martedì 9 ottobre 2007

EXCURSUS DI FILOSOFIA MEDIOEVALE

LA SCOLASTICA


La filosofia scolastica occupa un periodo molto ampio che va dalla rinascita carolingia fino al 1400 con l’avvento dell’Umanesimo in Italia e del Rinascimento, in seguito, nel resto dell’Europa; generalmente la filosofia scolastica viene suddivisa in tre periodi; il primo periodo é piuttosto povero ed emerge solo la figura di Scoto Eriugena, che é tuttavia circondata da una miriade di personaggi inferiori, per lo più persone colte e maestri finalizzati a dare l’insegnamento di base, riprendendo la filosofia antica, ai cosiddetti "rudes", ossia ai rozzi, che dovevano a tutti i costi resi più colti: bisognava almeno dar loro gli strumenti indispensabili per avere un minimo di cultura. Nasce così un vero e propria sistema scolastico con tanto di metodo, che tempi addietro esisteva solo in modo marginale: bisogna dissodare un’età percorsa da barbarie quale é quella che sconvolge il mondo latino a partire dal sesto secolo; questa prima fase va collocata tra l’800 e il 900. Il secondo periodo é quello detto "argenteo", in cui emergono effettivamente grandi figure: siamo nel 1000 e nel 1100; accanto alle grandi figure vi sono anche le grandi scuole, e la vera novità é che la cultura esce dai monasteri e dalle scuole cattedrali e capitolari, ossia quelle formate dai capitoli delle chiese. Nascono così le Università e si crea il "cetus studiorum": l’intero corpo delle arti viene notevolmente approfondito. Il 1200 é il secolo d’oro della scolastica, in cui si raccolgono i frutti del 1000 e del 1100; però una volta raggiunto l’apice é difficile mantenerlo, e così dopo lo splendido 1200 vi é un rapido tramonto, ossia il 1300, che rappresenta la dissoluzione della filosofia medioevale: quando sembra che tutto sia già stato detto, ecco che invece nasce la seconda scolastica, che vede tra i suoi protagonisti la figura di Guglielmo di Ockham. Dopo di che vi sarà effettivamente la totale dissoluzione della filosofia medioevale, sulle cui ceneri nascerà la filosofia moderna.

Il primo carattere da evidenziare é che questa filosofia si esprime tutta nelle "scholae", sebbene esse siano molto diverse tra loro: tuttavia presentano anche molte analogie; con esse la cultura ha trovato un luogo di trasmissione, di formazione e di ricerca; i maestri entrano come allievi, poi diventano trasmettitori e infine ricercatori. Va detto che é una cultura limitata alla scuola e a chi si reca a scuola: essa riguarda quindi un numero ristretto di persone e non sarà mai un fenomeno di massa; ricordiamoci che il mondo medioevale é essenzialmente un mondo di analfabeti, anche se non di stupidi: Caterina da Siena, per esempio, pur essendo stata analfabeta, fu personaggio di gran carisma, consigliera di papi; ma che cosa si insegna in queste scuole? Il trivio e il quadrivio, le famose sette materie medioevali che Dante identifica con il castello presente nel limbo. Il trivio fornisce gli elementi fondamentali, il quadrivio si apre ad una prospettiva che comporta la riflessione filosofica. Le tre materie del trivio sono la logica, che insegna come ragionare e costruire discorsi, la dialettica, che insegna il dialogo in forma di domanda e risposta, e infine la retorica, il grado sommo del trivio, che insegna come dire le cose bene, in modo conveniente ed elegante, sulla scia dei sofisti che dicevano "la parola può tutto". E’ con Boezio che torna in uso il sillogismo, usato soprattutto in una logica formale, quasi al fine di dimostrare l’impossibile. Il quadrivio comprende invece 4 materie, che sono: la geometria, l’aritmetica, l’astronomia e la musica. Viene spontaneo chiedersi perchè la geometria sia prima dell’aritmetica: prima di misurare, infatti, bisogna saper contare. Va però detto che il quadrivio veniva insegnato dopo al trivio, era un insegnamento superiore che voleva portare gli studenti al ragionamento; gli antichi e così anche i medioevali vedevano l’ordine e il rapporto tra varie realtà sotto forma di relazione e quindi la geometria andava insegnata prima delle altre tre, che altro non sono, in fondo, che applicazioni della geometria: nell’aritmetica, che si propone di contare, é chiaro che tra l’1 e il 2, per dire, vi sono rapporti: posso fare 1+2, 1:2, 1-2, etc. Da qui si passa poi anche all’algebra: a+b, a-b, etc. Discorso analogo va fatto per l’astronomia, la scienza che studia gli astri: l’uomo é proiettato nel mondo, il mondo a sua volta é proiettato nell’universo, che per i medioevali era vivo, come già spiegava Platone. La musica, poi, non é altro che un insieme di rapporti numerici. Tra l’uomo stesso e i suoi organi c’é armonia e rapporto. Il maestro che impartiva questi insegnamenti era lo "scholasticus" e a lui succedeva o il "magister philosophiae" o il "magister artium" o il "magister teologiae". L’insegnamento della filosofia e quello della teologia procedeva di pari passo, e si suddivideva in 2 tipi di insegnamento: la lectio, ossia il commento al testo letto dal "lector", colui che aveva raggiunto il primo grado di insegnamento, e la disputatio ossia i commenti che scaturivano dalla lettura (lectio) dei testi. Il secondo carattere da sottolineare é che la scolastica é una filosofia che interessa l’Occidente, é radicata nella "civitas cristiana" occidentale e quindi riguarda solo una piccola parte del mondo: contemporaneamente fiorisce la cultura bizantina e slava, e soprattutto quella araba, nata intorno alla figura di Maometto. Va però detto che se la filosofia medioevale si sviluppa nella civitas cristiana, bisogna però precisare due momenti diversi: nel primo il mondo cristiano si chiude in se stesso di fronte all’Oriente, in quanto non ha più nulla da ricevere da tal cultura; solo la Chiesa romana ha sempre contatti con la Chiesa orientale, ma sono sempre contatti più bruschi e avversi; il cristianesimo se la deve vedere con l’islam della guerra santa e della conquista; gli arabi sono padroni dell’Africa e dell’Arabia e tramite la Spagna insidiano il mondo occidentale; solo con la battaglia di Poitiers del 732 il pericolo arabo verrà stornato. Proprio dopo la battaglia di Poitiers l’Occidente comincia ad aprirsi, specie nella cultura: il Turco non fa più paura e neppure l’Ebreo. Questo si nota nella filosofia scolastica in quanto vi é una sintesi di 3 culture: quella cristiana, quella araba e quella ebrea; nel 1200 vi sono maestri nelle università che si appellano a queste diverse culture. Altro carattere da sottolineare é che per tutto il medioevo non si scrive mai "adversus", ma "contra": adversus implica l’esclusione totale delle ragioni dell’avversario, come a dire " io ho la verità, tu no: non ti ascolto neanche ". Il contra, invece, presume uno scambio di pareri e di teorie, un dialogo: tu mi dici questo, ebbene io in contrapposizione ti dico quest’altro: é una cultura dialogica, dove si dà spazio anche a posizione divergenti dalle proprie.

Va subito detto che la filosofia cristiana scolastica, a differenza della patristica, si muove ormai su un cristianesimo consolidato, che si é già affermato; si cerca di vedere se usando l’armamentario della filosofia antica si può argomentare in favore del cristianesimo; la filosofia diventa "ancilla teologiae", ossia serva del cristianesimo. I temi trattati più significativi sono essenzialmente questi: rapporto fede e ragione, dimostrazione dell’esistenza di Dio in termini razionali, disputa sugli universali aristotelici. Per quel che riguarda il rapporto fede e ragione vi sarà chi riprenderà la tesi di Agostino di assoluto non contrasto tra le due: la ragione e la fede si compensano; Galileo sarà di questo parere: la ragione da sola non può scoprire tutte le verità, altrimenti sarebbero già state scoperte da altri grandi pensatori del passato, come Platone e Aristotele: Dante stesso sarà di questo parere e dirà: "matto é chi spera che nostra ragione possa trascorrer la infinita via che tiene una sustanza in tre persone" (Purgatorio, III 34). Vi saranno però anche persone che proporranno variazioni, come San Tommaso D’Aquino, che divide le possibili verità e i possibili ambiti della ragione, individuandone tre: 1) Ci sono verità che con la fede hanno ben poco a che fare, come per esempio il teorema di Pitagora, che é irrilevante per la fede: in questo ambito la ragione si muove da sola. 2) Vi é poi l’ambito delle cose che possono essere spiegate sia con la fede, sia con la ragione, i cosiddetti "PREAMBULA FIDEI"; un esempio é l’esistenza di Dio, che può essere accettata per fede o dimostrata razionalmente. 3) Il terzo ambito é quello delle cose che vanno accettate per fede, ma che tuttavia possono essere chiarite con la ragione, come per esempio la Trinità, ossia le tre persone della divinità: esse non sono dimostrabili con la ragione, ma vanno accettate con un atto di fede, tuttavia sono chiarificabili con la filosofia, per esempio quella aristotelica. E’ interessante notare che per Tommaso nulla é inaccessibile alla ragione. Dante stesso, nell'Inferno, ha gran rispetto per coloro che, pur non essendo vissuti in un contesto cristiano, tuttavia fecero buon uso della ragione, come Platone, Aristotele, Socrate, Democrito e altri: il castello che sorge nel limbo é un’esaltazione stessa del logos, della ragione, una luce nel buio infernale. Vi furono anche grandi pensatori razionalisti, come per esempio Abelardo. Vi fu anche chi disse che tra ragione e fede non c'é alcun rapporto: la separazione tra fede e ragione può essere dimostrata in vari modi, ma tuttavia la cosa più interessante da notare é che nel momento in cui esse vengono separate, ciascuna é libera di procedere autonomamente per la sua strada; tra i maggiori sostenitori di questa separazione radicale c'é Guglielmo di Ockham, che sul piano religioso sosterrà una tesi fideistica: la fede é fede e non ha nulla a che vedere con la ragione: si tratta chiaramente di una posizione molto conservatrice, tipicamente francescana: i francescani, infatti, sono portati a rifiutare la ragione " intellettualistica ": a loro non importa come é fatto Dio, ma come si comporta: la loro é una fede che punta solo sull’amore per Dio. Però separando fede e ragione, così come la fede, anche la ragione resta autonoma: da un lato é un modo di vedere piuttosto retrogrado, però va detto che comporta anche elementi di modernità: la ragione diventa "pura", senza avere più nulla a che fare con la fede. Non a caso si usa definire Guglielmo di Ockham "l’ultimo pensatore medioevale e il primo moderno". Altra posizione é quella di Averroè, esponente della scolastica araba: egli elabora una dottrina della doppia verità: la vera verità é quella portata dalla filosofia e dalla ragione (che per lui era essenzialmente Aristotele), tuttavia anche quella della religione é utile perchè dice le cose in modo comprensibile per tutti: i migliori, tramite la filosofia, accedono alla vera verità, mentre la massa degli ignoranti accede ad una verità di secondo livello, trasmessa dalla religione. Con Averroè siamo chiaramente di fronte ad una concezione aristocratica; la filosofia araba, ed in particolare quella di Averroè riuscì a penetrare nell’Occidente e diede vita all’averroismo latino, che riprende soprattutto la dottrina della doppia verità: uno dei massimi esponenti fu Sigieri di Brabante, che chiaramente dovette scontrarsi con le autorità religiose; stranamente Dante lo colloca in Paradiso, definendolo come colui "che sillogizzò insidiosi veri", ossia colui che argomentò verità pericolose per la Chiesa, però pare più logica la lettura "invidiosi veri", ossia verità che lo misero in cattiva luce: altrimenti perchè mai dovrebbe essere in Paradiso uno che andò contro la Chiesa? In effetti l’Occidente interpreta la dottrina della doppia verità in modo "invidioso" per la Chiesa: si diceva "io sono studioso di Aristotele e la ragione mi insegna che il mondo é eterno, ma da buon cristiano penso e dico che é stato creato": é una concezione addirittura più radicale di quella di Averroè: probabilmente questi filosofi, per non essere processati come eretici, si mascheravano con la fede, ma in realtà non credevano a una parola di quel che diceva il cristianesimo, per loro la verità era solo quella data dalla ragione, però non potevano dirlo pubblicamente, e allora fingevano di essere religiosi; si é però scoperto che Sigieri, a lungo ritenuto il maggior sostenitore della dottrina della doppia verità, in realtà non la sostenne mai, ma gli fu attribuita dai suoi avversari, in particolare il vescovo Tempier. Un altro aspetto che va notato é che questa filosofia di derivazione averroistica e quindi di derivazione aristotelica, chiaramente, nega l’immortalità dell’anima, come quella del corpo: l’uomo é un sinolo di materia (il corpo) e forma (l’anima) e quando viene meno la materia viene meno la forma. A questo proposito va ricordata la questione del nous poietikòs aristotelico: a differenza di Alessandro di Afrodisia, che voleva il nous poietikos parte integrante del corpo umano e quindi destinato a morire, Averroè sosteneva che il nous non appartenesse al corpo umano, ma fosse un qualcosa di esterno ed eterno, che interviene ogni qual volta che l’uomo usa il cervello: quindi Averroè ipotizza l’immortalità non del singolo, ma del collettivo: é come se l’uomo, pensando, godesse di una sorta di immortalità: chi più pensa, più fa subentrare il nous e di conseguenza chi più pensa più é immortale; é una concezione aristocratica dell’immortalità. Tornando alla scolastica cristiana, essa può essere definita, abbiamo detto, come il tentativo di difendere il cristianesimo servendosi della filosofia antica: i due principali filosofi antichi erano Platone e Aristotele; in un primo tempo si preferì Platone, soprattutto per via di due sue dottrine: quella dell’immortalità dell’anima, esposta nel Fedone, e quella della creazione del mondo, esposta nel Timeo, sebbene Platone parlando della creazione effettuata dal Demiurgo non vada preso alla lettera. L’idea di un dio " architetto ", quale é il Demiurgo, che ad un certo punto ordina il mondo é piuttosto vicina a quella cristiana (sebbene Platone parli di " plasmare " servendosi di materia già esistente, mentre il cristianesimo parli di una creazione avvenuta dal nulla), soprattutto se messa a confronto con quella aristotelica dell’eternità del mondo. Lo stesso per quel che concerne l’anima: per Aristotele é mortale, in quanto facente parte del sinolo corpo, mentre per Platone é immortale, così come é per il cristianesimo. Però per Platone l’anima é eterna, ossia é sempre esistita e sempre esisterà, per i cristiani é perenne, ma non eterna: Dio la crea ad un certo punto, e da allora non morirà mai, però non é che sia sempre esistita. Tuttavia in un secondo tempo penetrerà anche la filosofia aristotelica, a partire dal XII secolo, nel periodo delle crociate, quando vi saranno contatti con il mondo arabo, dove Aristotele era il filosofo più " di moda ". Comincerà a penetrare Aristotele soprattutto a partire dalla terza crociata, che di fatto fu una non-crociata: vi furono contatti culturali con l’Oriente e così Aristotele potè penetrare ed affermarsi anche ad Occidente, fino ad arrivare a surclassare Platone. I due ordini più importanti nel Medioevo erano i Francescani e i Domenicani, e non a caso gli insegnanti universitari o erano francescani o erano domenicani: i Francescani tenderanno a prediligere le teorie di Platone, per via della mistica meno razionalista, mentre i Domenicani preferiranno Aristotele, per via della sua grande razionalità: i Domenicani erano più " intellettuali ": non a caso mentre Tommaso, che era domenicano, cercherà di dimostrare razionalmente l’esistenza di Dio, Bonaventura, che era francescano, descriverà l’itinerario mentale verso Dio. Non a caso i Domenicani sono i successori di Domenico, un ottimo predicatore, mentre i Francescani sono i successori di Francesco, più legato alla mistica. Servendosi delle teorie di Platone e di Aristotele, si cercherà di dimostrare in termini razionali l’esistenza di Dio, sebbene molti fossero del parere che essa fosse indimostrabile e accettabile solo con un atto di fede.
ANSELMO
Uno dei tentativi più apprezzabili e interessanti é senza dubbio quello di Anselmo da Aosta: la sua é una dimostrazione "pura" dell’esistenza di Dio, che non si riallaccia alle esperienze: é una dimostrazione che parte dal puro concetto di Dio e che sembra davvero solida: Anselmo immagina un discorso con un ateo, ossia con una persona che in cuor suo nega l’esistenza di Dio; per negare qualcosa si deve sapere per forza che cosa sia, altrimenti non lo si può negare: per negare l’esistenza di un drago devo pur sapere che cosa sia: c’é differenza tra esistenza ed essenza. Quindi l’ateo deve sapere che cosa é Dio: e che cosa é Dio? Dio é ciò di cui nulla si può pensare di maggiore. Il drago, pur non esistendo nella realtà, ha un suo tasso di essere in quanto ente immaginario, pensato; certo il suo tasso di essere sarà inferiore rispetto a quello di un cavallo, che esiste sia come ente pensato sia come ente reale; immaginiamo che il drago esista: al tasso di essere che ha in quanto pensato, si aggiunge quello che ha in quanto esistente. Ora passiamo a Dio come puro concetto e ammettiamo che esista: prendiamo in esame il Dio come puramente pensato, che é quello che ha in mente l’ateo: Dio é ciò di cui nulla si può pensare di maggiore, ma se lo si vede come esistente avrà un tasso più elevato di essere e quindi sarà maggiore: quindi rispetto all’essere di cui nulla si può pensare di maggiore si può pensare qualcosa di maggiore: il ragionamento dell’ateo cade in contraddizione. In fondo il ragionamento di Anselmo può così riassumersi: l’essere perfettissimo, per essere tale, non può mancare di esistenza, altrimenti non sarebbe il più perfetto. Bonaventura dirà: "Se Dio é Dio, non può che esistere". Però la dimostrazione razionale di Anselmo fu criticata da Gaunilone, che scrisse un "Pro insipiente", ossia un trattato in cui difendeva l’ateo, o, meglio, mostrava come la dimostrazione di Anselmo fosse contradditoria: egli attaccava la dimostrazione con due argomentazioni: a) la dimostrazione dovrebbe allora valere per ogni forma di perfezione: se parliamo di un’isola felice, perfetta, allora a rigore, secondo Gaunilone, seguendo il ragionamento di Anselmo, si dovrebbe arrivare a dire che esiste: e questo dovrebbe valere per tutti gli enti perfetti. Ma Anselmo fa notare che il suo ragionamento vale solo per l’essere perfetto in assoluto, Dio, e non per i perfettissimi di ogni categoria: nell’essere perfetto assoluto ci sarà la sapienza, nell’isola perfetta non ci sarà. b) Anche ammesso che funzioni, il ragionamento di Anselmo deve partire da un concetto corretto di Dio e solo chi ha fede può avere un corretto concetto di Dio; il ragionamento funziona, ma solo per chi già ha la fede, per l’ateo no. Anselmo dovrà riconoscere che Gaunilone ha ragione e dovrà ammettere che il suo ragionamento serve solo a chiarire al credente i fondamenti della sua fede: chiarisce che Dio é "causa sui", ossia non é creato, ma crea, e che in lui (e solo in lui) l’essenza implica l’esistenza: ecco allora che rientra in gioco il "credo per capire e capisco per credere" di Agostino: la ragione da sola non potrà mai dimostrare l’esistenza di Dio e necessita quindi della fede.

TOMMASO

Altro tentativo di dimostrare l’esistenza di Dio in termini razionali sarà quello di Tommaso, vissuto due secoli dopo ad Anselmo, in un’epoca in cui ormai si era affermato, a fianco del platonismo, anche l’aristotelismo. Tommaso cercherà di dimostrare l’esistenza di Dio tramite 5 vie, dove nessuna delle 5 é totalmente originale: infatti riprende le teorie platoniche e aristoteliche e se ne serve in termini cristiani. Due di queste vie sono platoniche e le restanti tre sono aristoteliche: 1) "I GRADI": é la più platonica di tutte, é una delle tante con cui Platone é arrivato ad ammettere il mondo delle idee: siccome nella realtà ci sono diversi gradi di perfezione e di uguaglianza (due libri si assomigliano di più che non un libro e una penna), Platone aveva immaginato l’esistenza di un’idea di uguaglianza: ci deve essere un grado di perfezione assoluta e Platone l’aveva identificato nell’Idea del Bene, Tommaso lo identifica in Dio. 2) "L’ORDINE" che c'è nel mondo (e che non può essere casuale) implica l’esistenza di un ordinatore divino, che Platone aveva identificato con il Demiurgo e Tommaso identifica con Dio. 3) "IL MOTORE": questa é la classica dimostrazione dell'esistenza di Dio di Aristotele: dal momento che "omne movens, ab alio movetur", teoricamente la ricerca di ciò che mette in moto i pianeti e tutte le realtà andrebbe avanti all’infinito e di fatto nulla si muoverebbe: bisogna ammettere l’esistenza di un motore immobile, che muove senza essere mosso: questo é per Tommaso Dio. 4) "LE CAUSE": é la stessa prova del motore, ma vista sotto chiave di cause: tutto ciò che esiste é causato da qualcosa, ma non si può andare all’infinito alla ricerca delle cause e bisogna ammettere una causa che causi senza essere causata: questa é per Tommaso Dio. 5) "LA CONTINGENZA": contingente é una cosa che pur esistendo potrebbe benissimo non esistere: se tutto fosse contingente, nulla potrebbe esistere perchè nulla creerebbe nulla: dalla catena delle cose contingenti si deve risalire ad un ente non contingente, vale a dire necessario, ossia che ha la causa della sua esistenza in sé: Dio é "causa sui", é necessario e si crea da solo. Da notare che le ultime due "vie" di Tommaso, pur se di derivazione aristotelica, Aristotele non le avrebbe accettate perchè in esse é presente l’idea di creazione, che non é invece presente nelle prime tre.
OCKHAM

Ben diversa sarà la posizione di Guglielmo da Ockham: per lui non si può argomentare né l'esistenza né l’essenza di Dio. Soffermiamoci ora sulla cosiddetta "disputa sugli universali", ossia le idee platoniche e le forme aristoteliche: le idee erano trascendenti, ossia stavano al di fuori, avevano esistenza indipendente dalle cose empiriche, mentre invece le forme erano immanenti, ossia esistevano dentro alle cose materiali. La disputa scaturisce da un testo di Porfirio, un allievo di Plotino, che in un "Commento alla logica di Aristotele" dice che a riguardo della questione degli universali, se esistano o meno, e se abbiano esistenza propria o no, tratterà in seguito, ma in realtà non ne parla più. Da qui scaturisce la disputa, che altro non é che un tentativo dei medioevali di affrontare la tematica lanciata da Porfirio: le posizioni di fronte alla domanda "gli universali esistono?" sono essenzialmente due; vi é una posizione NOMINALISTA, che vuole che gli universali altro non siano che "flatus vocis", soffi di voci: esistono solo come vibrazioni sonore. Vi é poi una posizione REALISTA che, sulla scia di Platone e Aristotele, ammette l’esistenza degli universali; tuttavia vi sono delle varianti: 1) Vi é chi sostiene che esistano ANTE REM, ossia prima dell’esistenza stessa della cosa in questione, come aveva sostenuto Platone. 2) Vi sarà chi sosterrà che esistano IN RE, nella cosa stessa, come aveva detto Aristotele. 3) Vi sarà chi dirà che esistono POST REM, ossia nella misura in cui esistono nella mente, come concetti: per esempio, guardando ad una folla estraggo il concetto di "uomo". Queste tre diverse concezioni dell’universale non si escludono a vicenda: l’ordine in cui le abbiamo poste implica che se ammettiamo la prima, allora ammettiamo anche le altre due, ma non viceversa. In un certo senso viene ripreso Plotino e la sua ipostatizzazione della realtà: nel nous c’erano le idee platoniche, nell’anima le forme aristoteliche: questo testimonia che l’esistenza dell’universale ante rem e in re non contrasta ed é compatibile: la forma era allo stesso tempo trascendente e immanente. Da notare che l’espressione "universali ante rem" va depurata dal significato platonico vero e proprio: per i cristiani le idee esistono nella misura in cui son pensate da Dio: per Platone le idee erano autonome rispetto a Dio (al Demiurgo), per i neoplatonici esistono e vengono interiorizzate e diventano l’oggetto interno alla mente divina, per i cristiani esistono nella misura in cui sono pensate da Dio; le idee esistono "ab aeterno" in Dio e dato che tutto deriva da Dio, allora tutto é presente come idea nella mente di Dio e quindi il mondo delle idee di Platone si identifica con la seconda persona della Trinità, la sapienza: Dio ha quindi un pensiero interno, ossia le idee. La differenza tra il pensiero di Dio e quello dell’uomo é che l’uomo pensando può solo riconoscere le verità, Dio invece pensando ad una verità la fonda: la verità che 2+2=4 é autonoma e sarebbe così anche se io non la pensassi: é tale perchè pensata dalla mente divina: Platone stesso diceva che l’uomo le verità (quando proprio gli va bene) può conoscerle ma non fondarle; però per lui lo stesso era per Dio: il Demiurgo le verità non le fondava, si limitava a "copiarle" e una cosa era santa non perchè piaceva a Dio, ma piaceva a Dio perchè era santa. Quindi Dio crea il mondo prendendo se stesso come modello, o, meglio, l’apparato ideale insito nella sua natura: e così le idee (o universali che dir si voglia) ante rem passano in re con la creazione. Dio le idee le possiede ab aeterno, ciò significa che l’idea di uomo, per esempio, l’ha sempre avuta (universale ante rem) e quando crea l’uomo la fa passare in re. Se ammettiamo l’ante rem, oltre all’in re, allora sarà anche compatibile il post rem: é un processo di astrazione che avviene nel nostro cervello, ossia da casi particolari si astrae mentalmente l’universale. Se però ammetto solo il post rem, allora non sarà più necessario ammettere l’ante rem: infatti dirò che gli universali esistono solo come processo umano di astrazione, e quindi né l’ante rem platonico né l’in re aristotelico potrà esistere. Naturalmente vi furono anche posizioni radicali di nominalismo: il concettualismo, che ammetteva in qualche modo, pur non riconoscendo valida l’ante rem e l’in re, l’esistenza degli universali. Il vero e proprio nominalismo, però, tendeva a volere gli universali come "flatus vocis", espressione coniata dal primo vero nominalista, Roscellino: l’universale é solo una vibrazione sonora ed esiste solo nella parola che esprimo ("uomo", “cavallo"...). Di Roscellino non possediamo scritti perchè venne condannato dalla Chiesa: pare infatti essere stato accusato di triteismo, ossia di spezzare la Trinità in tre divinità, ricadendo così nel politeismo: era la conclusione necessaria alla quale lo portavano le sue idee, in quanto la dottrina trinitaria implica una natura e tre persone, ma se si é nominalisti non si può ammettere che tre persone siano presenti in una natura: per i nominalisti l’unica cosa esistente sono i casi singoli, gli individui singoli: non vi é alcuna idea o forma di uomo: una cosa non può partecipare di tre cose (nel caso della Trinità). Queste sono questioni sia logiche sia metafisiche; Tommaso é il maggior filosofo di ispirazione aristotelica del Medioevo e più di ogni altro rese l’aristotelismo adatto al cristianesimo: prima di lui ci si era accontentati della versione averroistica o si rendevano in qualche modo compatibili i punti aristotelici meno adatti al cristianesimo. Questo fino ad Alberto Magno; Tommaso, invece, operò una vera e propria riforma dell’aristotelismo nel suo nucleo in modo tale da rendere effettivamente compatibile al cristianesimo l’intero sistema aristotelico. E’ risaputo che in Aristotele siano presenti una sfilza di dualismi come quello potenza-atto, materia-forma, essenza (ciò che una cosa é) - esistenza (il fatto di esistere); potenza-atto corrisponde a materia-forma (la materia é la potenza e la forma é l’atto), ma essenza ed esistenza in Aristotele stanno entrambi dalla parte dell’atto (la madre dà la materia, il padre la forma e un uomo in potenza diventa uomo in atto quando ha sua essenza ed esistenza). Tommaso ammette sì il dualismo potenza-atto: però lui mette dalla parte della potenza sia la materia sia la forma, che danno l’essenza; dalla parte dell’atto lui mette l’esistenza: Aristotele era convinto che la materia fungesse da "principium individuationis": noi siamo diversi l’uno dall’altro per via della materia; se non ci fosse materia saremmo tutti uguali, o, meglio, saremmo uno solo: non a caso l’unico essere privo di materia che Aristotele ammetta é Dio, che é uno solo, puramente formale. Per Tommaso la materia, invece, é QUANTITATE SIGNATA, ossia é quantitativamente determinata: non é la materia che ci distingue, ma quella determinata quantità di materia che contraddistingue ciascuno di noi: é l’unica forma uomo che si cala in diversi quantitativi di materia. L’introduzione di questa concezione permette a Tommaso di affermare che per gli esseri materiali l’essenza non é data solo dalla forma, ma anche dalla materia: d’altronde se parlando di "uomo" escludiamo la materia non stiamo più parlando di un uomo, ma di un essere senza materia, un angelo. Materia + forma = essenza e vanno collocate tutte e 3 dalla parte della potenza perchè l’essenza in quanto tale é solo potenza: l’essenza dell’uomo é l’essenza dell’uomo così come esiste nella mente di Dio: l’uomo é esistito prima ancora di essere creato, come essenza insita nella mente di Dio, ma solo in modo potenziale: Adamo non c'era, o meglio, c’era come idea nella mente di Dio; per il passaggio all’atto é necessario che Dio decida di creare il mondo: all’essenza (materia + forma), Dio aggiunge l’esistenza e quindi la materia "quantitate signata". E’ la modificazione che consente a Tommaso di rendere l’aristotelismo compatibile al cristianesimo: la concezione aristotelica, di per sé, non potrebbe rendere ragione dell’atto creatore del mondo: tutto infatti per Aristotele ha in sé la ragione della sua esistenza. Ogni cosa che esista effettivamente ha in sé essenza ed esistenza. Cartesio quando cercherà di definire la sostanza dirà che essa é ciò "che non ha bisogno di nient’altro fuori di sé": così come per Aristotele, anche per Cartesio sostanza é tutto ciò che esiste da sé. Aristotele divideva tra sostanze, dotate di esistenza autonoma, ed accidenti, cose che per esistere hanno bisogno che esista la sostanza: essi hanno esistenza "parassitaria": il giallo per esistere ha bisogno di una sostanza, per esempio un libro: di per sé il giallo non esisterebbe, esiste solo insieme all’esistenza della sostanza. In una concezione cristiana, a rigore, solo Dio é sostanza, perchè tutto per esistere ha bisogno di essere creato da Dio; sostanza per Aristotele era ciò che aveva essenza ed esistenza: é la forma che ad un cavallo lo fa essere e lo fa essere cavallo. Solo Dio ha identificazione tra essenza ed esistenza; Tommaso correggerà la frase "sostanza é tutto ciò che per esistere non ha bisogno di nulla all’infuori di sé" facendola diventare "sostanza é tutto ciò che per esistere non ha bisogno di null’altro, se non di Dio”. L’uomo é essenza nella misura in cui é pensato da Dio ab aeterno, é esistenza nella misura in cui Dio vuole crearlo: pare quindi che non ci sia differenza tra uomo in potenza (pensato da Dio) e uomo in atto (creato da Dio): invece c'é perchè Tommaso spiega che é vero che Dio poteva decidere di non creare l’uomo, ma non poteva decidere di non pensarlo, perchè il pensare é connaturato all’essenza stessa di Dio: Dio può tutto, ma non può non essere Dio: dalla volontà di Dio dipende l’aver creato il mondo, cosa che volendo avrebbe potuto non fare, ma non il pensarlo: fa infatti parte della sua natura. E così le verità che noi possiamo solo conoscere, lui le fonda col suo pensiero: tuttavia Dio non decide che 2 + 2 = 4, ma che 2 + 2 = 4 dipende dall’essere pensata da Dio: la verità dipende dall’essere pensata da Dio. Per Tommaso l’onnipotenza divina é limitata dalla natura stessa di Dio. Diversa é la concezione dell’onnipotenza divina di Ockham: lui é francescano e il francescanesimo é un ordine più mistico che non intellettuale: scarso é l’interesse per la speculazione teologica, forte é invece l’amore per Dio e la mistica. Chiaramente questa concezione ha portato i francescani ad una diversa idea dell’onnipotenza: i domenicani, nella loro visione intellettuale, identificavano di fatto il mondo delle idee con la seconda persona della Trinità, la Sapienza: l’esistenza del mondo per loro dipende dall’essenza divina, l’essenza del mondo dipende invece dalla sapienza divina. Per loro l’onnipotenza era limitata: Dio non può scegliere qualsiasi cosa: io so che 2 + 2 = 4, per Dio 2 + 2 = 4 perchè lo pensa lui: ma non é che decida che sia così, é limitato dal suo pensiero stesso. Per i francescani, invece, Dio ha onnipotenza totale: tutto dipende da Dio, sia l’essenza sia l’esistenza del mondo; tra quelli che la pensano così vi é appunto Ockham: per loro ciò che é santo lo é perchè piace a Dio; Ockham diceva, riprendendo il primo comandamento che dice di amare Dio, "se Dio avesse decretato che fosse meritevole odiare Dio, allora sarebbe giusto odiarlo": questa é la cosiddetta prospettiva voluntarista: Dio ha stabilito ogni cosa: se avesse stabilito che 2 + 2 = 5, allora sarebbe così. Dio può scegliere ciò che vuole, é talmente onnipotente da poter cambiare l’essenza delle cose. Questo discorso si riconnette anche con il radicale nominalismo di Ockham: la volontà di Dio é addirittura più potente dell’intelletto divino: in Ockham si trovano tre posizioni che in qualche modo si riconnettono tra loro: a) nominalismo, ossia il negare l’esistenza degli universali; b) separatismo, ossia l’inconciliabilità tra fede e ragione; c) voluntarismo, ossia la prospettiva secondo la quale Dio può tutto e ha stabilito tutto secondo il suo volere. Per quel che riguarda gli universali Ockham nega totalmente la loro esistenza: non esistono né in re, né post rem, né ante rem: per lui gli universali sono una inutile moltiplicazione della realtà: questo é un problema già affrontato da Platone nel Parmenide ed era una delle accuse mossegli da Aristotele: tuttavia anche le idee in re di Aristotele sono per Ockham una inutile moltiplicazione della realtà: per Ockham bisogna evitare tutto ciò che é inutile e questa idea é sintetizzata nel cosiddetto " rasoio di Ockham ", così chiamato perchè con esso si cerca di tagliare via il superfluo: "frustra fit per plura quod potest fieri per pauciora": quando si può spiegare una cosa con poco, perchè dilungarsi? Nel Medioevo, poi, ogni minima cosa la si attribuiva ai diavoli o agli angeli, a seconda che fosse positiva o negativa. Chiaramente il "rasoio" Ockham lo applica pure agli universali: se posso spiegare qualcosa con pochi elementi, perchè introdurne di superflui? Ma come si può fare a meno degli universali per spiegare la realtà? Pare assai difficile, ma Ockham ci prova, grazie all’introduzione di due concetti: 1) intentio e 2) suppositio La intentio é la caratteristica propria dei segni di possedere un significato: gli universali non ci sono, ci sono solo realtà individuali: la parola "uomo" é una realtà individuale, che, scritta, altro non é che un insieme di macchie di inchiostro e si riferisce alla parola detta: se la si legge suona nell’aria "uomo": é una realtà individuale che vibra nell’aria e si riferisce ad un concetto, quello di uomo che io ho nella testa: non é un universale, però si riferisce agli uomini: il concetto uomo, di per sé individuale, si può riferire a più persone: non esistono universali, ma funzioni universali con la caratteristica di potersi riferire e tendere ad altre: la parola scritta "uomo" non si riferisce all’idea di uomo (che non esiste), ma alla parola vibrante nell’aria: dopodiché la parola vibrante nell’aria si riferisce a tanti uomini contemporaneamente: ma tuttavia non é un universale. Ma come possono esistere le funzioni universali se gli universali non esistono? Infatti si passa da una macchia di inchiostro ad una parola e poi a più cose: come fanno a richiamarsi tra loro? C’é la suppositio (dal latino subpono = metto al posto di): i segni sono ciò che può stare al posto di qualcos’altro; dire " Socrate é uomo " per Platone e Aristotele significava che Socrate partecipava dell’idea di uomo per l’uno, e che la forma uomo era in lui per l’altro: una cosa individuale partecipava di una cosa universale. Per Ockham vuol dire che la parola "Socrate" sta al posto di quella particolare cosa che é Socrate in carne e ossa: parlando o scrivendo sostituiamo le realtà di cui parliamo con parole o macchie di inchiostro. Anche per la parola "uomo" é lo stesso: la si usa per sostituire gli uomini in carne e ossa, ossia Socrate più altri: ciò significa semplicemente che esiste una cosa per la quale possono ugualmente stare sia la parola "Socrate" sia la parola "uomo"; alcune cose stanno al posto di altre quando sono un segno o naturale o artificiale di quelle cose; si parla di segni artificiali quando, ad esempio, vediamo un cavallo ed esso ci lascia un "segno" nella nostra testa e questo segno non sarà solo più segno di quel determinato cavallo (segno naturale), ma anche di tutte le cose simili (gli altri cavalli). E’ una questione sia logica (in quanto si occupa del significato) sia ontologica (gli universali non esistono) che porta a delle conseguenze: dire che esistono solo i casi particolari significa di fatto far venir meno la distinzione essenza-esistenza; l’idea generale del Medioevo era che nella mente di Dio vi fosse ab aeterno l’apparato ideale e che Dio ad un certo momento decidesse di creare il mondo con queste idee insite nella sua mente: era sì Dio a decidere se creare o meno il mondo, ma tuttavia non poteva decidere se pensarlo o meno: l'apparato ideale nella sua mente lo vincolava (Dio può tutto, ma non può non essere Dio); per Ockham, invece, gli universali (o idee che dir si voglia) non esistono e quindi Dio non ha l’apparato ideale nella sua mente che lo vincola: creando il mondo, crea essenza ed esistenza: non é che crei Adamo seguendo l’idea di uomo (che per Ockham non esiste): Dio crea dal nulla Adamo e gli dà simultaneamente esistenza ed essenza. Il nominalismo si lega radicalmente al volontarismo: implica una onnipotenza totale, dove Dio non é vincolato neanche più dall’apparato ideale della sua mente e può davvero tutto: tutto dipende esclusivamente dalla sua volontà. E’ vero che in natura ci sono delle forme di regolarità (le leggi fisiche); queste leggi potrebbero essere pensate come essenze della realtà e si potrebbe dire che non é Dio a decidere che vadano così: per esempio, ogni corpo tende a cadere verso il basso, e quindi anche una penna cadrà verso il basso. Ockham era pienamente cosciente di ciò ma tuttavia arrivava a dire: “é vero che ogni corpo cade verso il basso, ma se Dio volesse non sarebbe così”: Dio può cambiare le regole a suo piacimento perchè non ha vincoli; quella che noi chiamiamo "regolarità naturale" non é però tale perchè presente nella mente di Dio come idea, ossia come essenza di Dio. Ockham arriverà a distinguere il modo di operare divino in potentia absoluta e potentia ordinata: Ockham é consapevole che esistano forme di regolarità in natura, ma é convinto che il fatto che esistano non comporti che esse debbano per forza esistere: se Dio volesse cambiare le regole del gioco potrebbe farlo a suo piacimento: potrebbe benissimo non far cadere in basso gli oggetti, ma farli cadere obliquamente. In altre parole, se una penna cade a terra é così perchè Dio ha deciso che sia così, che ci sia un ordine: tuttavia non é vincolato da quest’ordine. Quindi é vero che per potenza ordinata ci sono delle leggi fisiche, ma tuttavia per potenza assoluta Dio può stravolgerle (pensiamo ai miracoli). Una concezione simile a quella teologica di Ockham sarà quella politica del 1600, il secolo dell’assolutismo: ci sarà chi dirà che esistono leggi, ma che esistono solo perchè il sovrano l’ha decretato. Nel Medioevo invece, per quel che concerne la politica, il sovrano era vincolato, per esempio, dalla consuetudine. Tutto questo ha una conseguenza ancora più importante che porterà Ockham a concepire la filosofia e la religione come inconciliabili: ciò che é necessario é prevedibile, ciò che é volontario (ossia arbitrario) non é prevedibile: per esempio, l’atteggiamento di un cane affamato davanti al cibo é prevedibile, quello di un uomo no, perchè é dotato di libero arbitrio: può decidere se mangiare o trattenersi, e quindi il suo atteggiamento non sarà prevedibile. Se ammettiamo le essenze (le idee) divine che da Dio non dipendono e che sono necessarie é un conto, ma se dico che esse non ci sono allora sarà impossibile effettuare ragionamenti che seguano le strutture della realtà: prendiamo il caso della dimostrazione geometrica dove i vari passaggi hanno legami tra loro: da una verità A passo ad un’altra verità B, poi a una C e così via: si tratta di collegamenti necessari che non dipendono da Dio. Se però, ad esempio, qualcuno (per esempio Dio o il triangolo stesso) potesse decidere che la somma degli angoli interni di un triangolo vale 37 gradi, ossia se dipendesse dalla volontà di qualcuno, allora non avrebbe più senso e sarebbe impossibile effettuare i passaggi dimostrativi. Lo stesso vale per quel che riguarda Dio secondo Ockham: siccome le essenze (le idee) non ci sono, allora non si può ragionare sulle strutture della realtà divina: quindi le complesse catene di ragionamenti di Tommaso sono agli occhi di Ockham assurde e inutili. L’esistenza di Dio é indimostrabile. Finché ragiono sulle regolarità in natura che dipendono dalla potenza ordinata allora io posso ragionare e risalire le varie "catene" di ragionamenti: verità A poi B e poi C; ma quando entro nel campo delle realtà soprannaturali allora entro nel campo di Dio e non posso ipotizzare di argomentare ragionando perchè non esistono concatenazioni (da una verità A a una B e così via); sostenendo il volontarismo di Dio é come se spezzassi l’ipotetica "scala" delle dimostrazioni che mi permettono di dimostrare con la ragione perchè il rapporto tra Dio e la natura non é più necessario (tra Dio e le idee), ma é un rapporto volontario (tra Dio e Dio). Se ammetto le idee nella mente di Dio, come Tommaso, posso dimostrare razionalmente l’esistenza di Dio e posso risalire la "scala" delle verità, ma se nego gli universali, come Ockham, allora ciò non é più possibile perchè Dio agisce solo secondo la sua volontà. Nella matematica, ad esempio, i pioli della scala argomentativa sono fortissimi perchè tutto é regolato, ma più c’é arbitrio e meno si possono usare i pioli. Secondo Ockham più ci si avvicina a Dio e più ci si allontana dalla realtà: ammettendo il nominalismo elimino l’essenza e la scala non può più funzionare in ambito divino: così allora Ockham arriva a spezzare la scolastica, che altro non era che tentare di dimostrare le realtà divine con la ragione e con la filosofia. La filosofia diventa indipendente dalla religione: la fede allora si rafforza perchè é la sola che può portare a Dio (se infatti l’esistenza di Dio fosse dimostrabile razionalmente nessuno avrebbe più fede). La fede arriva a darmi la "certezza di cose non viste", come diceva san Paolo.