica, che eternamente si distrugge nel rogo, ed eternamente risorge dalle sue ceneri. Ma questa visione della fenice, prosegue Hegel, non appartiene all'occidente. "Per noi", cioè noi tedeschi, noi europei, noi americani, la storia è una storia dello spirito il quale, se si autodistrugge, non si ripresenta mai nella stessa forma, ma riappare "accresciuto e trasfigurato". Questa storia del fine ultimo non è però solo occidentale, è biblica, secondo Hegel, che legge la Bibbia stessa in termini un po' superficiali, limitandosi a constatare che Dio si è servito di egiziani e babilonesi, di persiani e romani per dare lezioni al suo popolo. Ma la vera lezione della Bibbia non è questa, evidentemente. Il fine a cui è volta la storia è tutto un altro, è l'apocalittico berremo il sangue di condottieri ed eroi, per dire basta ai macelli, e festeggiare un mondo nuovo. Questa sarebbe la vera ragione che governa il mondo, se il mondo desiderasse davvero farsi governare dalla ragione. Ma, affermare questo, per Hegel, sarebbe porsi sulla linea del dover essere e dell'utopia, mentre egli cerca anche qui la riconciliazione con la realtà, in questo caso la realtà storica. Hegel ha addirittura l'ardire di pensare che la storia va intesa come una "progressiva realizzazione del regno di Dio", anzi, in una lettera a Schelling del 1795, aveva cominciato a dire che "la filosofia della storia è una teodicea", cioè una giustificazione di Dio. Pensata in questi termini, non c'è che dire, grande e nobile lo scopo di Hegel: voleva giustificare Dio agli occhi degli uomini stolti, quelli che se la prendono con Dio, che lo bestemmiano quando le cose vanno male. Noi non possiamo che prenderne atto, con malanimo, però. Questo Dio che chiede sangue innocente proprio come un idolo a cui vanno immolati giovani greci, come un qualsiasi minotauro, proprio non ci va giù. In questo quadro diventa difficile digerire la grande e geniale trovata hegeliana dell'astuzia della Ragione (List der Vernunft), eppure essa va spiegata. Se la storia del mondo è guidata da una mano invisibile, come l'economia secondo Adam Smith, significa che tutti gli uomini hanno funzione subalterna, e qualunque cosa facciano, fanno la volontà superiore. Credono di agire liberamente, motu proprio, in realtà agiscono conto terzi, l'ineffabile spirito motore del mondo. Per Hegel, alcuni individui non fanno che conservare i costumi del proprio popolo, e questi sono la maggioranza; altri, una piccola minoranza, lo trasformano, facendo progredire la storia del mondo. Hegel li chiama "individui cosmico-storici." Sono i grandi protagonisti della storia, come Alessandro, Cesare e Napoleone. Tutti, gli uomini, grandi o piccoli che siano, secondo Hegel, contribuiscono a realizzare fini ad essi estranei, secondo il disegno superiore che si serve di loro anche calpestando i loro fini particolari. Ecco come entra in gioco l'astuzia della Ragione, che governa il mondo in modo ovviamente provvidenziale. L'astuzia della ragione è quindi la capacità dello Spirito di usare la fiera delle umane vanità per dimostrare sempre qualcosa di nuovo, qualcosa che realizza il regno di Dio in progress. E, paradosso tra i paradossi, dopo aver mostrato che l'uomo si crede libero, ma è solo una marionetta nelle mani dello Spirito, Hegel riesce a teorizzare esattamente il contrario, ovvero che lo scopo dello Spirito è la realizzazione della coscienza di sé che si esprime nella libertà. Il fine della storia del mondo, cioè tutto questo macello, è per Hegel la libertà dell'uomo, la quale si realizza in momenti positivi e negativi, affermandosi, negandosi, mantenendo e togliendo. Hegel individua tre grandi tappe nello sviluppo storico: il mondo orientale, il mondo greco-romano, il mondo cristiano-germanico. L'antico mondo orientale, secondo Hegel, era caratterizzato dal fatto che solo uno era libero in senso assoluto, cioè il monarca divinizzato, il despota. Il mondo orientale era il mondo del dispotismo, caratterizzato non dalla legge e dal diritto, ma dal capriccio e dalle passioni di uno: gli altri dovevano solo obbedire. Al contrario, secondo Hegel, il mondo greco-romano mette in evidenza la libertà di molti. Non tutti sono liberi, perchè esiste la schiavitù, tuttavia, è attraverso questo necessario sviluppo della libertà di alcuni, che si arriverà al concetto della libertà per tutti. Riprendendo un concetto tipico dello Hegel giovanile, questo Hegel maturo e riconciliato con la realtà e la storia, insiste sul fatto che presso i greci la libertà è una "libertà bella", immediata, che realizza un rapporto armonico tra cittadino e stato. Ma, già nel mondo romano questa armonia conosce una scissione, contrapponendo l'individuo allo stato e sviluppando, nella legge romana, soprattutto il concetto di diritto privato. Il culmine del processo storico è toccato, secondo Hegel, dalla realizzazione dello Spirito nel mondo cristiano-germanico. Cioè nella monarchia prussiana, destinata a chissà quali grandi imprese. Per Hegel, la grande novità del mondo tedesco e protestante è che tutti sono liberi, anche se si tratta, fenomenologicamente, di una libertà negata nel medioevo, quindi di una libertà solo interiore, ma che avanza nella storia, grazie al cristianesimo. La Riforma luterana, secondo Hegel, affermando che Dio non è più estraneo all'uomo, non è mediato dal clero e dai sacerdoti, ma è interiore all'uomo, attingibile da ognuno, realizza le basi ultime di quella piattaforma culturale necessaria alla libertà anche esteriore ed oggettiva. La Riforma ha così reso come non necessaria, secondo Hegel, una rivoluzione sul tipo di quella francese in Germania.