mercoledì 7 novembre 2007

ANTOLOGIA DEGLI ESSAIS DI MONTAIGNE

Michel de Montaigne, Saggi
Il metodoGli altri formano l'uomo; io lo racconto e ne rappresento uno in particolare assai mal fatto, e il quale, se avessi da modellare nuovamente, farei invero diverso da quel che è. Oramai, è fatto. Ora, le linee del mio ritratto non si disperdono, benché cambino e si diversifichino. Il mondo non è che un movimento continuo. Ogni cosa vi si muove senza tregua: la terra, le rocce del Caucaso, le piramidi d'Egitto, e del movimento pubblico e del proprio. La stessa costanza altro non è che un movimento più languido. Non posso assicurare il mio oggetto. Se ne va fosco e barcollante, di una ebbrezza naturale. Lo colgo in questo punto, come si presenta, nell'istante in cui me ne interesso. Non dipingo l'essere. Dipingo il passaggio […]. E' un controllo di diversi e mutevoli avvenimenti cangianti e d'immaginazioni irrisolte e, quando capita, contrarie; che io sia un altro me stesso, o che io colga i soggetti da altre circostanze e considerazioni. Tant'è che mi contraddico talvolta, ma la verità, come diceva Demadio, non la contraddico affatto. Se la mia anima potesse essere ferma, non mi saggerei, mi risolverei; è sempre in formazione e in prova. Quella che propongo è una vita semplice e senza lustro, è un tutt’uno. Si può legare altrettanto bene tutta la filosofia morale a una vita popolare e privata che a una vita di stoffa più ricca; ciascun uomo porta in sé la forma intera dell'umana condizione.

L’amiciziaParagonare all'amicizia l'amore verso le donne non è possibile, e neppure metterlo nella stessa categoria. Il suo fuoco, lo ammetto è più vivo, più cocente e più aspro. Ma è un fuoco sconsiderato e volubile, ondeggiante e vario, un fuoco di febbre soggetto ad accessi e diminuzioni, e che non ci tiene che per un lato. Nell'amicizia vi è un calore generale e universale, temperato e uguale, un calore costante e calmo, tutto dolcezza e levigatezza, che non ha nulla d'aspro e pungente. E quel che nell'amore c'è di più non è che un desiderio forsennato di ciò che sfugge. Mentre all'interno dell'amicizia, che è accordo delle volontà, questo svanisce e si illanguidisce. E anche il godimento lo annulla, in quanto è un fine corporale e soggetto a sazietà. L'amicizia, al contrario, la si gode in misura in cui la si desidera; essendo spirituale, si innalza, si nutre e cresce col solo godere di essa [...]. Così ho conosciuto entrambe queste due passioni, ma mai nello stesso momento: la prima procede per la sua strada con un volo alto e superbo e guarda sdegnosamente l'altra avanzare ben lungi al di sotto.

Del resto, quelli che chiamiamo abitualmente amici e amicizie, sono soltanto dimestichezze e familiarità annodate per qualche circostanza e vantaggio, per mezzo di cui le nostre anime si tengono unite. Nell'amicizia di cui parlo, esse si mescolano e si confondono l'una con l'altra con un connubio così totale da cancellare e non ritrovar più la connessura che le ha unite. Se mi si chiede di dire perché l'amavo, sento che questo non si può esprimere se non rispondendo: 'Perché era lui; perché ero io. C'è, al di là di tutto il mio discorso, e di tutto ciò che posso dirne in particolare, non so qual forza inesplicabile e fatale, mediatrice di questa unione. Ci cercavamo prima di esserci visti e per quel che sentivamo dire l'uno dell'altro, il che produceva sulla nostra sensibilità un effetto maggiore di quel che produca secondo ragione quello che si sente dire, credo per qualche volontà celeste: ci abbracciavamo attraverso i nostri nomi. E al nostro primo incontro, che avvenne per caso, in occasione di una grande festa e riunione cittadina, ci trovammo tanto uniti, conosciuti e legati l'uno all'altro, che da allora niente fu a noi tanto vicino quanto l'uno all'altro.
Michel de Montaigne, Saggi, I, 28, Adelphi
I cannibaliOra mi sembra, per tornare al mio discorso, che in quel popolo non vi sia nulla di barbaro e di selvaggio, a quanto me ne hanno riferito, se non che ognuno chiama barbarie quello che non è nei suoi usi; sembra infatti che noi non abbiamo altro punto di riferimento per la verità e la ragione che l'esempio e l'idea delle opinioni e degli usi del paese in cui siamo. Ivi è sempre la perfetta religione, il perfetto governo, l'uso perfetto e compiuto di ogni cosa. Essi sono selvaggi allo stesso modo in cui noi chiamiamo selvatici i frutti che la natura ha prodotto da sé nel suo naturale sviluppo: laddove, in verità, sono quelli che col nostro artificio abbiamo alterati e distorti dall'ordine generale che dovremmo piuttosto chiamare selvatici. In quelle sono vive e vigorose le vere e più utili e naturali virtù e proprietà, che invece noi abbiamo imbastardite in questi, soltanto per adattarle al piacere del nostro gusto corrotto. (…)
E che sia così lo prova il fatto che avendo visto i Portoghesi, i quali si erano uniti ai loro nemici, adottare contro loro medesimi, quando li prendevano, un altro genere di morte, cioè di seppellirli fino alla cintura e tirare contro il resto del corpo gran colpi di frecce, e poi impiccarli, pensarono che quei popoli di quest'altro mondo, che avevano diffuso la conoscenza di molti vizi fra i loro vicini, e che erano ben più grandi maestri di loro in ogni sorta di malizie, non usavano questa specie di vendetta senza ragione, e che doveva essere ben più dura della loro, e cominciarono ad abbandonare il loro uso antico per seguire questo. Non mi rammarico che noi rileviamo il barbarico orrore che c'è in tale modo di fare, ma piuttosto del fatto che, pur giudicando le loro colpe, siamo tanto ciechi riguardo alle nostre. Penso che ci sia più barbarie nel mangiare un uomo vivo che nel mangiarlo morto, nel lacerare con supplizi e martiri un corpo ancora sensibile, farlo arrostire a poco a poco, farlo mordere e dilaniare dai cani e dai porci (come abbiamo non solo letto, ma visto recentemente, non fra antichi nemici, ma fra vicini e concittadini e, quel che è peggio, sotto il pretesto della pietà religiosa), che nell'arrostirlo e mangiarlo dopo che è morto.
Michel de Montaigne, Saggi, cap. XXXI, intitolato Des Cannibales
Montaigne riprende il tema eracliteo del divenire (pánta reî) per negare qualsiasi pretesa di conoscenza dell’Essere.Eraclito crede che mai uomo si sia immerso due volte nella stessa acqua; Epicarmo pensa che colui che prese in prestito del denaro non lo deve restituire, e che colui che è stato invitato ieri sera a desinare per stamattina, oggi non è piú invitato, perché non son piú gli stessi uomini: son diventati altri; non si può trovare sostanza mortale due volte nel medesimo stato, poiché, a causa di mutamento improvviso e impercettibile, essa si dissipa o si riunisce; essa va e viene. Di modo che quello che comincia ad essere, non arriva mai alla perfezione dell’essere, dal momento che questo essere non si compie mai e non s’arresta mai, come se fosse a punto, ma dal seme si va sempre mutando e muovendo. Come dal seme umano si produce dapprima nel ventre della madre un prodotto informe, poi la forma del bambino, in seguito, uscito dal ventre, un lattante; dopo, esso diventa un fanciullo, poi un giovane, poi un uomo fatto, poi un uomo d’età, alla fine un vecchio decrepito. Di modo che l’età e ciò che si genera successivamente disfa e guasta continuamente ciò che vi era prima: “Il tempo muta la natura di tutte le cose, ogni stato viene da un altro stato: tutto passa, la natura muta e cambia tutte le cose” (Lucrezio, De rerum natura, V, 826). E noi scioccamente temiamo una specie di morte dopo che ne abbiamo già avute e ne passiamo tante altre. Poiché non solamente, come diceva Eraclito, la morte del fuoco è la nascita dell’aria e la morte dell’aria la nascita dell’acqua, ma ancora piú evidentemente possiamo vedere ciò in noi stessi. Il fiore dell’età muore e passa quando sopravviene la vecchiaia, la giovinezza termina nel fiore dell’età matura e la giornata di ieri muore in quella di oggi e quella di oggi morirà in quella di domani; non vi è niente che si fermi e che rimanga sempre allo stesso punto. Poiché, posto che cosí fosse e che noi restassimo sempre gli stessi ed uguali perché prendiamo piacere ora ad una cosa ed ora ad un’altra? Perché amiamo ed odiamo cose contrarie, perché le lodiamo e le biasimiamo? Perché abbiamo affezioni diverse non affiancando lo stesso sentimento allo stesso pensiero? Poiché, come non è verosimile che noi assumiamo altre passioni senza mutamento, non rimanendo lo stesso ciò che sopporta mutamento, è evidente che ciò che non è lo stesso, non può restare immobile. Ma, quando l’essere individuale cambia, cambia semplicemente anche l’essere diventando altro di un altro. E, di conseguenza, s’ingannano e mentiscono i sensi della natura, prendendo ciò che appare per ciò che è, senza neanche sapere bene che cosa è. Ma che cosa veramente è?
M. E. de Montaigne, Saggi, II, cap. XII
Debolezza umanaE' possibile immaginare qualcosa di tanto ridicolo quanto il fatto che questa miserabile e meschina creatura, che non è neppure padrona di se stessa ed è esposta all'ingiuria di tutte le cose, si dica padrona e signora dell'universo, di cui non è in suo potere conoscere la minima parte, tanto meno comandarla? E quel privilegio che si attribuisce, di essere cioè il solo in questa gran fabbrica ad avere la facoltà di riconoscerne la bellezza delle parti, il solo a poter render grazie all'architetto e a tener conto del bilancio del mondo, chi gli ha conferito questo privilegio? (...) La presunzione è la nostra malattia naturale e originaria. La più calamitosa e fragile di tutte le creature è l'uomo, e al tempo stesso la più orgogliosa. Essa si vede e si sente collocata qui, in mezzo al fango e allo sterco del mondo, attaccata e inchiodata alla peggiore, alla più morta e putrida parte dell'universo, all'ultimo piano della casa e al più lontano dalla volta celeste, insieme agli animali della peggiore delle tre condizioni [ossia l'aerea, l'acquatica e la terrestre]; e con l'immaginazione va ponendosi al di sopra del cerchio della luna, e mettendosi il cielo sotto i piedi. E' per la vanità di questa stessa immaginazione che egli si eguaglia a Dio, che si attribuisce le prerogative divine, che trasceglie e separa se stesso dalla folla delle altre creature, fa le parti agli animali suoi fratelli e compagni, e distribuisce loro quella porzione di facoltà e di forze che gli piace. Come può egli conoscere, con la forza della sua intelligenza, i moti interni e segreti degli animali? Da quale confronto tra essi e noi deduce quella bestialità che attribuisce loro? Quando mi trastullo con la mia gatta, chi sa che essa non faccia di me il proprio passatempo più di quanto io faccia con lei? (...) Di fatto, perché un papero non potrebbe dire così: 'Tutte le parti dell'universo mi riguardano; la terra mi serve a camminare, il sole a darmi luce, le stelle a ispirarmi i loro influssi; ho tale il vantaggio dai venti, il tal altro dalle acque; non c'è cosa che questa volta celeste guardi con altrettanto favore quanto me; sono il beniamino della natura; non è forse l'uomo che mi nutre, mi alloggia, mi serve? E' per me che egli fa seminare e macinare; se mi mangia, così fa l'uomo anche col suo compagno, e così faccio io con i vermi che uccidono e mangiano lui.
Montaigne, Saggi, libro II, cap. XII)