venerdì 23 novembre 2007

GALILEO GALILEI: IL PENSIERO E LE SCOPERTE



IL CANNOCCHIALE
Innanzitutto va detto che Galileo Galilei propriamente non é un filosofo, ma uno scienziato; tuttavia quando egli si pone problemi metodologici egli si spoglia delle vesti di scienziato per assumere quelle di filosofo; e soprattutto dei problemi metodologici ci si deve occupare in ambito filosofico. Va poi detto che se é vero che la sua riflessione metodologica é filosofica, é altrettanto vero che alcune scoperte scientifiche sono importanti e arrivano ad interessare la filosofia stessa. Ad esempio, nel Sidereus Nuncius Galilei ci descrive le sue osservazioni tramite il cannocchiale, o, meglio, il telescopio. Telescopio e cannocchiale concettualmente sono la stessa cosa: sono entrambi dati dalla combinazione di lenti concave e lenti convesse in modo tale da ingrandire gli oggetti lontani; le lenti convesse ingrandiscono, ma solo da vicino; é solo tramite l’apporto di quelle concave che si può ingrandire ciò che é lontano. La differenza tra cannocchiale e telescopio consiste nel fatto che con il primo si osservano esclusivamente realtà presenti sulla Terra (anche se magari molto distanti), con il secondo invece si possono arrivare ad osservare realtà che non sono sulla Terra: astri, pianeti, stelle... La differenza non é solo quantitativa (con il cannocchiale posso vedere meno cose, con il telescopio di più), ma anche qualitativa: ciò che vedo col cannocchiale, per quanto distante possa essere, lo potrò sempre verificare empiricamente: se osservo una casa in lontananza posso avvicinarmi e verificare se davvero ciò che vedevo col cannocchiale era vero. Col telescopio non ci può essere (siamo nel 1600) verifica empirica: ciò che vedo sulla Luna, per esempio, devo prenderlo per buono, senza poterlo verificare di persona. A noi pare una cosa ovvia che ciò che vediamo in un telescopio o in un cannocchiale é effettivamente così, ma ai tempi di Galileo non era così. In altre parole, Galileo non ha inventato il cannocchiale, ma il telescopio perché per primo ha creduto a ciò che vedeva al di fuori della Terra; il cannocchiale diventa cioè telescopio nel momento in cui con esso osservo realtà che non posso verificare empiricamente. Ha cioè perfezionato uno strumento elaborato in modo un po’ grossolano da artigiani olandesi (molto abili nel produrre lenti ottiche); negli stessi anni Keplero, con cui Galilei era in contatto, aveva elaborato una teoria ottica per capire quale precisa combinazione di lenti usare per un ingrandimento preciso. Gli artigiani olandesi e Keplero facevano contemporaneamente e separatamente due "pezzi” che Galileo ha il merito di aver unificato.

La grande intuizione di Galileo fu infatti quella di mettere insieme questi due "pezzi” (dopo aver convocato alcuni artigiani in grado di farlo), ossia di creare un rapporto (biunivoco) tra scienza e tecnica, cosa peraltro tipica della rivoluzione scientifica: é un rapporto biunivoco nel senso che un maggiore sviluppo tecnologico permette alla scienza di conseguire risultati più apprezzabili, ma un maggiore sviluppo scientifico consente la creazione di strumenti sempre più precisi. Operazione simile a quella del cannocchiale Galileo la compì nel dimostrare la legge di caduta dei gravi, della quale ci occuperemo in seguito. Emerge poi nella elaborazione del telescopio un aspetto che avrà modo di emergere più volte in Galilei, ossia quelle che lui chiama "le sensate esperienze e le necessarie dimostrazioni”, dove sensate sta per "sensibili” e certe sta per "dimostrazioni rigorose”, di tipo matematico. Queste due espressioni vanno intese come la prima formulazione del metodo della scienza moderna, il quale si avvale non solo di calcoli matematici, non solo di osservazioni fisiche, ma di tutte e due le cose insieme.

GALILEO E ARISTOTELE
E’ senz’altro vero che Galileo si contrappone agli aristotelici prediligendo lo studio della natura alla lettura di libri, ma non é vero che si contrappone all’aristotelismo in generale. Lo studio della scienza all’epoca era sostanzialmente studio di libri, senza verifiche e confronti sulla natura: ad esempio prima di Galileo l’anatomia dell’uomo la si studiava sui libri e non dissezionando i corpi, effettuando cioè l’autopsia; ci si limitava a leggere i libri del medico Galeno, di età romana: si dava più importanza a ciò che si vedeva scritto che non a quello che si vedeva di persona: già Leonardo da Vinci notò come ai suoi tempi (siamo prima di Galileo) si preferisse il richiamo all’autorevolezza degli scrittori importanti alla constatazione empirica personale. E’curioso come nel Dialogo sopra i massimi sistemi del mondo, tolemaico e copernicano ad un certo punto compaia un aristotelico di nome Simplicio al quale il personaggio portavoce della teoria copernicana fa notare razionalmente tramite una serie di passaggi come l’eliocentrismo funzioni perfettamente; Simplicio risponde che sono affermazioni bellissime e non esiterebbe ad accettarle se Aristotele non avesse detto il contrario. E’ evidente come Galileo voglia qui sottolineare, tra l’altro, come ai suoi tempi ad opporsi all’eliocentrismo non fosse solo la Chiesa, ma anche la tradizione aristotelica (oltre al senso comune: pare infatti ovvio a tutti noi che viviamo sulla Terra di essere al centro dell’universo e che la Terra stia ferma). Però la polemica galileiana é rivolta non ad Aristotele (come invece aveva fatto Giordano Bruno), ma agli aristotelici della sua epoca, che stimano "il filosofare non tendere ad altro che al non si lasciar persuader mai altra opinione che quella d’Aristotile” (vedi Simplicio); d’altronde Galileo é pienamente consapevole di come gli aristotelici del 1600 siano altra cosa rispetto al maestro Aristotele: sa benissimo che a differenza degli aristotelici del 1600, che badano solo ai libri cartacei, Aristotele é interessatissimo all’esperienza: "Aristotele deride quelli che lasciano l’esperienze sensate, per seguire un discorso che può essere fallacissimo”. Sarà invece Bacone a non fare differenza tra Aristotele ed aristotelici. Galileo invece afferma in risposta agli aristotelici che lo accusano di non prestar fede ai libri di Aristotele che se Aristotele potesse rivivere sceglierebbe senz’altro lui come suo discepolo e non tutti loro, eccessivamente legati ad una cultura”libresca”:


... ma gli ingegni vulgari timidi e servili, che altrettanto confidano, sopra l’autorità di un altro, quando vilmente diffidan del proprio discorso, pensando potersi di quella fare scudo, né più oltre credon che si estenda l’obbligo loro, che a interpretare, essendo uomini, i detti di un altr’uomo, rivolgendo notte e giorno gli occhi intorno ad un mondo dipinto sopra certe carte, senza mai sollevargli a quello vero e reale, che, fabbricato dalle proprie mani di Dio, ci sta, per nostro insegnamento, sempre aperto innanzi.


In effetti Aristotele era molto più vicino a Galileo che non agli aristotelici del 1600 come modo di operare questi ultimi, invece di avvalersi dell’esperienza sensibile e della ragione (che secondo Galileo ha "podestà assoluta”), si affaticano solo "per salvar il testo d’Aristotile, come che il filosofare altro non sia che il solo procurar d’intender questo libro e sottilizzar per difenderlo dalle sensate e manifeste esperienze e ragioni in contrario”. In effetti Aristotele era un grandissimo e attentissimo esaminatore della natura e ne sono prova le sue opere biologiche e "se a questi secoli fosse vivo, cangerebbe molte sue opinioni”; anzi, non é scorretto affermare che Aristotele seguisse l’esperienza ancora di più di quanto fa Galileo.

LA LEGGE DI CADUTA DEI GRAVISi ricorda spesso la leggenda secondo la quale Galileo, per dimostrare la sua legge di caduta dei gravi, sarebbe salito sulla torre di Pisa e avrebbe fatto cadere oggetti di materiale diverso per verificare la fondatezza delle sue teorie. Noi sappiamo con certezza che questo "racconto” é falso ed é solo una leggenda non solo per mancanza di prove storiche, ma anche perché se l’avesse fatto non avrebbe verificato le sue teorie: un esperimento del genere avrebbe dato infatti ragione ad Aristotele, che sosteneva che i corpi cadono con una proporzionalità diretta con il proprio peso (più un corpo é pesante e più cade velocemente).

Tuttavia noi oggi sappiamo che aveva ragione Galileo: il peso non c’entra niente con la velocità di caduta dei gravi: cadono tutti con la stessa velocità, che é proporzionale non al peso, ma al tempo trascorso da quando il moto é iniziato (se lancio un oggetto, prima va lento e poi aumenta col passare del tempo la velocità). Dunque per Galileo la velocità di caduta é proporzionale non al peso, ma al tempo trascorso nella caduta. Gli oggetti cadono tutti con la stessa velocità; però se facciamo cadere una palla di piombo e un batuffolo di cotone ci accorgiamo subito che non cadono alla stessa velocità e pare quindi aver ragione Aristotele e non Galileo; questo dimostra che l’esperienza comune dà ragione ad Aristotele: egli quindi é davvero stato un grande osservatore della natura. Se Galileo fosse quindi salito sulla Torre di Pisa e avesse fatto cadere una palla di piombo e un batuffolo di cotone per dimostrare che il peso non conta avrebbe fatto fiasco. Galileo ha ragione solamente in considerazioni particolarissime, ideali: la legge di caduta dei gravi galileiana vale esclusivamente nel vuoto; nel vuoto sì che i corpi cadrebbero tutti alla stessa velocità. Quando non c’é il vuoto é ovvio che un oggetto meno pesante occupa più spazio in proporzione al peso e occupando più spazio c’é un attrito maggiore nella caduta: 1 Kg di piombo cade prima di 1 Kg di cotone secondo Aristotele; cadendo devono spostare l’aria: 1 Kg di piombo deve spostarne poca, c’é meno attrito e quindi arriva prima; 1 Kg di cotone occupa più spazio, c’é più attrito con l’aria, e quindi arriva dopo rispetto al piombo. Questo perché c’é l’aria: se fossimo nel vuoto toccherebbero terra insieme.

Tutto il discorso insegna che l’osservazione pura e semplice non dà mai ragione a Galileo perché a lui non interessa l’osservazione casuale, ma quella controllata in situazioni particolarissime: un’osservazione ideale. In altre parole gli interessa l’esperimento, ossia un’esperienza fatta in una situazione controllata e quindi misurabile; se vedo cadere delle cose l’esperienza di tipo aristotelico mi dice che ci sono oggetti che tendono al loro luogo naturale, al limite può dirmi che tendono ad aumentare di velocità man mano che precipitano; ma quest’esperienza non mi dice di quanto aumenta la velocità in un determinato tempo. Ma perché quindi Aristotele si basa solo sull’esperienza, mentre Galileo anche sull’esperimento, ossia l’esperienza controllata? Ad Aristotele interessano i dati qualitativi - i corpi pesanti vanno verso il basso; al limite può interessargli sapere che ci sono corpi che vanno più velocemente, altri più lentamente - ma non gli interessano dati quantitativi (quanto ci mette a cadere un oggetto, per esempio) proprio perché non ha i mezzi per misurare; invece Galileo può misurare con l’esperimento, può quantificare; Aristotele non ha i mezzi perché non gli interessa, ma é anche vero il contrario, ossia non gli interessa perché non ha i mezzi. Accanto alla matematica, la sperimentazione è il secondo mezzo a cui i nuovi scienziati fanno metodicamente ricorso. L'esperimento, inoltre, il quale (come detto) consiste nella riproduzione artificiale di processi naturali in condizioni di massima osservabilità, deve servirsi di strumenti di indagine e di misurazione sempre più raffinati (ad es. orologi, cannocchiali, telescopi, barometri). Si stabilisce quindi la già citata connessione tra scienza e tecnica. L’esperienza di ogni giorno darebbe ragione ad Aristotele, ma Galileo sente l’esigenza di ridurre l’esperienza a condizioni ideali e rigorosamente determinabili, di eliminare tutti i fattori di disturbo rispetto al fenomeno che deve essere studiato. Però l’esperienza comune non ci mette mai di fronte al fenomeno che dobbiamo studiare nella sua purezza: é sempre mescolato ad altri fenomeni: se devo studiare la caduta dei gravi, essa non é un fenomeno puro perché c’é l’attrito; sarebbe puro se fatto nel vuoto o comunque (visto che all’epoca il vuoto non era realizzabile) in condizioni che almeno si sforzino di ridurre al minimo quegli elementi di disturbo che tendono appunto a non farci vedere l’oggetto della nostra indagine nella sua purezza. Allora l’esperienza di Aristotele é concreta, sempre intrecciata ad altri fenomeni che disturbano, mai pura: non é esperimento, ma esperienza, semplice osservazione della natura.

L’esperimento é quello di Galileo, dove si riproduce una determinata situazione, un determinato fenomeno in condizioni che cercano di eliminare ciò che disturba per poter studiare in condizioni di purezza. L’esperienza come la vorrebbe Galileo, però, non esiste mai in natura: ecco il paradosso della scienza galileiana. Se al giorno d’oggi siamo abituati a pensare che il mondo descrittoci da Galileo sia quello vero, preciso, é altrettanto vero che Aristotele ci descrive il mondo così come lo vediamo ogni giorno. Quello che dice la scienza galileiana non succede mai perché nel nostro mondo non ci sono le condizioni giuste (vedi il vuoto): possiamo arrivare ad una conclusione paradossale: il mondo descritto da Galileo é un mondo puramente ideale, che esiste solo nella sua testa. E’un mondo ideale al quale il nostro mondo concreto risulta avvicinarsi più o meno a seconda dei casi; é evidente che quanto appena detto evoca fortemente il platonismo: Platone aveva infatti parlato di un mondo ideale, delle idee perfette, immutabili ed uniche contrapposto ad un mondo sensibile (il nostro), pallida copia di quello ideale. Anche per Galilei in fondo é così: nel nostro mondo le cose non sono mai "perfette”come le propone Galileo. D’altronde già l’amore per le ”necessarie dimostrazioni”, ossia per la matematica é di forte ispirazione platonica: "non entri chi non sa la matematica” c’era scritto all’ingresso dell’accademia platonica. Un quesito su cui gli studiosi si sono molto arrovellati nel tempo é se Galileo preferisse le "sensate esperienze” o le "necessarie dimostrazioni”; si é arrivati alla conclusione che egli preferisse le "necessarie dimostrazioni”, le verità matematiche. Come mai? Cerchiamo di capire tramite un esempio concreto. Ritorniamo sulla legge di caduta dei gravi: in generale il metodo galileiano funziona così: si elabora un’ipotesi matematica (in termini di rapporti matematici tra le varie grandezze prese in esame) su come funzionano i fenomeni, si cerca con un esperimento (ossia un’esperienza controllata e rigorosa) di verificare se questa ipotesi corrisponde alla realtà fisica; si avanza l’ipotesi che i corpi cadano secondo un’accelerazione per cui la velocità é proporzionale al tempo trascorso (v = t). Si può vedere con un calcolo piuttosto semplice che gli spazi percorsi sono proporzionali al quadrato dei tempi (v = t, ma v é spazio su tempo, ossia s/t; quindi v = t diventa s/t = t che é s = t al quadrato). Galileo si pone una domanda: come posso verificare la caduta dei gravi?

Per verificare Galileo in primo luogo si avvale della pars destruens, con la quale confuta (distrugge) le posizioni ”vecchie” in contrasto con quelle da lui sostenute: fa alcuni esperimenti mentali (ossia esperimenti non svolti materialmente, bensì nella mente di chi lo effettua; vengono svolti solo nella mente soprattutto perché spesso non sono verificabili concretamente); deve confutare la tesi aristotelica secondo la quale i corpi cadono a velocità diverse a seconda del loro peso. Fa questo ragionamento: supponiamo di avere due oggetti di peso diverso, che secondo Aristotele dovrebbero toccare terra in momenti diversi; proviamo ad unire insieme i due pesi ottenendo un corpo unico: con che velocità cadranno questi due corpi legati insieme? Secondo Aristotele essendo più pesante il nuovo corpo (perché somma dei due) andrà più veloce di quello più pesante dei due da solo; ma é anche vero che il più leggero ridurrà la velocità di quello più pesante: si dovrà fare una media tra i due. Con questa dimostrazione per assurdo si dimostra che si dovrebbero avere due velocità diverse, per un verso una maggiore rispetto a quella dei due corpi precedenti da soli, per un altro una velocità intermedia tra le due: quindi l’ipotesi aristotelica che sia il peso a determinare la velocità di caduta si smentisce da sé: l’ipotesi del padre della logica viene così smentita da Galileo con un ragionamento logico. Altro tipo di esperimento mentale che Galileo propone per confutare le tesi aristoteliche della velocità di caduta legata al peso é il seguente: si vuole dimostrare che la differenza di velocità é dovuta alla presenza di un mezzo denso (l’aria, per esempio) e che nel vuoto questa differenza si annullerebbe; ma il vuoto non lo si può realizzare: allora Galileo deve ovviare servendosi di mezzi con densità diversa: per esempio si può scegliere di far cadere i nostri oggetti di peso diverso nell’aria, nell’acqua e nell’olio; ci si accorge subito che cadono sì con velocità diverse, ma se aumentiamo la densità del mezzo (non più l’aria ma l’olio, per esempio), ci si accorge che questa differenza di velocità di caduta aumenta: più il mezzo é denso e più la differenza tra le velocità di caduta di oggetti di peso diverso aumenta; é ovvio: più c’é attrito e più l’oggetto leggero ci mette ad atterrare. Se con il più denso (l’olio) la differenza di velocità é grandissima, se con l’intermedio (l’acqua) é minore e se infine con l’aria é minima, posso estrapolare (da una sequenza di dati che possiedo ne tiro fuori uno che non possiedo) qualcosa. Se la differenza di velocità diminuisce col diminuire della densità, posso arrivare (con dati verificati) ad estrapolare un dato che non avrò mai sperimentalmente: la caduta di corpi di pesi diversi nel vuoto (che ha densità zero).

Emerge quindi una cosa fondamentale: Galileo si fonda in parte sulla esperienza, e molto di più su dati matematici, sul costruire mentalmente un mondo (inesistente nella realtà) in cui i dati dell’esperienza risultano purificati. Esaminiamo ora la pars costruens, ossia in che modo Galileo, distrutte le tesi dell’avversario, costruisce le sue: elabora un'ipotesi in termini matematici, suggerita in qualche modo dall’esperienza ma non derivante da essa: questo dimostra che nella costruzione della scienza l’elemento creativo é assolutamente fondamentale; quasi mai dalla pura e semplice raccolta di dati vengono fuori verità: esse emergono solo grazie all’atto creativo, ossia la formulazione di una ipotesi. Posso osservare la natura finché voglio, ma non mi verrà mai fuori da sola l’ipotesi galileiana sulla caduta dei gravi; dall’osservazione della natura posso avere stimoli, ma devo dire "proviamo ad immaginare che la legge sia questa”: si deve inventare avvalendosi dei suggerimenti che la natura ci fornisce; certo non avrebbe potuto inventare l’ipotesi opposta: la velocità di caduta dei gravi diminuisce col tempo. Si formula un’ipotesi, ma non é verificabile direttamente (la velocità non é quasi mai verificabile direttamente); dire che la velocità é proporzionale al tempo non é verificabile direttamente, ma lo é la sua conseguenza matematica (il teorema: l’affermazione derivata matematicamente dall’ipotesi). L’ipotesi é che la velocità sia proporzionale al tempo, il teorema é quello, matematicamente derivato dall’ipotesi, che dice che gli spazi percorsi sono proporzionali al quadrato dei tempi. Questo teorema é sì verificabile; quindi Galileo valuta se questa teoria é verificata dall’esperimento (e non dall’esperienza: devo infatti misurare le grandezze); fa quindi il famoso esperimento del piano inclinato: doveva misurare i tempi per percorrere un certo spazio e gli spazi percorsi; deve rendere misurabile e quindi fa avvenire la caduta non in verticale (sarebbe difficilissimo misurarla) ma su un piano inclinato artificialmente creato (maggior lentezza); questo piano inclinato su cui é stato tracciato un carretto su cui far scorrere una biglia di bronzo deve essere il più liscio possibile per ridurre l’attrito (eliminarlo é impossibile; Galileo vuole renderlo trascurabile). Dopo di che misura con gli imprecisi strumenti (non si scendeva sotto il secondo, che si misurava coi battiti cardiaci) di allora il tempo e lo spazio: constata che il teorema (non l’ipotesi che la velocità é proporzionale al tempo) dello spazio percorso proporzionale al quadrato dei tempi é vero: in un secondo la biglia avrà percorso una distanza x; in due secondi una distanza x elevata a potenza, e così via. Galileo ritiene di poter dire che se il teorema é stato verificato, allora le premesse (l’ipotesi) era vera; se la conseguenza é vera, allora anche la premessa é vera, dice Galileo. Ma secondo i sillogismi aristotelici se la conseguenza é vera non é detto che anche la premessa sia vera (le rane sono vegetali, i vegetali sono verdi quindi le rane sono verdi: la conseguenza é giusta, ma la premessa no!). In effetti in logica é un grave errore credere che da conseguenza vera derivi premessa vera; ma Galileo opera in ambito matematico. Nelle espressioni algebriche, per esempio, guardando il risultato finale che spesso i libri danno si può capire se l’espressione é stata svolta correttamente; però si può arrivare al risultato anche con procedimenti sbagliati (ed é la critica logica che si muove a Galileo): ma in matematica (a differenza che in logica) le probabilità di arrivare a un risultato giusto svolgendo scorrettamente sono bassissime; e lo stesso vale per Galileo, avendo a che fare con quantità, é praticamente nulla la possibilità che si arrivi al giusto partendo dallo sbagliato. Dalla verifica del teorema che gli spazi percorsi sono proporzionali al quadrato dei tempi impiegati posso quindi argomentare la veridicità dell’ipotesi che la velocità é proporzionale al tempo.

IL METODO SPERIMENTALE
Riassumiamo il metodo sperimentale galileiano: preparato il terreno con una pars destruens, si parte dall’esperienza attraverso la formulazione di un’ipotesi (formulata in termini matematici, di rapporti che legano dinamicamente due fenomeni: anche quando i fenomeni mutano il rapporto rimane costante), poi si passa alla verifica sperimentale (si tolgono gli elementi di disturbo per poter effettivamente misurare in termini matematici), se possibile si dimostra subito l’ipotesi, altrimenti si dimostra il teorema (che é la conseguenza matematica dell’ipotesi); dalla verifica del teorema si considera dimostrata l’ipotesi e quindi la legge. E se il teorema non fosse un dato verificato? Dovremmo eliminare l’ipotesi e cercarne un’altra? Ma Galileo fa un’affermazione apparentemente sconcertante: "sì e no”; l’ipotesi sul piano fisico é evidentemente da scartare, non corrisponde a come funziona il mondo; però per Galileo essa continuerebbe a rimanere valida sul piano matematico. Mettiamo il caso che l’ipotesi di prima non sia stata correttamente dimostrata; dell’ipotesi risultata indimostrata (perché indimostrato il teorema) resterebbe vero che in un mondo "uniformemente accelerato” gli spazi percorsi saranno proporzionali al quadrato dei tempi. Una cosa é la realtà fisica, un’altra é la realtà matematica. Galileo attribuisce come aveva fatto Platone valore autonomo alla coerenza interna delle teorie, quasi come se il moto uniformemente accelerato esistesse in un’altra realtà (il mondo delle idee, avrebbe detto appunto Platone). La dimensione delle certe dimostrazioni in Galileo finisce per essere più importante rispetto a quella delle sensate esperienze. E’interessante quello che Galileo ci dice sulla costruzione del telescopio in una lettera: anche qui finiscono per risultare più importanti le certe dimostrazioni; non descrive affatto dei concreti tentativi come avrebbero potuto fare gli artigiani olandesi; Galileo invece ci descrive un puro e semplice ragionamento su quali risultati si sarebbero potuti ottenere da una determinata combinazione di lenti concave e lenti convesse. Quello che descrive nella lettera é un puro e semplice calcolo mentale: anche su questo piano prevalgono le certe dimostrazioni.


L’OSSERVAZIONE DEI PIANETIUna volta costruito il telescopio, Galileo osservò come prima cosa la Luna; in particolare vide l’alba e il tramonto sulla Luna: osservò la metà chiara (quando vediamo la "mezzaluna”) e la metà scura e si accorse che laddove terminava la parte chiara c’erano puntini scuri e laddove terminava la parte scura c’erano puntini chiari: interpretò questa cosa in modo corretto, come l’alba e il tramonto: quando sorge il Sole sulla Terra le prime cose illuminate sono le montagne; quando ancora su tutto il resto regna il buio, sulle vette delle montagne arriva già il sole; viceversa, quando tramonta il sole, prima arriva il buio sulle montagne e poi arriva anche su tutto il resto. Le chiazze scure nella parte chiara e le chiazze chiare nella parte scura della Luna erano quindi delle montagne: anche sulla Luna, quindi, ci sono le montagne come sulla Terra. Questa osservazione é estremamente importante perché fa cadere definitivamente l’idea di matrice aristotelica dell’eterogeneità tra mondo sublunare (il nostro, costituito dai 4 elementi: terra, acqua, aria, fuoco) e mondo celeste (quello al di sopra del nostro, costituito dall’etere, un materiale incorruttibile): la Luna, per definizione, doveva essere perfettamente sferica, priva di irregolarità per poter imitare la perfezione divina. Invece quello che vedeva Galileo era che la Luna, come la Terra, era fatta di materiale irregolare ed imperfetto; qualche anno prima anche Giordano Bruno, non per vie scientifiche, bensì per vie metafisiche, era arrivato allo stesso risultato. Poi Galileo osserva le fasi di Venere; come la Luna, Venere presenta fasi: vedere le fasi di Venere equivale a vedere la verità del sistema copernicano perché di fatto esse testimoniano che Venere gira intorno al Sole e non alla Terra. Se l’osservazione della Luna fa cadere la diversità tra mondo terrestre e mondo sublunare, l’osservazione delle fasi di Venere fa vedere che quella di Copernico non era un’ipotesi matematica come quella di Tolomeo, ma una verità fisica. A partire da questo momento la Chiesa non può far altro che condannare la teoria copernicana, che pur da 50 anni era stata accettata. La terza osservazione che fa Galileo sono i satelliti di Giove: sono un altro indizio a favore del sistema copernicano perché ciò che era stato contestato in qualche maniera a tale sistema é che esso introduceva in maniera assurda dal punto di vista aristotelico due centri di rotazione (il Sole rispetto ai pianeti, la Terra rispetto alla Luna): se il mondo é finito come dice Aristotele (e come tra l’altro continua a credere anche Galileo, che peraltro é ancora convinto della circolarità dei moti), come fanno ad esserci due centri? In un mondo finito ci dovrebbe essere un centro solo. Ma Galileo osserva che Giove é centro di rotazione dei suoi satelliti; quindi oltre al Sole, almeno un altro centro di rotazione deve esserci. Quarta osservazione é quella della Via Lattea (Galassia), la striscia bianca osservabile in cielo: puntando il telescopio vede che in realtà si tratta di stelle e ne deduce che le stelle non possono essere tutte alla stessa distanza, fissate sul cielo delle stelle fisse (come diceva Aristotele), ma che sono disposte in profondità le une rispetto alle altre: anche qui Giordano Bruno c’era già arrivato in maniera metafisica. Per alcuni versi Galileo però rimane arretrato come modo di pensare: pur avendo ammesso che i centri di rotazione sono più d’uno egli continua a sostenere la finitezza dell’universo (a differenza di Bruno che dall’idea di 2 centri di rotazione non aveva esitato a concludere che il mondo fosse infinito); continua inoltre, rimanendo fedele ad Aristotele, a sostenere che le orbite dei pianeti sono circolari, e non ellittiche (come aveva detto Keplero) o ovali (come aveva detto Brahe). Poi Galileo osservò anche le macchie solari, spesso interpretate come fenomeni che avvenivano non sul Sole, ma dati dalla combinazione di effetti dell’atmosfera terrestre. Lui osserva che anche lì avvengono delle cose, come aveva fatto con la Luna

SCIENZA E SCRITTURA
Esaminiamo ora il rapporto tra la Sacra Scrittura e la scienza; dobbiamo innanzitutto dire che Galileo era e si sentiva un buon cristiano e il suo atteggiamento nei confronti della Chiesa fu ben diverso rispetto a quello di Giordano Bruno. Egli, a differenza del Nolano, é convinto della verità della Chiesa e non deve assolutamente "sconfessare”. Fu a partire dal novembre 1612 che la teoria copernicana venne proclamata eresia e anche le posizioni di Galileo vennero attaccate: sostenere l’eliocentrismo significava indubbiamente mettere in discussione la veridicità delle Scritture; c’é infatti un passo nella Bibbia in cui Giosuè ordina al Sole di fermarsi; se il Sole deve fermarsi é ovvio che é concepito in movimento ed é però altrettanto ovvio che questo é in contrasto con la teoria copernicana che lo vuole fermo al centro dell’universo. Galileo dovette così intraprendere la difesa delle sue teorie e lo fece in alcune lettere in cui affrontava la questione del rapporto scienza - Scrittura. Le sue sono e rimangono comunque posizioni ortodosse, di rispetto per la Chiesa. Galileo deve riuscire a fondare l’autonomia della ricerca scientifica, sciogliendola dal vincolo delle Scritture: il pensiero di Galileo é pervaso dalla convinzione che scienza e Scrittura abbiano un’unica fonte. Già Agostino, uno dei padri della Chiesa, sosteneva che il Logos fosse l’origine sia della ragione, sia della rivelazione e anche della creazione; riprendendo in parte queste idee di fondo Galileo arriva a dire che scienza e Scrittura hanno un’unica origine, quella divina. In altre parole, ciò che l’uomo scopre nella natura non può essere in contrasto con la rivelazione: il libro della Scrittura e quello della natura finiscono per essere la stessa cosa, quasi come se Dio volesse comunicare con l’uomo tramite la rivelazione e in più tramite tutto ciò che ci circonda: é come se Dio si fosse rivelato a noi parallelamente con questi due libri, quello della Scrittura e quello della natura. Tuttavia risulta stridente la contraddizione tra natura e Scrittura nel caso della teoria copernicana, da Galileo sostenuta e dimostrata autentica: la Scrittura mi dice che il Sole ruota intorno alla Terra, la natura mi dice invece che é la Terra a girare intorno a lui. Galileo cerca di risolvere il problema sottolineando come gli obiettivi del libro della Scrittura e quelli del libro della natura siano diversi.

Il libro della natura ci insegna come é fatto il mondo, il libro della rivelazione (la religione) ci mostra invece come comportarci per ottenere la salvezza dell’anima: il libro della natura é latore di un messaggio teoretico, quello della Scrittura di un messaggio etico - religioso. Non a caso Galileo ripeteva sempre: "la Scrittura non ci insegna come vada il Cielo, ma come si vada in Cielo”. Essendo diversi gli obiettivi, spiega Galileo, é evidente che la Bibbia per perseguire il suo abbia dovuto adattarsi alla mentalità delle persone dell’epoca per rivelare l’onnipotenza divina: se a quei tempi si pensava che il Sole girasse intorno alla Terra, per mostrare l’onnipotenza di Dio bisognava dire che egli era in grado di fermare il Sole. Non ha un valore teoretico quest’asserzione, ma solo etico: non mi dice come é il mondo, vuole solo dimostrare come Dio possa tutto. D’altronde nella Bibbia ci sono altre espressioni che fanno ben intendere come le finalità siano quelle di mostrare la potenza di Dio e non di spiegare come effettivamente sia il mondo; la figura stessa di Dio nella Scrittura é antropomorfica: si parla dell’occhio di Dio, della mano di Dio: non mi si vuol dire che Dio ha gli occhi o le mani! La Scrittura arriva perfino a dire che Dio si pente: un pentimento presume un errore, ma é impossibile che Dio commetta errori.

Quello della Bibbia, per Galileo, é un messaggio che non va preso alla lettera. Anche il non prendere alla lettera la Bibbia é comunque ortodosso e non va contro la Chiesa: la Bibbia, é risaputo, può essere letta con significati diversi e con diverse interpretazioni. Quindi quando si dice che Dio fa fermare a Giosuè il Sole, si vuole solamente sottolineare l’onnipotenza divina e non la struttura architettonica dell’universo. E’ Dio che si é adattato al linguaggio degli uomini di allora (che non sapevano che il Sole non girasse intorno alla Terra) per farsi capire. Va senz’altro ricordato che Galileo scrisse le lettere in cui difendeva le sue teorie avvalendosi dell’aiuto di alcuni teologi cristiani, rappresentanti delle fasce più moderne del Cattolicesimo; sfruttò i loro suggerimenti per sostenere le sue posizioni contro la Chiesa più retrograda. Del rapporto di Galileo con la Scrittura ce ne parla lui stesso: "Se bene la Scrittura non può errare, potrebbe nondimeno talvolta errare alcuno de’ suoi interpreti ed espositori in vario modo: tra i quali uno sarebbe gravissimo e frequentissimo, quando volessero fermarsi sempre nel puro significato delle parole, perché così vi apparirebbero non solo diverse contraddizioni, ma gravi eresie e bestemmie ancora; poi che sarebbe necessario dare a Iddio e mani e piedi e occhi, e non meno effetti corporali e umani, come d’ira, di pentimento, d’odio, e anco talvolta l’obblivione delle cose passate e l’ignoranza delle future... Stante, dunque, che la Scrittura in molti luoghi é non solamente capace, ma necessariamente bisognosa d’esposizioni diverse dall’apparente significato delle parole, mi par che nelle dispute naturali ella dovrebbe esser riserbata nell’ultimo luogo”. Sembra quindi che Galileo si sia difeso correttamente e abbia dimostrato di non essere un eretico, ma ciononostante la Chiesa continuò ad essergli ostile. Come mai? Dobbiamo ricordarci che siamo nel pieno della Controriforma: dopo l’affermarsi del Protestantesimo e del Calvinismo in seguito, la Chiesa rispose alla Riforma luterana con una Controriforma dove si chiudeva ancora di più nelle sue posizioni. Ebbene, alla Chiesa cattolica non andava giù che Galileo si intromettesse in questioni religiose, vedeva in lui una specie di Protestante, che applicava la teoria propugnata da Lutero del libero esame: la figura del prete che legge le Scritture é inutile; ognuno é libero di esaminarle e di interpretarle da sé (e questo contribuì moltissimo all’alfabetizzazione dei paesi protestanti a discapito di quelli cattolici). Per quel che concerne invece il rapporto di Galileo con l’altro testo all’epoca ritenuto inconfutabile, ossia il testo di Aristotele, va detto che qui le cose cambiano notevolmente: se in Galileo non c'é rifiuto per la Scrittura, c’é però rifiuto per l’autorità dei testi aristotelici. Si tratta di un rifiuto rivolto soprattutto agli aristotelici del 1600, che vivono in un mondo "di carta”e che antepongono all’esperienza l’autorità di Aristotele.

IL LIBRO DELLA NATURA: PROPRIETA' SOGGETTIVE E OGGETTIVE
Spesso si dice che Galileo si contrappone agli aristotelici della sua epoca perché mentre loro leggono il libro di carta, lui legge il libro della natura, scritto in caratteri matematici:


io veramente stimo il libro della filosofia esser quello che perpetuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi; ma perché é scritto in caratteri diversi da quelli del nostro alfabeto, non può esser da tutti letto: e sono i caratteri di tal libro triangoli, quadrati, cerchi, sfere, coni, piramidi ed altre figure matematiche, attissime per tal lettura.


Per poter interpretare questo libro e leggerlo, come per qualsiasi altro libro, bisogna imparare l’alfabeto. L’alfabeto in cui questo particolare libro é scritto é l’alfabeto matematico; se prima di leggere questo libro fisico che é la natura bisogna conoscere l’alfabeto della matematica, allora per Galileo prima di studiare la fisica bisogna studiare la matematica. E’ un’ottima rappresentazione del rapporto che Galileo ha instaurato tra matematica e fisica, rapporto che é sostanzialmente quello in vigore ai giorni nostri. Ma quest’affermazione del libro della natura risulta ambigua perché può significare due cose; Galileo riprende essenzialmente idee platonico - pitagoriche; l’idea che il libro della natura sia scritto in caratteri matematici era ben presente nel Timeo di Platone: c’erano i 4 elementi fondamentali (terra, acqua, aria e fuoco) apparentemente si distinguono in termini qualitativi, ma in realtà nella loro radice profonda si distinguono in termini quantitativi: ciò che distingue un elemento da un altro é la forma geometrica delle particelle di quel elemento. La forma del fuoco era piramidale: il fuoco brucia apparentemente per caratteri qualitativi, ma in realtà per caratteri quantitativi, la fiamma é fatta a forma di piramide spigolosa e proprio perché spigolosa ci dà l’impressione di bruciare. La novità di Platone rispetto ad Empedocle che aveva elaborato questo sistema dei 4 elementi e ad Aristotele che verrà dopo, é che per lui queste manifestazioni qualitative sono apparenti, esteriori, ossia nascondono le manifestazioni più profonde, quelle quantitative. Siccome solo la matematica consente di dare interpretazioni rigorose della realtà (leggi fisiche) e solo le cose quantitative possono essere oggetto d’esame della matematica, studierò solo le cose quantitative. Gli altri aspetti della realtà non mi interessano, non li tengo in conto perché tanto non sono oggetto di misurazioni rigorose. Quando per esempio studia la gravità, dice (ammettendo quindi che esistano le cose qualitative) di non porsi il problema di sapere cosa sia la gravità; sarebbe un’indagine qualitativa della realtà la ricerca dell’essenza della gravità; Aristotele aveva proprio agito così, in termini qualitativi: lui non si é mai posto il problema di trovare in termini quantitativi la legge matematica in base alla quale le cose cadono, bensì si chiedeva cosa fosse la gravità: e rispondeva dicendo che essa non é altro che la tendenza naturale dei corpi a raggiungere il loro luogo naturale. Egli esamina la realtà ma non formula leggi scientifiche. Galileo fa l’opposto: non si occupa di che cosa sia la gravità (dice di non voler "tentare l’essenza”, trovare l’essenza), ma come si comporta, la sua legge di comportamento. La differenza di atteggiamento tra Galileo e Aristotele viene generalmente sottolineata dicendo che Galileo non si chiede né il cosa né il perché, ma il come; Aristotele invece si chiedeva proprio questo: che cosa é e perché si comporta così? Galileo invece vuole sapere il come: si cerca di scoprire la legge matematica del comportamento. Per lui non é importante sapere che cosa sia il peso, ma sapere che i corpi pesanti si muovono secondo una determinata legge matematica. E da Galileo in poi le leggi fisiche non dicono il che cosa e il perché, ma il come. Altre volte però Galileo sembra abbracciare tesi meccanicistiche; il meccanicismo é il vedere il mondo come puramente quantitativo. Le caratteristiche oggettive saranno in futuro dette primarie; le soggettive secondarie. Per sostenere la tesi che esistano solo caratteristiche quantitative Galileo usa l’esempio del solletico: se si fa solletico con una piuma, nessuno penserebbe che il solletico potrebbe esistere fuori dal corpo che prova il solletico; é evidente che la piuma dà il solletico; la piuma lo dà e chi lo subisce lo sente: non é una caratteristica della piuma, bensì del corpo che subisce!
Per Galileo, una volta detto che non "tenta le essenze”, diventa contraddittorio fare affermazioni metafisiche, infatti se Galileo vuole esaminare solo il come, si contraddirebbe se esaminasse come sia fatta la realtà, perché sarebbe proprio cercare l'essenza stessa della realtà. Quello che in Galileo é solo un’osservazione metodologica e un sospetto metafisico, diventa un’affermazione definitiva metafisica in Cartesio, Hobbes e così via; l’immagine del mondo nel 1600 sarà essenzialmente meccanicistica. C’é una grossa differenza: per Galileo il meccanicismo é un metodo di indagine, un meccanismo metodologico. Per dirla in una frase sola, dalla scienza galileiana é derivata una metafisica meccanicistica.

IL PRINCIPIO DI INERZIA
Galileo intuì il principio di inerzia, che sarà poi formulato adeguatamente da Cartesio. Il principio di inerzia mi dice che se conferisco movimento ad un corpo, esso tende a tenere quel moto all'infinito: questo significa che sia quiete sia moto sono stati: se un oggetto si muove quindi ciò che va spiegato è perché si fermi: dovrebbe per il principio di inerzia proseguire in quel moto all'infinito. Bisogna quindi spiegare il mutamento di stato (da moto passa ad inerzia). Per Aristotele invece non va spiegata la quiete ma il movimento, che è una forma di cambiamento: è un passaggio da potenza ad atto: la penna è qui ma potrebbe essere lì; la sposto ed ecco che è lì. Il mutamento-movimento per Aristotele richiede una causa, é un passaggio da potenza ad atto: la penna che sta qui in potenza potrebbe essere lì; ce la porto e da lì in potenza diventa lì in atto. Per noi va invece spiegata l'accelerazione, il cambiamento di velocità. Il lancio della penna mi spiega che acquista un movimento teoricamente infinito; per Aristotele è normalissimo che la penna dopo un po’cada: essa tende al suo luogo naturale: quello che per lui va spiegato è perché per un po’essa tenda a salire. Per Aristotele la quiete è uno stato, il movimento un mutamento (ed i mutamenti vanno spiegati). Per noi sono entrambe stati. Anche qui abbiamo una prova in favore di quanto Aristotele fosse osservatore della realtà (più di Galileo stesso): infatti la realtà a riguardo della penna sembra proprio dare ragione a lui e non a noi. Ritornando a Galileo, egli, come noi, sostiene che quiete e moto siano due stati. Per Aristotele il movimento era uno dei tanti mutamenti e in quanto tale andava spiegato; la quiete invece era anche per lui uno stato e in quanto tale riteneva che non andasse spiegato: é lo stato naturale delle cose ai suoi occhi. Noi oggi sappiamo (come Galileo aveva già intuito) che quando lanciamo per aria una penna, la poniamo in un nuovo stato (il movimento); il cambiamento non sta nel movimento, ma nell’accelerazione. Potremmo considerare la quiete, in altre parole, come un movimento particolare (movimento zero, per esempio). La penna ferma per Aristotele é in uno stato, ma lanciandola c’é un cambiamento, giustificato dalla spinta che si imprime alla penna: per lui é l’aria che trascina per un po’in aria la penna; esauritasi la "forza” dell’aria essa torna a cadere al suo luogo naturale. Da Galileo in poi viene considerato stato qualsiasi moto rettilineo uniforme; la quiete é appunto un caso di moto rettilineo uniforme con velocità zero. La penna é ferma: é nello stato di quiete. Certo che con la mano imprimo un mutamento, ma esso si identifica non con il movimento, bensì con l’accelerazione, ossia il mutamento di velocità: quello di cui la mano che lancia é causa non é il movimento, ma il passaggio da uno stato (di moto rettilineo con velocità zero) ad un altro stato (il moto rettilineo uniforme); questo nuovo stato secondo il principio di inerzia é destinato ad andare avanti in eterno, finché qualcosa non intervenga a modificarlo. Questo principio di inerzia formulato in modo embrionale da Galileo servirà poi a Newton per spiegare come i pianeti possano stare su da soli se le orbite non sono materiali come le concepiva Aristotele, bensì sono traiettorie ideali. A risolvere la questione una volta per tutte sarà appunto Newton, che opererà anche lui come Galileo nel 1600: mettendo insieme le scoperte di Galileo (il principio di inerzia e la gravità, che però Galileo pensava fosse valida solo sulla Terra e non universalmente), Newton arriverà a dire che i pianeti stanno su e girano intorno al Sole perché sparati a velocità talmente grande da non riuscir più ad atterrare, vincendo così la forza di gravità che tenderebbe a farli schiantare al suolo: in altre parole, il Sole attira i pianeti come il centro della Terra attira la penna (forza di gravità); invece di schiantarsi sul Sole che lo attira (come fa la penna attirata dal centro della Terra) il pianeta gira intorno grazie al principio di inerzia (moto uniformemente accelerato) e non si allontana, ma gira intorno al Sole perché sente comunque la forza di gravità che esso esercita. Newton combinando principio di inerzia e forza di gravità spiegherà quindi come i pianeti stanno su senza ricorrere ad orbite materiali.
Ma come arrivò Galileo a formulare il principio di inerzia? Vi arrivò sempre lavorando sul piano inclinato: osservò che mettendo sul famoso canaletto una biglia di bronzo lanciata ad una certa velocità, se lanciata in salita andrà progressivamente diminuendo di velocità; viceversa, lanciata alla stessa velocità in discesa avrà un progressivo aumento di velocità. Chiaramente si accorse di come la accelerazione (se mandata in discesa) e la decelerazione (se mandata in salita) fossero tanto maggiori o minori a seconda dell’inclinazione del piano. Con il classico processo di estrapolazione (ricavare un dato sconosciuto tramite dati conosciuti) arrivò ad ipotizzare che in assenza assoluta di declinazione o inclinazione del piano (ossia in assenza di un fattore di disturbo che intervenga) la biglia dovrebbe proseguire all’infinito nel moto in cui la si mette. E’ un esperimento mentale e non verificabile concretamente in primis perché ci vorrebbe un piano infinito per dire che la biglia prosegue in quel moto all’infinito; e poi occorrerebbe un piano con attrito zero. Immaginando però un piano infinito e con attrito zero, allora si può capire come la biglia proseguirebbe all’infinito a rotolare.

LA RELATIVITA’ CLASSICACon un esperimento mentale simile a quello con cui argomentò in favore del principio di inerzia, Galileo dimostrò anche il principio della relatività classica secondo la quale i movimenti vanno sempre analizzati relativamente al sistema di cui fanno parte. Si serve di un esperimento mentale non tanto perché nella realtà sarebbe impossibile materialmente dimostrare ciò che dice (come era per il principio di inerzia dove gli sarebbe occorso un piano infinito), quanto piuttosto perché nella realtà le cose non andrebbero esattamente come lui dice. L’esperimento mentale di cui si avvale é famoso in tutto il mondo: si tratta dell’esperimento del "gran navilio” come lo definisce lui, ossia della grande barca; oltre ad essere interessantissimo sul piano scientifico - filosofico, é anche importante sul piano letterario: Galileo é infatti il fondatore di un genere letterario, chiamato "prosa scientifica”: esprime argomenti scientifici con un periodare armonioso e leggiadro, di fronte al quale il lettore non può non entusiasmarsi, soprattutto se accosta il genere galileiano a quello degli altri scrittori del 1600, che tendevano ad adottare un fraseggio pesante e ridondante. Il passo, estratto dal Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, tolemaico e copernicano, é il seguente:

Riserratevi con qualche amico nella maggior stanza che sia sotto coverta di alcun gran navilio, e quivi fate d’aver mosche, farfalle e simili animaletti volanti; siavi anco un gran vaso d’acqua, e dentrovi de’pescetti; sospendasi anco in alto qualche secchiello, che a goccia a goccia vadia versando dell’acqua in un altro vaso di angusta bocca, che sia posto a basso: e stando ferma la nave, osservate diligentemente come quelli animaletti volanti con pari velocità vanno verso tutte le parti della stanza; i pesci si vedranno andar notando indifferentemente per tutti i versi; le stille cadenti entreranno tutte nel vaso sottoposto; e voi, gettando all’amico alcuna cosa, non più gagliardamente la dovrete gettare verso quella parte che verso questa, quando le lontananze sieno eguali; e saltando voi, come si dice, a piè giunti, eguali spazii passerete verso tutte le parti. Osservate che avrete diligentemente tutte queste cose, benché niun dubbio ci sia che mentre il vasello sta fermo non debbano succeder così, fate muover la nave con quanta si voglia velocità; ché (pur che il moto sia uniforme e non fluttuante in qua e in là) voi non riconoscerete una minima mutazione in tutti li nominati effetti, nè da alcuno di quelli potrete comprender se la nave cammina o pure sta ferma....

Se siamo sotto coperta (ossia se non vediamo fuori) e facciamo degli esperimenti dei movimenti che la nave sia ferma o che si muova noi non ce ne accorgiamo (purché il movimento sia rettilineo uniforme); in realtà poi non é esattamente così e Galileo lo sapeva benissimo altrimenti al posto di un esperimento mentale avrebbe lavorato concretamente in una nave materiale. Non é che quando la nave é in moto i pesci contenuti nella boccia rimangano schiacciati contro la parete; le mosche, allo stesso modo, non rimarranno spiaccicate sul fondo e le gocce che fuoriescono dal recipiente non sobbalzeranno fuori in modo anomalo; se ci sono due persone che si lanciano un oggetto (una palla, per esempio), non é che quello più sul fondo faccia più fatica a lanciare la palla ! Sia che il sistema (la nave, in questo caso) sia fermo, sia che si muova chi é presente in esso non può accorgersi di ciò che capita al di fuori del sistema, non si può accorgere del movimento assoluto rispetto all’esterno: i moti é come se rientrassero tutti nel sistema in riferimento. Questa dimostrazione é di fondamentale importanza: il sistema copernicano, infatti, era criticato dalla Scrittura (e Galileo mostra come in realtà il contrasto sia solo apparente), dall’autorità di Aristotele (e Galileo rifiutava questa autorità) e soprattutto dal senso comune: se la Terra girasse intorno al Sole, dicevano gli avversari di Copernico e di Galileo, noi dovremmo per forza accorgercene. Dovremmo, per esempio, sentire l’aria in faccia come quando si va a cavallo. E’molto più vicino al senso comune dire che la Terra sia ferma che non che si muova: a tutti, infatti, pare ferma. Galileo si difende da questa obiezione mossagli tramite l’esempio del "gran navilio”: la Terra, come il "navilio”, va considerata come sistema chiuso; noi che vi abitiamo siamo chiusi dall’atmosfera terrestre e percepiamo le cose come le si percepiscono in un sistema chiuso (come se fossimo sotto coperta in una nave). Così come le mosche nella cabina della nave non rimangono spiaccicate sul fondo né tantomeno si accorgono che la nave é in movimento, così (per esempio) gli uccelli sulla Terra non si accorgono che essa gira e possono volare senza essere tirati indietro dal girare del nostro pianeta.

Per dimostrare la teoria della relatività classica, Galileo si avvale anche di un altro esperimento mentale e "geometrico”, quello della pietra lanciata dalla cima di una torre: secondo il modo comune di pensare (quello aristotelico), se fosse vera la dottrina copernicana (che la Terra gira e il Sole sta fermo), se dalla torre lasciamo cadere la pietra, quest’ultima dovrebbe cadere un pochino più indietro rispetto alla torre perché nel momento in cui la pietra non sta più in mano a me che sono sulla torre la quale poggia sulla Terra (che é in movimento!), allora essa improvvisamente non avrebbe più motivo di seguire me che sono sulla torre che é mossa dalla Terra che si muove: mentre io, la torre e la Terra giriamo la pietra dovrebbe rimanere al di fuori dalla questione perché non a contatto con la Terra che gira e dovrebbe cadere al suolo, ma mentre cade, la torre, la Terra e io che sono sopra ci spostiamo e quindi la pietra risulterebbe cadere più indietro rispetto alla torre: in altre parole la Terra e tutto ciò che le sta sopra gira e va avanti; la pietra no perché sospesa in aria non é a contatto con l’intero sistema. Tutto questo perché nella tradizione aristotelica non ci sono il principio di inerzia e quello della relatività classica, che mi dice un’altra cosa: la pietra che si sta muovendo con me, che mi sto muovendo con la torre, che si sta muovendo con la Terra, avrà la stessa velocità di rotazione dell’intero sistema: sarà sì attratta verso il centro della Terra, ma avrà lo stesso movimento mio, della torre e della Terra: la pietra ci segue in "orizzontale”e secondo questo ragionamento dovrebbe cadere alla base della torre e non più indietro. In realtà però la pietra non solo non cade indietro, ma cade leggermente avanti rispetto alla torre perché in base al principio di inerzia quando lascio cadere la pietra, essa dovrebbe cadere alla base, però dobbiamo tenere in considerazione la cosiddetta velocità angolare. La velocità lineare di oggetti che hanno medesima velocità angolare muta a seconda della distanza di questi oggetti dal centro. Per cui la velocità lineare non é identica tra la base della torre e l’altezza: l’arco di circonferenza spazzato tra le basi é minore rispetto a quello spazzato dalle cime delle due torri (la seconda torre rappresenta la prima che si é spostata con il girare della Terra). La velocità lineare mia (che sono in cima alla torre) e della pietra (che é in mano mia) é un po’maggiore rispetto a quella della base della torre perché siamo più lontani dal centro della Terra (il centro di rotazione); in una situazione ideale, lasciando cadere la pietra che ha velocità lievemente maggiore rispetto alla base della torre, allora la pietra (che secondo il principio di inerzia dovrebbe continuare indefinitamente in questo percorso), compie una parabola e cade un po’più avanti perché si é mossa più velocemente rispetto alla base della torre in quanto più distante dal centro della Terra.

IL DIALOGO SUI DUE MASSIMI SISTEMI DEL MONDO
Il dialogo si svolge lungo l'arco di quattro giornate:
Giornata prima: confronto iniziale tra sistema copernicano (eliocentrico) e aristotelico-tolemaico (geocentrico).
Giornata seconda: il moto di rotazione giornaliera della Terra. In questa giornata, per spiegare il fatto che l'uomo sulla terra non ne percepisce il movimento, poiché è solidale ad esso, si riporta l'esempio di ciò che avviene all'interno di una barca in movimento.
Giornata terza: il moto di rivoluzione della terra attorno al sole.
Giornata quarta: le maree (secondo Galileo dovute principalmente alla combinazione dei moti di rotazione e rivoluzione).
Il DialogoLa scelta del volgareLo strumento letterario e l’uso del volgare potevano consentire a Galileo un’operazione di politica culturale molto varia e complessa, come quella da tentata con il Dialogo. La lettura di questo utilizzo quindi può essere duplice: da una parte si contrappone al latino della Chiesa e delle diverse Accademie che si basavano sul principio di auctoritas, rispettivamente, biblico ed aristotelico; dall'altra la precisa volontà di rivolgersi non solo ai dotti astronomi ed intellettuali, ma anche alle classi meno colte, ai tecnici che non conoscevano il latino ma che potevano comunque comprendere queste teorie. L'uso del volgare quindi è subordinato anche all'intento divulgativo dell'opera.
Si viene a delineare dunque una forte rottura con la tradizione precedente anche per quanto riguarda la terminologia: Galileo, a differenza dei suoi predecessori, non prende spunto dal latino o dal greco per coniare nuovi termini, ma li riprende, modificandone l'accezione, dalla lingua volgare.

Personaggi
Il Dialogo è impostato e portato avanti da tre diversi personaggi: due di questi, Salviati e Simplicio, sono due scienziati; il terzo invece è un patrizio veneziano, Sagredo. La scelta dei personaggi e il loro numero infatti non è casuale: Galileo utilizza i due scienziati come portavoce dei due massimi sistemi del mondo, cioè delle due teorie che in quel periodo andavano scontrandosi. Il terzo interlocutore rappresenta invece il discreto lettore, l'intendente di scienza, colui a cui è destinata l'opera: interviene infatti nelle discussioni chiedendo delucidazioni, contribuendo con argomenti più colloquiali, comportandosi come un medio conoscitore di scienza.
Salviati poi informa anche di un quarto personaggio, probabilmente lo stesso Galilei, ricordato nel dialogo come l'Accademico Linceo, riferendosi quandi alla sua appartenenza all'Accademia dei Lincei.
Filippo Salviati (1582 - 1614)
Salviati è uno scienziato e astronomo proveniente da una nobile famiglia fiorentina. Si fa portavoce delle idee copernicane di Galileo: viene descritto dall'autore come uno scienziato con una personalità equilibrata, acuto e soprattutto razionale. Nel Dialogo ha una duplice funzione: controbattere alle teoria di Simplicio e allo stesso tempo correggere le ingenuità di Sagredo, cercando quindi di chiarire le evidenti difficoltà che comportava la teoria copernicana del tempo.
Giovan Francesco Sagredo (1571 - 1620)Sagredo è un nobile e colto veneziano, di idee progressiste e di grande esperienza, si interessa al dibattito sebbene non sia un astronomo professionista; egli costituisce una sorta di moderatore tra le due parti e rappresenta i destinatari dell’opera: persone curiose ma per nulla esperte della materia trattata. Il riferimento storico è preciso: Giovan Francesco infatti fu un nobile diplomatico della Repubblica di Venezia, nemico in particolar modo della censura religiosa.
Simplicio
Simplicio è un peripatetico dalla rigida impostazione scolastica, rappresenta la dottrina tradizionale e dogmatica che non riconosce altri argomenti che quelli ammessi nelle opere passate; non sembra che rappresenti una determinata persona del tempo di Galileo, né quindi, come i nemici suoi vollero far credere, il papa Urbano VIII. Il suo nome ricorda quello del celebre commentatore delle opere di Aristotele per identificare il difensore delle posizioni degli scienziati della scuola aristotelica, appunto, Simplicio di Cilicia.
A Galileo inoltre non sfugge l’implicazione ironica del nome, che in italiano ricorda l’aggettivo semplice. Duplice può esserne il significato: da una parte potrebbe indicare ciò che è semplice, chiaro, evidente, facilmente dimostrabile; dall’altra invece potrebbe voler dire banale, sciocco, privo di sapere. Simplicio però non è sciocco, piuttosto è il banale modello dello scolastico incapace d aprirsi al nuovo e quindi di apprendere: ciò che è intuitivo infatti non è sempre ciò che è vero, quindi Simplicio non è sempliciotto.
La figura storica di questo personaggio però non è nota: in trasparenza si delinea però la figura di Cesare Cremonini (1550 - 1632), un collega di Galileo e filosofo aristotelico, che rappresentava la reazione alle teorie copernicane.
Il Gran NaviglioGalileo, per mezzo di Salviati, invita così il Simplicio e Sagredo, ma soprattutto il lettore, ad un esperimento mentale: immaginandosi sotto coperta di una nave infatti stabilisce un'analogia tra gli avvenimenti che accadono quotidianamente sulla superficie terrestre e quelli che avvengono su un Gran Naviglio. Il lettore viene così trasportato sottocoperta di una nave, in modo da non essere soggetto all'attrito dell'aria, e qui, sottocoperta, iniziano a verificarsi gli stessi avvenimenti, senza che ci possa essere nulla che permetta di rilevare il moto della nave. Salviati infatti argomenta sostenendo che se il Gran Naviglio si muovesse a velocità uniforme e non subisse variazioni rispetto al senso di marcia, allora sarebbe impossibile capire se la barca sia in movimento o ferma. Tutti i fenomeni che accadono sulla superficie terrestre infatti, a queste condizioni, accadono immutati sotto coverta e si svolgerebbero allo stesso modo anche supponendo il moto rotazionale terrestre.
Questo accade perché il Gran Naviglio si muove, il suo movimento si trasmette a tutti gli oggetti che si trovano al suo interno e si conserva, sommandosi allo stesso modo con il movimento o lo stato di quiete, senza che questo determini alcuna variazione. Ma ciò ha anche un'implicazione ben precisa: non esiste un sistema di riferimento considerato assoluto; in particolar modo questa concezione relativistica mette la Terra e l'uomo non più come punto di riferimento centrale, ma in relazione a qualcos'altro, venendo a cadere così la centralità di questi.
Un altro aspetto non meno importante è l'esperimento in sé: questa parte del metodo galileiano infatti si basa su un esperimento che è riproducibile solamente nella mente di chi lo compie. Galileo offre un'analisi dettagliata di molti fattori che potrebbero influenzare la riuscita dell'esperimento, ma che vengono poi eliminati per poter ricreare quelle condizioni ideali perché il fenomeno avvenga: importante quindi è anche il ruolo che gioca la matematica, perché non è importante arrivare solamente ad una dimostrazione qualitativa, ma anche ad una dimostrazione quantitativa del fenomeno.
La conoscenza matematica: l'Uomo come Dio
« Or questi passaggi, che l'intelletto nostro fa con tempo e con moto di passo in passo, l'intelletto divino, a guisa di luce, trascorre in un instante, che è l'istesso che dire, gli ha sempre tutti presenti. Concludo per tanto, l'intendere nostro, e quanto al modo e quanto alla moltitudine delle cose intese, esser d'infinito intervallo superato dal divino; ma non però l'avvilisco tanto, ch'io lo reputi assolutamente nullo; anzi, quando io vo considerando quante e quanto maravigliose cose hanno intese investigate ed operate gli uomini, pur troppo chiaramente conosco io ed intendo, esser la mente umana opera di Dio, e delle più eccellenti. »
(Salviati, Prima giornata.)
La matematica accompagna il metodo scientifico galileiano in tutte le sue regole a cominciare dalla misurazione quantitativa del fenomeno passando per l'ipotesi e l'esperimento sino alla elaborazione della legge, espressa in termini matematici.
Ed è tanto valida la matematica nel dare certezza alla conoscenza che per Galilei l'intelletto umano, quando ragiona matematicamente, è uguale a quello divino («...quanto alla verità di che ci danno cognizione le dimostrazioni matematiche, ella è l'istessa che conosce la sapienza divina [..]» (Salviati, Prima giornata).

Questa affermazione susciterà in seguito la reazione della Chiesa: la conoscenza dell'uomo, sia pure limitatamente alla matematica, viene resa simile e messa sullo stesso piano della sapienza divina. Galilei è infatti convinto che la matematica esprima verità assolute che si impongono allo stesso modo all'uomo e a Dio: con la sola differenza che Dio le possiede tutt'intere, mentre l'uomo le ha limitate.
Quindi con il processo a Galilei la Chiesa interveniva energicamente a tutelare la sua funzione di unica depositaria di verità assolute. Certo non nelle forme con cui l'ha fatto, ma qui valga la lezione crociana, già sopra richiamata, sulla differenza tra giudizio storico, che serve a capire, e giudizio morale con cui esprimiamo condanne o assoluzioni in nome di principi morali indiscutibili che storicamente non hanno senso se non quello di istituire tribunali che dovrebbero giudicare fantasmi.
Eredità galileiana: matematica e metafisica
La convinzione che da Galilei in poi si afferma nella scienza, e che cioè essa esprima verità assolute, ostacolerà il progresso scientifico: solo quando il relativismo scientifico metterà in discussione la certezza dei risultati sino a quel momento raggiunti, solo allora proseguirà nel suo cammino progressivo. Non si avrà mai la forza di usare il dubbio se si è convinti di trovarsi di fronte a verità assolutamente certe mentre «Una teoria è scientifica nella misura in cui può essere smentita» (Karl Popper). Così anche P. Feyerabend, il teorico della ricerca anarchica, sembra confermare questa tesi sia pure in un complessivo riconoscimento del merito scientifico di Galilei.
La convinzione di Galilei che l'uomo possa attingere verità assolute, con la matematica e quindi con la scienza, porterà il cammino della filosofia verso la metafisica di Cartesio convinto che l'uomo possa raggiungere l'assolutezza della verità con l'uso della ragione. È da Galilei che Cartesio trae la convinzione che le regole matematiche che egli ha usato e che gli sono state utili, siano in effetti regole che appartengono non tanto alla matematica, non soltanto a lei, ma ad una scienza unica assoluta di cui la stessa matematica fa parte. La metafisica insita nel metodo cartesiano rientrerà così nella filosofia e bisognerà attendere il '700 illuministico e kantiano per bandirla dalla filosofia e dalla scienza.

mercoledì 7 novembre 2007

ANTOLOGIA DEGLI ESSAIS DI MONTAIGNE

Michel de Montaigne, Saggi
Il metodoGli altri formano l'uomo; io lo racconto e ne rappresento uno in particolare assai mal fatto, e il quale, se avessi da modellare nuovamente, farei invero diverso da quel che è. Oramai, è fatto. Ora, le linee del mio ritratto non si disperdono, benché cambino e si diversifichino. Il mondo non è che un movimento continuo. Ogni cosa vi si muove senza tregua: la terra, le rocce del Caucaso, le piramidi d'Egitto, e del movimento pubblico e del proprio. La stessa costanza altro non è che un movimento più languido. Non posso assicurare il mio oggetto. Se ne va fosco e barcollante, di una ebbrezza naturale. Lo colgo in questo punto, come si presenta, nell'istante in cui me ne interesso. Non dipingo l'essere. Dipingo il passaggio […]. E' un controllo di diversi e mutevoli avvenimenti cangianti e d'immaginazioni irrisolte e, quando capita, contrarie; che io sia un altro me stesso, o che io colga i soggetti da altre circostanze e considerazioni. Tant'è che mi contraddico talvolta, ma la verità, come diceva Demadio, non la contraddico affatto. Se la mia anima potesse essere ferma, non mi saggerei, mi risolverei; è sempre in formazione e in prova. Quella che propongo è una vita semplice e senza lustro, è un tutt’uno. Si può legare altrettanto bene tutta la filosofia morale a una vita popolare e privata che a una vita di stoffa più ricca; ciascun uomo porta in sé la forma intera dell'umana condizione.

L’amiciziaParagonare all'amicizia l'amore verso le donne non è possibile, e neppure metterlo nella stessa categoria. Il suo fuoco, lo ammetto è più vivo, più cocente e più aspro. Ma è un fuoco sconsiderato e volubile, ondeggiante e vario, un fuoco di febbre soggetto ad accessi e diminuzioni, e che non ci tiene che per un lato. Nell'amicizia vi è un calore generale e universale, temperato e uguale, un calore costante e calmo, tutto dolcezza e levigatezza, che non ha nulla d'aspro e pungente. E quel che nell'amore c'è di più non è che un desiderio forsennato di ciò che sfugge. Mentre all'interno dell'amicizia, che è accordo delle volontà, questo svanisce e si illanguidisce. E anche il godimento lo annulla, in quanto è un fine corporale e soggetto a sazietà. L'amicizia, al contrario, la si gode in misura in cui la si desidera; essendo spirituale, si innalza, si nutre e cresce col solo godere di essa [...]. Così ho conosciuto entrambe queste due passioni, ma mai nello stesso momento: la prima procede per la sua strada con un volo alto e superbo e guarda sdegnosamente l'altra avanzare ben lungi al di sotto.

Del resto, quelli che chiamiamo abitualmente amici e amicizie, sono soltanto dimestichezze e familiarità annodate per qualche circostanza e vantaggio, per mezzo di cui le nostre anime si tengono unite. Nell'amicizia di cui parlo, esse si mescolano e si confondono l'una con l'altra con un connubio così totale da cancellare e non ritrovar più la connessura che le ha unite. Se mi si chiede di dire perché l'amavo, sento che questo non si può esprimere se non rispondendo: 'Perché era lui; perché ero io. C'è, al di là di tutto il mio discorso, e di tutto ciò che posso dirne in particolare, non so qual forza inesplicabile e fatale, mediatrice di questa unione. Ci cercavamo prima di esserci visti e per quel che sentivamo dire l'uno dell'altro, il che produceva sulla nostra sensibilità un effetto maggiore di quel che produca secondo ragione quello che si sente dire, credo per qualche volontà celeste: ci abbracciavamo attraverso i nostri nomi. E al nostro primo incontro, che avvenne per caso, in occasione di una grande festa e riunione cittadina, ci trovammo tanto uniti, conosciuti e legati l'uno all'altro, che da allora niente fu a noi tanto vicino quanto l'uno all'altro.
Michel de Montaigne, Saggi, I, 28, Adelphi
I cannibaliOra mi sembra, per tornare al mio discorso, che in quel popolo non vi sia nulla di barbaro e di selvaggio, a quanto me ne hanno riferito, se non che ognuno chiama barbarie quello che non è nei suoi usi; sembra infatti che noi non abbiamo altro punto di riferimento per la verità e la ragione che l'esempio e l'idea delle opinioni e degli usi del paese in cui siamo. Ivi è sempre la perfetta religione, il perfetto governo, l'uso perfetto e compiuto di ogni cosa. Essi sono selvaggi allo stesso modo in cui noi chiamiamo selvatici i frutti che la natura ha prodotto da sé nel suo naturale sviluppo: laddove, in verità, sono quelli che col nostro artificio abbiamo alterati e distorti dall'ordine generale che dovremmo piuttosto chiamare selvatici. In quelle sono vive e vigorose le vere e più utili e naturali virtù e proprietà, che invece noi abbiamo imbastardite in questi, soltanto per adattarle al piacere del nostro gusto corrotto. (…)
E che sia così lo prova il fatto che avendo visto i Portoghesi, i quali si erano uniti ai loro nemici, adottare contro loro medesimi, quando li prendevano, un altro genere di morte, cioè di seppellirli fino alla cintura e tirare contro il resto del corpo gran colpi di frecce, e poi impiccarli, pensarono che quei popoli di quest'altro mondo, che avevano diffuso la conoscenza di molti vizi fra i loro vicini, e che erano ben più grandi maestri di loro in ogni sorta di malizie, non usavano questa specie di vendetta senza ragione, e che doveva essere ben più dura della loro, e cominciarono ad abbandonare il loro uso antico per seguire questo. Non mi rammarico che noi rileviamo il barbarico orrore che c'è in tale modo di fare, ma piuttosto del fatto che, pur giudicando le loro colpe, siamo tanto ciechi riguardo alle nostre. Penso che ci sia più barbarie nel mangiare un uomo vivo che nel mangiarlo morto, nel lacerare con supplizi e martiri un corpo ancora sensibile, farlo arrostire a poco a poco, farlo mordere e dilaniare dai cani e dai porci (come abbiamo non solo letto, ma visto recentemente, non fra antichi nemici, ma fra vicini e concittadini e, quel che è peggio, sotto il pretesto della pietà religiosa), che nell'arrostirlo e mangiarlo dopo che è morto.
Michel de Montaigne, Saggi, cap. XXXI, intitolato Des Cannibales
Montaigne riprende il tema eracliteo del divenire (pánta reî) per negare qualsiasi pretesa di conoscenza dell’Essere.Eraclito crede che mai uomo si sia immerso due volte nella stessa acqua; Epicarmo pensa che colui che prese in prestito del denaro non lo deve restituire, e che colui che è stato invitato ieri sera a desinare per stamattina, oggi non è piú invitato, perché non son piú gli stessi uomini: son diventati altri; non si può trovare sostanza mortale due volte nel medesimo stato, poiché, a causa di mutamento improvviso e impercettibile, essa si dissipa o si riunisce; essa va e viene. Di modo che quello che comincia ad essere, non arriva mai alla perfezione dell’essere, dal momento che questo essere non si compie mai e non s’arresta mai, come se fosse a punto, ma dal seme si va sempre mutando e muovendo. Come dal seme umano si produce dapprima nel ventre della madre un prodotto informe, poi la forma del bambino, in seguito, uscito dal ventre, un lattante; dopo, esso diventa un fanciullo, poi un giovane, poi un uomo fatto, poi un uomo d’età, alla fine un vecchio decrepito. Di modo che l’età e ciò che si genera successivamente disfa e guasta continuamente ciò che vi era prima: “Il tempo muta la natura di tutte le cose, ogni stato viene da un altro stato: tutto passa, la natura muta e cambia tutte le cose” (Lucrezio, De rerum natura, V, 826). E noi scioccamente temiamo una specie di morte dopo che ne abbiamo già avute e ne passiamo tante altre. Poiché non solamente, come diceva Eraclito, la morte del fuoco è la nascita dell’aria e la morte dell’aria la nascita dell’acqua, ma ancora piú evidentemente possiamo vedere ciò in noi stessi. Il fiore dell’età muore e passa quando sopravviene la vecchiaia, la giovinezza termina nel fiore dell’età matura e la giornata di ieri muore in quella di oggi e quella di oggi morirà in quella di domani; non vi è niente che si fermi e che rimanga sempre allo stesso punto. Poiché, posto che cosí fosse e che noi restassimo sempre gli stessi ed uguali perché prendiamo piacere ora ad una cosa ed ora ad un’altra? Perché amiamo ed odiamo cose contrarie, perché le lodiamo e le biasimiamo? Perché abbiamo affezioni diverse non affiancando lo stesso sentimento allo stesso pensiero? Poiché, come non è verosimile che noi assumiamo altre passioni senza mutamento, non rimanendo lo stesso ciò che sopporta mutamento, è evidente che ciò che non è lo stesso, non può restare immobile. Ma, quando l’essere individuale cambia, cambia semplicemente anche l’essere diventando altro di un altro. E, di conseguenza, s’ingannano e mentiscono i sensi della natura, prendendo ciò che appare per ciò che è, senza neanche sapere bene che cosa è. Ma che cosa veramente è?
M. E. de Montaigne, Saggi, II, cap. XII
Debolezza umanaE' possibile immaginare qualcosa di tanto ridicolo quanto il fatto che questa miserabile e meschina creatura, che non è neppure padrona di se stessa ed è esposta all'ingiuria di tutte le cose, si dica padrona e signora dell'universo, di cui non è in suo potere conoscere la minima parte, tanto meno comandarla? E quel privilegio che si attribuisce, di essere cioè il solo in questa gran fabbrica ad avere la facoltà di riconoscerne la bellezza delle parti, il solo a poter render grazie all'architetto e a tener conto del bilancio del mondo, chi gli ha conferito questo privilegio? (...) La presunzione è la nostra malattia naturale e originaria. La più calamitosa e fragile di tutte le creature è l'uomo, e al tempo stesso la più orgogliosa. Essa si vede e si sente collocata qui, in mezzo al fango e allo sterco del mondo, attaccata e inchiodata alla peggiore, alla più morta e putrida parte dell'universo, all'ultimo piano della casa e al più lontano dalla volta celeste, insieme agli animali della peggiore delle tre condizioni [ossia l'aerea, l'acquatica e la terrestre]; e con l'immaginazione va ponendosi al di sopra del cerchio della luna, e mettendosi il cielo sotto i piedi. E' per la vanità di questa stessa immaginazione che egli si eguaglia a Dio, che si attribuisce le prerogative divine, che trasceglie e separa se stesso dalla folla delle altre creature, fa le parti agli animali suoi fratelli e compagni, e distribuisce loro quella porzione di facoltà e di forze che gli piace. Come può egli conoscere, con la forza della sua intelligenza, i moti interni e segreti degli animali? Da quale confronto tra essi e noi deduce quella bestialità che attribuisce loro? Quando mi trastullo con la mia gatta, chi sa che essa non faccia di me il proprio passatempo più di quanto io faccia con lei? (...) Di fatto, perché un papero non potrebbe dire così: 'Tutte le parti dell'universo mi riguardano; la terra mi serve a camminare, il sole a darmi luce, le stelle a ispirarmi i loro influssi; ho tale il vantaggio dai venti, il tal altro dalle acque; non c'è cosa che questa volta celeste guardi con altrettanto favore quanto me; sono il beniamino della natura; non è forse l'uomo che mi nutre, mi alloggia, mi serve? E' per me che egli fa seminare e macinare; se mi mangia, così fa l'uomo anche col suo compagno, e così faccio io con i vermi che uccidono e mangiano lui.
Montaigne, Saggi, libro II, cap. XII)

giovedì 1 novembre 2007

GIORDANO BRUNO: IL FILOSOFO "FURIOSO" E' COME ATTEONE

da GLI EROICI FURORI DI GIORDANO BRUNO


Parmigianino, Diana e Atteone


Parte 1, dial.4
1 \ TANS.\ Cossì si descrive il discorso de l'amor eroico, per quanto tende al proprio oggetto, ch'è il sommo bene, e l'eroico intelletto che giongersi studia al proprio oggetto, che è il primo vero o la verità absoluta. Or nel primo discorso apporta tutta la somma di questo e l'intenzione; l'ordine della quale vien descritto in cinque altri seguenti. Dice dunque:
Alle selve i mastini e i veltri slaccia
Il giovan Atteon, quand'il destino
Gli drizz'il dubio ed incauto camino,
Di boscareccie fiere appo la traccia.
Ecco tra l'acqui il più bel busto e faccia,
Che veder poss'il mortal e divino,
In ostro ed alabastro ed oro fino
Vedde; e 'l gran cacciator dovenne caccia.
Il cervio ch'a' più folti
Luoghi drizzav'i passi più leggieri,
Ratto vorâro i suoi gran cani e molti.
I' allargo i miei pensieri
Ad alta preda, ed essi a me rivolti
Morte mi dàn con morsi crudi e fieri.
2 Atteone significa l'intelletto intento alla caccia della divina sapienza, all'apprension della beltà divina. Costui slaccia i mastini ed i veltri. De quai questi son più veloci, quelli più forti. Perché l'operazion de l'intelletto precede l'operazion della voluntade; ma questa è più vigorosa ed efficace che quella; atteso che a l'intelletto umano è più amabile che comprensibile la bontade e bellezza divina, oltre che l'amore è quello che muove e spinge l'intelletto acciò che lo preceda, come lanterna. Alle selve, luoghi inculti e solitarii, visitati e perlustrati da pochissimi, e però dove non son impresse l'orme de molti uomini. Il giovane poco esperto e prattico, come quello di cui la vita è breve ed instabile il furore, nel dubio camino de l'incerta ed ancipite raggione ed affetto designato nel carattere di Pitagora, dove si vede più spinoso, inculto e deserto il destro ed arduo camino, e per dove costui slaccia i veltri e mastini appo la traccia di boscareccie fiere, che sono le specie intelligibili de' concetti ideali; che sono occolte, perseguitate da pochi, visitate da rarissimi, e che non s'offreno a tutti quelli che le cercano. Ecco tra l'acqui, cioè nel specchio de le similitudini, nell'opre dove riluce l'efficacia della bontade e splendor divino: le quali opre vegnon significate per il suggetto de l'acqui superiori ed inferiori, che son sotto e sopra il firmamento; vede il più bel busto e faccia, cioè potenza ed operazion esterna che veder si possa per abito ed atto di contemplazione ed applicazion di mente mortal o divina, d'uomo o dio alcuno. 3 \ CIC.\ Credo che non faccia comparazione, e pona come in medesimo geno la divina ed umana apprensione quanto al modo di comprendere il quale è diversissimo, ma quanto al suggetto che è medesimo. 4 \ TANS.\ Cossì è. Dice in ostro alabastro ed oro, perché quello che in figura nella corporal bellezza è vermiglio, bianco e biondo, nella divinità significa l'ostro della divina vigorosa potenza, l'oro della divina sapienza, l'alabastro della beltade divina, nella contemplazion della quale gli pitagorici, Caldei, platonici ed altri, al meglior modo che possono, s'ingegnano d'inalzarsi. Vedde il gran cacciator: comprese, quanto è possibile e dovenne caccia: andava per predare e rimase preda questo cacciator per l'operazion de l'intelletto con cui converte le cose apprese in sé. 5 \ CIC.\ Intendo, perché forma le specie intelligibili a suo modo e le proporziona alla sua capacità, perché son ricevute a modo de chi le riceve. 6 \ TANS.\ E questa caccia per l'operazion della voluntade, per atto della quale lui si converte nell'oggetto. 7 \ CIC.\ Intendo, perché lo amore transforma e converte nella cosa amata. 8 \ TANS.\ Sai bene che l'intelletto apprende le cose intelligibilmente, idest secondo il suo modo; e la voluntà perseguita le cose naturalmente, cioè secondo la raggione con la quale sono in sé. Cossì Atteone con que' pensieri, quei cani che cercavano estra di sé il bene, la sapienza, la beltade, la fiera boscareccia, ed in quel modo che giunse alla presenza di quella, rapito fuor di sé da tanta bellezza, dovenne preda, veddesi convertito in quel che cercava; e s'accorse che de gli suoi cani, de gli suoi pensieri egli medesimo venea ad essere la bramata preda, perché già avendola contratta in sé, non era necessario di cercare fuor di sé la divinità. 9 \ CIC.\ Però ben si dice il regno de Dio esser in noi, e la divinitade abitar in noi per forza del riformato intelletto e voluntade. 10 \ TANS.\ Cossì è. Ecco dunque come l'Atteone, messo in preda de suoi cani, perseguitato da proprii pensieri, corre e drizza i novi passi; è rinovato a procedere divinamente e più leggiermente, cioè con maggior facilità e con una più efficace lena, a' luoghi più folti, alli deserti, alla reggion de cose incomprensibili; da quel ch'era un uom volgare e commune, dovien raro ed eroico, ha costumi e concetti rari, e fa estraordinaria vita. Qua gli dàn morte i suoi gran cani e molti: qua finisce la sua vita secondo il mondo pazzo, sensuale, cieco e fantastico, e comincia a vivere intellettualmente; vive vita de dei, pascesi d'ambrosia e inebriasi di nettare. - Appresso sotto forma d'un'altra similitudine descrive la maniera con cui s'arma alla ottenzion de l'oggetto, e dice: Mio passar solitario, a quella parte Che adombr'e ingombra tutt'il mio pensiero, Tosto t'annida ivi ogni tuo mestiero Rafferma, ivi l'industria spendi e l'arte. Rinasci là, là su vogli allevarte Gli tuoi vaghi pulcini omai ch'il fiero Destin av'espedit'il cors'intiero.Contro l'impresa, onde solea ritrarte. Va', più nobil ricetto Bramo ti godi, e arai per guida un dio Che da chi nulla vede, è cieco detto. Va', ti sia sempre pio Ogni nume di quest'ampio architetto, E non tornar a me se non sei mio. 11 Il progresso sopra significato per il cacciator che agita gli suoi cani, vien qua ad esser figurato per un cuor alato che è inviato da la gabbia, in cui si stava ocioso e quieto, ad annidarsi alto, ad allievar gli pulcini, suoi pensieri, essendo venuto il tempo in cui cessano gli impedimenti che da fuori mille occasioni, e da dentro la natural imbecillità subministravano. Licenzialo dunque, per fargli più magnifica condizione, applicandolo a più alto proposito ed intento, or che son più fermamente impiumate quelle potenze de l'anima significate anco da platonici per le due ali. E gli commette per guida quel dio che dal cieco volgo è stimato insano e cieco, cioè l'Amore; il qual per mercé e favor del cielo è potente di trasformarlo come in quell'altra natura alla quale aspira o quel stato dal quale va peregrinando bandito.

ORIGINE DEL DETTO "C'E' UN GIUDICE A BERLINO"

FEDERICO II DI PRUSSIA E IL MUGNAIO ARNOLD
La storia merita di essere narrata, con l'aiuto di Emilio Broglio autore di un'opera in due volumi, Il Regno di Federico di Prussia, detto il Grande, stampata in Roma nel 1880:
Volume secondo, capitolo VI. La causa del mugnaio Arnold:
Un pensiero costante di Federico, come già si è detto fu la bona amministrazione della giustizia, e n'era venuto, fino dal 1747, il Codex Fridericianus. Ma passati trent'anni, morto l'illustre Cocceio, sopraggiunte le gravi cure della guerra, gli abusi, per opera della gente di toga, ripullularono. E Federico daccapo a volerli rimondare, non senza molta fatica, perché la sullodata gente di toga, salve le rare eccezioni, è sempre e da per tutto nemica ostinata delle riforme; vive di precedenti, di tradizioni, di regole formali, e non se ne sa, o non se ne vuole distaccare; gli abusi poi, sono per l'appunto opera sua, e se ne giova. Ma Federico, che era riescito a tener fronte all'Europa, figuriamoci se voleva lasciarsi dettar la legge da quei signori; il 4 gennaio 1776, presiedette egli stesso, a dispetto della gotta, a un solenne dibattimento tra il Cancelliere di Slesia, von Carmer, apostolo della riforma, e il Gran Cancelliere von Fùrst, accanito oppositore. Il Re diede ragione al primo, incaricandolo di compilare il novo Codice; la prima parte, Prozess-Ordnung, ossia Regolamento di Procedura, fu promulgata il 26 aprile 1784, ultimo dono del gran Re al suo paese, il resto non fu compiuto che dieci anni più tardi, e sotto il nome di Codice Prussiano è ancora in vigore. Il celebre Savigny, tedesco fin che ce n'entra, lo vanta superiore al Codice Napoleone (…) Questo Re, schiavo del dovere, prendeva molto sul serio anche l'alto suo ufficio di Giudice Supremo, e come si vede non aveva bisogno di sproni; ma se n'avesse avuto bisogno, appunto in questi anni accadde un fatto famoso, il processo del mugnaio Arnold, dove il Re, da ultimo, si credette in obbligo d'intervenire con sommo rigore, destando sentimenti e giudizi discrepanti in Europa; di viva ammirazione nei più, di severa condanna in pochi. Ci sono dei Giudici a Berlino, aveva risposto trent'anni prima, a chi lo minacciava d'espropriazione, il mugnaio di Potsdam, che non volle mai vendere il suo mulino ad acqua, sul poggio di Sans-Souci; e Federico Re lo rispettò, lui e il suo mulino, senza bisogno di giudici; oggi invece il mugnaio Arnold ebbe, contro i giudici di Berlino, bisogno del Re.
Il mulino del Gambero - Krebsmúhle - era d'un conte di Schmettau, maggiore nell'esercito, ma non della famiglia inclita in guerra; affittato da parecchie generazioni agli Arnold, mugnai. Nel '70, un barone von Gersdorf volle farsi, più in su del mulino, una peschiera, e deviò parte dell'acqua; il mugnaio, impedito così dal macinare per una gran parte dell'anno, non ebbe più modo di pagare il fitto regolarmente; il conte di Schmettau, dopo aver pazientato parecchio, da ultimo lo citò dinanzi al giudice feudale, Schlecker, che lo condannò a pagare; e perché pagare non poteva, quando non macinava, finì col fargli vendere all'asta nel '78 il mulino. Comprato da un esattore, Kuppisch, fu poi rivenduto da costui allo stesso barone von Gersdorf, ch'ebbe così l'aria d'aver meditata e compita la spogliazione. Portata la causa in appello, dinanzi alla Regierung di Cústrin, la sentenza venne trovata giusta, e quindi confermata.
Il 1° maggio del '79, Arnold, o più esattamente sua moglie Rosina, una donna non più giovane, intendiamoci, presenta una petizione al Re, chiedendo la nomina d'una Commissione Militare, che esamini la cosa; domanda certo molto strana per noi, avvezzi oramai alla divisione dei poteri, alle più o meno savie finzioni costituzionali, e a vedere la giustizia amministrata sempre in nome del Re, da giudici nominati dal Re, senza che il Re ne sappia mai nulla; non punto strana allora, con un Re, fontana vera, non finta, d'ogni potere, e quindi anche della giustizia. Il 4 maggio un Ordine del Re manda l'istanza Arnold al Ministero della Giustizia, perché esamini e riferisca; quello esamina e riferisce, che tutto é perfettamente in regola. Più tardi, nello stesso anno, il Gran Cancelliere von Fúrst, durante il suo viaggio d'ispezione da quelle parti, riceve un altro ricorso dall'implacabile Rosina; non so quanto lo esamini, certo è che lo respinge.
Allora gli Arnold tentarono una strada nuova; il marito aveva un fratello soldato; suo colonnello era il Principe Leopoldo di Brunswick, nipote del Re, adorato dal popolo, perché buono, affabile, umano; tanto umano, che sei anni più tardi, nell'85, s'affogò miseramente nell'Oder, mentre si sforzava, in una barchetta, di soccorrere dei poveri inondati. Il soldato, un bravo soldato, bisogna dire, gli si raccomanda. Il Principe ne parla al Gran Cancelliere; ma Fúrst risponde picche anche a lui. In agosto, la madre del Principe, sorella del Re, fa una lunga visita al fratello a Potsdam; costì Leopoldo coglie un momento favorevole e narra la lunga storia al Re, presentando una nova domanda Arnold, per una Commissione Mista, militare e civile; il giorno dopo, 22 agosto, un ordine di Gabinetto alla Corte - Regierung - di Cústrin, gl'intima di nominar subito un Consigliere, affinché per opera sua, d'accordo col Colonnello Heucking, di guarnigione da quelle parti, sia fatta giustizia. La Corte elegge Neumann, che si mette a studiare col Colonnello, ma senza frutto; perché quello riferisce alla sua Corte che non c'è nulla da fare, e la Corte presenta, il 27 settembre, rapporto analogo a Sua Maestà; il Colonnello invece s'è convinto, che Arnold aveva ragione, in equità, di non pagare il fitto d'un mulino che non macina, e fa il suo rapporto in questo senso.
Il Re lo trova chiaro e preciso - deutliches und ganz umstàndliches - e lo manda al tribunale Supremo di Berlino - Kammergericht - sempre perchè sia fatta giustizia. Invece non lo persuade punto il rapporto della Corte di Cústrin, glielo rimanda insieme alla manifestazione del suo vivo malcontento - áusserstes Misfallen - e ordina un nuovo esame. Quei signori della Corte eleggono un'altra Commissione, e questa volta ci mettono anche un idraulico, di nome Schade; la Commissione fa il suo rapporto il 28 ottobre, sempre concludendo che tutto era andato benone, benchè lo Schade non fosse di questo parere; soltanto, per dimostrare quanta fosse la loro diligenza, scoprono un piccolo errore: che Arnold aveva lasciato del grano nel mulino, pel valore di centocinquanta o centosessanta lire: che questo era suo, e non si poteva comprendere nella vendita del mulino e ora gli si doveva restituire: ma per tutto il resto, non c'era che dire.
La Rosina, colla sua indomabile tenacità femminile, torna all'assalto in novembre con una nova petizione a Sua Maestà; e Sua Maestà, senz'ancora perdere la pazienza, che fu un bel fatto, la rimanda a Cústrin; gli si risponde che la sentenza è inalterabile, salvo l' intervento di un giudizio superiore.
Il Re, con Ordine 98 novembre, incarica dunque il Kammergericht di Berlino, di pronunziare il suo giudizio definitivo, e presto! mandando un espresso a Cústrin a prendere l'inserto. Il Gran Cancelliere Fúrst, ricevuto l'ordine, lo trasmette al Presidente del Kammergericht, un von Rebeur; il quale, appena arrivate le carte, il 7 dicembre, nomina subito relatore il Consigliere Rannsleben, perchè riferisca quam primum; costui, con un lavoro indefesso diurno e notturno, è in grado di riferire il giorno seguente: La sentenza é giusta e va confermata. Detto fatto, la si conferma in nome dei Re. Federico riceve la notizia formale il 10, in preda a un fiero attacco di gotta; ordina al Fúrst di venire domani al Castello coi tre Consiglieri che hanno redatto - minutirt - la sentenza. Il Rannsleben, relatore, in una sua Autobiografia inedita, racconta la scena, e questo brano, per fortuna, venne stampato.
Sentiva in aria un grosso temporale, tanto che ebbe la precauzione di non dir nulla alla moglie della sua chiamata al Castello. Entrati i tre Consiglieri preceduti dal Fúrst, trovarono il Re seduto, che voltava le spalle al foco del caminetto, coi piedi tormentati stesi sopra sgabelli, una mano nascosta in un manicotto, e l'altra che teneva la sentenza; lì presso, a un tavolino, il segretario-stenografo Stellter, che stese un processo verbale, pubblicato poi il 14 dicembre per ordine di S. M.
Il Re interrogò i Consiglieri, senza darsi per inteso della presenza del Gran Cancelliere: ‘Un povero villano, può egli pagare il fitto, se gli portate via il carro, l'aratro, e tutti gli strumenti di lavoro? - No, Maestà’. – ‘E' giusto portar via il mulino a un povero mugnaio che non può pagare il fitto, perché gli s'è levata l'acqua e quindi non può macinare? - No, Maestà’. – ‘Un nobile vuol farsi una peschiera e devìa l'acqua dal mulino; il mugnaio Arnold è ridotto a non poter macinare che quindici giorni in primavera e quindici in autunno; come può egli pagare lo stesso fitto di prima? Eppure la Corte di Cústrin gli fa vendere il suo mulino, perché un altro nobile intaschi l'intero fitto, e il Tribunale di Berlino...’
Il Kammergericht, Maestà, suggerisce qui, o corregge, il Gran Cancelliere, il Kammergericht... Il Re dice al segretario: Il Kammergericht; poi, volgendosi al Fúrst, gl'intima di andarsene, aggiungendo d' avergli già nominato il successore; e quello scompare senza dir verbo.
‘E' una sentenza ingiusta, continua il re accendendosi vie più; è contraria alle mie intenzioni di padre del popolo; e voi l'avete pronunziata in mio nome. In mio nome! Quando mai ho io oppresso il povero in favore del ricco? Quando mai ho fatto prevalere la vana forma legale all'intrinseca moralità della cosa? E voi siete de' giudici? E voi dispensate la giustizia in nome di Dio e del Re?...’ E più che il dolor potendo l'ira, batteva la sentenza colla mano gottosa, e ripeteva: « Il mio nome crudelmente abusato! - meinen Namen cruel missbraucht -
‘Ma io darò un esempio memorabile - ein nachidrúckliches Exempel; - l'ultimo contadino, che dico? un mendicante. è anch'egli un essere umano come il Re, tutti eguali dinanzi alla legge e alla giustizia; un tribunale ingiusto è più pernicioso d'una banda di ladri; contro questi potete difendervi, non così contro quello. Uscite. signori!’
E li fece mettere in una carrozza e portare in prigione; ordinò lo stesso trattamento pei loro colleghi di Cústrin; incaricò il suo ministro della giustizia, von Zedlitz, di nominare una Commissione, che li condannasse almeno a un anno di fortezza e al risarcimento del danno verso gli Arnold. Il ministro uomo rettissimo, dichiara ne' termini più rispettosi, che la sua coscienza non gli permette di pronunziare la sentenza imposta da Sua Maestà; allora il Re la pronunzia lui, il 1 gennaio 1780: il consigliere Scheibler, della corte di Cústrin, che ha votato solo contro i suoi colleghi, torni al suo posto: il Rannsleben del Kammergericht, che ha studiato la questione con grande imparzialità, prosciolto: tutti - gli altri, destituiti, cassirt - condannati a un anno d'arresto in resto in fortezza, a Spandau, e al rifacimento del danno, liquidato poi e pagato all'Arnold in 1358 talleri, 11 groschen e 1 pfennig - poco più di 5000 lire: - Il mugnaio Arnold rimesso nel suo mulino - in integrum restituirt.
‘Quanto a lei, signor ministro, rispetto i suoi scrupoli di coscienza, e rimango come prima il suo affezionatissimo Re, Federico’. Infatti conservò il suo posto. La cosa fece, naturalmente, gran chiasso in Europa: Caterina II, amica dei filosofi, mandò al suo Senato, come salutare esempio, copia dei processo verbale 11 dicembre 1779, fatto pubblicare il 14 dal re: in Francia lo si vendeva da tutti i librai, sotto il titolo: Balance de Frédéric; e i giornali non parlavano d'altro. A Berlino invece l'alta società, nobile e forense, condannava Federico; trasse in folla alla casa del Gran Cancelliere destituito, in segno di condoglianza, ingombrandone la via colla fila delle carrozze, che si vedevano dalle finestre del Palazzo reale, senza che Federico, ben inteso, se ne facesse né in qua né in là.
Si notò il fatto, che ogni giorno gran numero di villani, fino a un centinaio, stavano sulla piazza dei Castello, sotto le finestre del Re, con petizioni in mano, chiedendo giustizia come Arnold; e ne' tribunali, le parti soccombenti gridavano, che si sarebbero appellate al Re; ecco, dicevano, le naturali e pessime conseguenze del suo dispotico intervento e dell' umiliata magistratura. Questo sentimento di disapprovazione durò fino alla morte di Federico; il barone von Gersdorf, chiese e ottenne dal successore un novo giudizio; fu deciso: che il barone aveva diritto all'acqua per la sua Peschiera, e che Arnold doveva restituire ai giudici il mal ottenuto compenso, e al barone, o il mulino, o il prezzo d'asta; le quali somme, per altro, furono invece sborsate dal Re Federico Guglielmo II, atto convenientissimo di regia munificenza. E s'intende che il vecchio Fúrst, e l'altre vittime, furono richiamati ai loro posti e agli onori perduti, nella certezza, da parte del nuovo re, di cattivarsi cosi una certa popolarità; voglio dire popolarità nobilesca e forense; mentre quella ambìta da Federico era molto più vasta, e più, alta, e più indipendente.