domenica 26 ottobre 2008

I SOFISTI

I SOFISTI

Lo sviluppo dei Sofisti ad Atene è legato a fattori filosofici e politici:
la filosofia sulla natura è arrivata ad una fase di stallo, tutto ciò che era da dire era già stato detto;
la crisi, dovuta al maggiore controllo del demos, in particolare con l'età di Pericle, porta all’abolizione dei valori tradizionali.
Il primo interesse dei Sofisti è la rottura con la tradizione giuridica, sociale, culturale, religiosa, fatta di regole insensate, basate sulla forza dell'autorità e del mito. Essi vengono perciò etichettati anche come "precursori dell'Illuminismo".
I sofisti ("i sapienti") erano dei maestri di virtù che si facevano pagare per i loro insegnamenti. Per tale motivo furono criticati aspramente dai loro contemporanei, soprattutto da Socrate (e poi da Platone e Aristotele) vennero chiamati offensivamente prostituti della cultura. In realtà la figura del sofista si pone in questo senso come precursore dell'educatore e dell'insegnante, in quanto si guadagnava da vivere vendendo il suo sapere. Coloro che maggiormente si affidarono agli insegnamenti di questi filosofi sono i ceti aristocratici. Essi furono i primi ad elaborare il concetto occidentale di cultura (paideia), non intesa come un insieme di conoscenze specializzate, ma come la formazione di un individuo nell'ambito di un popolo o di un contesto sociale. La retorica è l'argomento centrale del loro insegnamento; mediante la carica persuasiva della parola, infatti, essi insegnano la morale, le leggi, i sistemi politici. Educano quindi i giovani a diventare cittadini attivi, cioè avvocati o militanti politici; ma per essere cittadini attivi, oltre ad avere buone conoscenze, bisogna anche essere convincenti, perciò la retorica è alla base della sofistica. I sofisti, a differenza dei filosofi greci precedenti, non si interessano alla cosmologia e alla ricerca dell'arché originario, ma si concentrano sulla vita umana, diventando così i primi filosofi morali.
Ci sono due generazioni di sofisti:
Grandi sofisti: Protagora, Gorgia, Prodico e Ippia
Seconda generazione
Sofisti naturali: quelli che si interessano del rapporto natura-uomo,
Sofisti politici: Crizia, Trasimaco, Licofrone, Callicle
Eristi: portano all’esasperazione il metodo: Antifonte, Crizia, Menone.

Schema dei rapporti fra Socrate, i sofisti, Platone


PROTAGORA

A partire dalla metà del V secolo a.c. diverse città della Grecia vengono attraversate da nuovi personaggi: i sofisti. Il termine "sofista" significa letteralmente "colui che fa professione del proprio sapere". Molti sono i professionisti che mettono in vendita il loro sapere (gli artigiani o i medici, per esempio), ma i sofisti sostenevano che il loro sapere fosse ben più importante rispetto a quello degli artigiani o dei medici, giacché il loro è il sapere che consente di prendere parte con successo alla vita pubblica della città, quando si accede alle magistrature. Tutto questo trova fondamento nel termine aretè, la capacità di eccellere nella condotta pubblica e privata. In questo senso i sofisti si presentano come maestri di virtù. E' chiaro che questo sapere risulta importantissimo in contesti politici in cui le decisioni sono affidate alla totalità dei cittadini, come appunto avviene nella polis del V secolo a.C. Era dunque un sapere indispensabile soprattutto nelle democrazie. Ma il fatto che i sofisti si facciano pagare molto, fa sì che i loro clienti siano soprattutto giovani di famiglie agiate (Platone non potrà tollerare che essi facciano del sapere una materia vendibile e li definisce sprezzantemente "cacciatori di giovani ricchi", scrivendo un dialogo – il Sofista – contro di loro: certo per Platone la vita era più facile, visto che era ricco di famiglia e non aveva bisogno di farsi pagare per insegnare). Tra i sofisti spicca la figura di Protagora: egli nacque ad Abdera, in Tracia, verso il 480 a.C., svolse la sua attività di insegnamento girovagando per le città, soggiornando più volte ad Atene. Nel 444 Pericle diede avvio alla fondazione della colonia panellenica di Turii, in Italia meridionale, e Protagora prese parte al progetto di legislazione della città. Nel 411 diede pubblica lettura ad Atene del suo scritto Sugli dei e fu accusato di empietà e dovette così lasciare la città. La tradizione vuole che Protagora sia morto in un naufragio. All'attività orale di insegnante Protagora affiancò l'insegnamento mediante lo scritto; egli non fu autore di un'unica opera, ma di parecchie: Discorsi demolitori, Le antilogie, Sull'essere e scrisse pure a riguardo dei saperi tecnici. Protagora è passato alla storia per la sua celebre affermazione: "l'uomo è misura di tutte le cose, di quelle che sono in quanto sono, e di quelle che non sono in quanto non sono". E' difficile comprendere fino in fondo che cosa intendesse Protagora con "uomo" (l’uomo singolo? Il genere umano?). Con questa frase si sottolinea l'assoluta relatività della verità: si fa notare che ciascuno vede le cose alla sua maniera e in modo diverso rispetto agli altri; se io dico che una bevanda è dolce ed un altro dice che è amara, chi ha ragione dei due? Bisognerebbe avere un parametro che dice la verità, se è dolce o amara, il che è impossibile. Se io la sento dolce e un altro la sente amara, l'unica cosa da fare è chiedere il parere ad un terzo, ma non vi è mai un vero paragone con la cosa in questione. Per Protagora non si può trovare una verità assoluta: non si può stabilire se la bevanda è davvero dolce o se è amara: per me è amara, e per l'altro è dolce: o meglio, per chi la sente dolce è dolce, per chi la sente amara è amara: la verità è soggettiva. Non posso negare che sia amara a chi la sente amara solo perchè io la sento dolce: non c'è una verità generale, ognuno la vede a proprio modo. Non si possono cogliere le cose come realmente sono, ma solo come appaiono all'uomo, ovvero come riesce a percepirle. Le cose per me sono come a me appaiono: sento dolce il miele e, dunque, per me il miele è dolce. Però si fa notare che non tutte le affermazioni sono uguali: esse si distinguono sul piano pratico, poiché se, nel caso della bibita, non posso stabilire se è dolce o amara, tuttavia posso affermare che il dolce è meglio dell'amaro. Ma Protagora non restringe il significato di misura alla sola dimensione dell'esperienza percettiva delle cose. L'esperienza personale di ciascun individuo è più ampia delle singole sensazioni; essa non riguarda soltanto l'istante in cui avviene la singola percezione, bensì l'intera vita dell'individuo. In questo quadro si comprende meglio la portata dell'altra celebre affermazione di Protagora: "riguardo agli dei, non ho la possibilità di accertare né che sono, né che non sono, opponendosi a ciò molte cose: l'oscurità dell'argomento e la brevità della vita umana". Di talune cose, dunque, come per esempio degli dei, non si ha esperienza personale diretta (com'era invece nel caso della bevanda). Di queste cose non si può dire che l'uomo sia misura. L'esperienza personale , d'altronde, differenzia gli individui tra loro, anche per le diverse situazioni ambientali, culturali e politiche nelle quali essi vivono. In questa prospettiva si inquadra in modo centrale la collocazione dell'individuo nella città . La città è interpretata da Protagora come complesso apparato educativo, il quale mira a garantire la conservazione della città stessa mediante la trasmissione dei valori che ne sono alla base. Non potendo più disporre degli dei come termine di differenziazione per caratterizzare l'uomo (infatti ha detto di non conoscere come gli dei siano), Protagora individua questa differenziazione rispetto agli animali. Egli riconosce un'inferiorità dell'uomo rispetto alla specie animale per quanto riguarda le doti naturali, ma ravvisa nelle tecniche lo strumento che ha consentito all'uomo di capovolgere questa situazione svantaggiosa di partenza. Ma Protagora colloca al di sopra delle varie tecniche agricole e artigianali la tecnica politica, che è prerogativa di tutti i membri di una comunità. E' appunto la tecnica politica, ossia l'insieme di giustizia e di rispetto degli altri , che la città provvede a trasmettere, prima con l'insegnamento e poi con le leggi, a tutti i suoi membri a partire dall'infanzia. Ma se il veicolo fondamentale per la trasmissione dell'insegnamento etico/politico è la città, resta ancora spazio per l'insegnamento del sofista? Il fatto che individui diversi abbiano esperienze personali diverse non implica che essi debbano per forza sempre divergere nelle loro opinioni su certe cose. Protagora non assume una posizione solipsistica, non rinchiude ogni individuo in se stesso, in una sfera di incomunicabilità con gli altri. Egli ritiene invece che sussistano spazi di accordo possibile tra gli individui. Qui il sofista può innestare la sua opera, contribuendo all'azione educativa della città. Lo strumento principale con cui lavora il sofista è il linguaggio, che può avere efficacia persuasiva facendo appello alle esperienze personali dei singoli e contrapponendo non vero e falso, ma utile e dannoso sia per il singolo sia per la comunità. Protagora afferma che "intorno ad ogni oggetto ci sono due ragionamenti contrapposti". Questa contrapposizione non sta a significare che uno di essi sia vero e l'altro falso, in quanto ogni discorso non è che la formulazione dell'esperienza personale di ciascuno, la quale (per il relativismo assoluto) è sempre vera. Ma sul piano dei valori, che sono alla base di una città, i due discorsi non si equivalgono: in ultima istanza è la comunità che decide su quanto è giusto e su quanto è dannoso. Il sofista insegna ad usare il linguaggio in modo conforme ed utile alle esigenze della città, per esempio nell'assumere decisioni collettive, dove può anche essere importante "render più forte l'argomento più debole". In questa prospettiva, Protagora innesta la sua opera di specialista, analoga a quella del medico o dell'artigiano, e procede alla distinzione di vari tipi di discorsi, studiando le loro proprietà, i generi dei nomi, i tempi verbali... Il linguaggio cessa di essere uno strumento usato inconsapevolmente e diventa esso stesso oggetto di indagine e d'insegnamento: il celebre motto dei sofisti diventa "la parola può tutto". Proprio sulla nozione di relatività era incentrata la più famosa delle tesi di Protagora, trasmessaci da Platone nel Teeteto (dialogo dedicato a cosa significhi conoscere): "l’uomo è misura di tutte le cose, di quelle che sono in quanto sono e di quelle che non sono in quanto non sono". Questa frase, per l’impiego del termine "sono" e "non sono", sembra inquadrarsi in un contesto vivamente eleatico, anche se viene prospettato chiaramente il criterio per distinguere l’essere da non essere: è l’uomo il metro di misura, sicché Protagora propone un criterio di conoscenza puramente soggettivo. Sarà vero ciò che a me appare tale; viceversa, per lui sarà vero ciò che a lui appare tale, e così via. La conoscenza, in questo panorama, si riduce al sensismo: cosicché il miele appare dolce a chi è sano, ma amaro agli ammalati. Tuttavia, in questo groviglio di verità ciascuna diversa dalle altre e ciascuna non meno valida delle altre, Protagora elabora un criterio per stabilire quale opinione (quella del sano che sente dolce il miele, o quella del malato che lo sente amaro?) sia migliore: tale criterio è incentrato sull’utilità e si risolve, per tornare all’esempio del miele, nell’interrogativo se sia migliore l’opinione di chi è malato o di chi è sano. Naturalmente, si risponderà che è migliore l’opinione del sano, anche se, ad onor del vero, sul piano gnoseologico tutte le opinioni sono equivalenti: le sensazioni si traducono in conoscenza, cosicché la mia opinione, la tua, la sua e così via sono tutte vere, poiché l’uomo è misura di tutte le cose. Contro questa posizione protagorea si schiererà Platone che, nel Teeteto, smonterà l’argomentazione protagorea facendo notare che, se tutto è vero (come asserisce Protagora), allora è anche vero che esistono tesi false; e dato che, appunto, tutto è vero, è anche vero che ciò che dice Protagora è falso.

GORGIA
la vitaGorgia di Lentini è il più notevole rappresentante della antica sofistica dopo Protagora, e il creatore dell'arte retorica. Come date di nascita e morte possono essere assunte orientativamente quelle del 483 e del 375 a. C., morendo quindi ultra centenario. Con l'esercizio e con l'insegnamento dell'arte oratoria, una novità anche per il mondo greco, diventò ricco al punto da poter dedicare, a Delfi, una statua d'oro al dio Apollo. Nel 427 andò ad Atene come ambasciatore di Leontini, in cerca di alleanze contro lo scomodo potere siracusano, e lì si fece apprezzare come retore finissimo trovando imitatori: famoso il suo Epitafio, per commemorare dei soldati ateniesi morti in guerra. Dello stesso avviso non pare Platone che, nel suo Gorgia, lo pone in contrasto critico con Socrate (447, c):
"Ma vorrà poi Gorgia discutere con noi? Perché io vorrei sapere da lui quale è la virtù propria di quest'arte che egli professa e insegna e in che cosa precisamente consista".
E più avanti (449, a):
Socrate - 'Piuttosto, Gorgia, dicci tu stesso come dobbiamo chiamarti e che arte è la tua'.
Gorgia - 'La mia arte è la retorica'.
E ancora, (454/455):
Socrate - Ti sembra che sapere e credere, ossia 'scienza' e 'opinione', siano la stessa cosa?
Gorgia - No; direi che son cose distinte.
Socrate - E diresti bene. Infatti se uno ti domandasse: 'Gorgia v'è una opi nione falsa e una vera?' tu risponderesti di si, credo.
Gorgia - Di si, certo.
Socrate - Ma la scienza può essere falsa e vera?
Gorgia - Assolutamente no.
Socrate - E' proprio vero, quindi, che scienza e opinione non sono la stessa cosa.
Gorgia - Infatti.
Socrate - Eppure vi ha persuasione sia in quelli che hanno scienza che in quelli che hanno solo opinione.
Gorgia - Lo credo bene.
Socrate - Dobbiamo stabilire, pertanto, due specie di persuasione: quella che produce opinione senza il sapere, l'altra che produce scienza.
Gorgia - Hai ben ragione.
Socrate - E allora dimmi, o Gorgia, quale delle due persuasioni produce nei tribunali e nelle altre adunanze la retorica intorno al giusto e all'ingiusto? Quella, cioè, da cui deriva opinione senza sapere, oppure l'altra da cui deriva il sapere?
Gorgia - Evidentemente quella da cui deriva opinione senza sapere.
Socrate - Dunque la retorica, a quanto pare, è produttrice di quella persuasione che induce all'opinione senza il sapere, e non alla scienza del giusto e dell'ingiusto.
Gorgia - Così è.
Socrate - Di conseguenza il retore non insegna nei tribunali e nelle altre adunanze nulla intorno al giusto e all'ingiusto, ma suscita soltanto una semplice credenza. Ed infatti, come potrebbe in così breve tempo insegnare ad una moltitudine di gente cose di così grande importanza?
Gorgia - Sarebbe effettivamente impossibile.

Tale dialogo di Platone induce a riflettere: l'autore ambienta l'incontro nel 427 a.C, cioè quando Gorgia andò in Atene, ma parrebbe composto intorno al 395, dopo cioè l'avvenuta condanna a morte di Socrate; condanna ottenuta dal potere suggestionante della retorica, a danno del giusto Socrate. E il dialogo sopra riprodotto è colmo di rancore: "Quando dicesti che il retore avrebbe potuto servirsi della retorica anche ingiustamente, io rimasi perplesso (...)". L'animo di Gorgia si risentì dello scritto dell'allievo di Socrate che lo vedeva protagonista: il siciliano non avrebbe consentito che la nuova scienza venisse applicata malamente. Fanno fede i suoi componimenti ulteriori. Tra gli altri suoi viaggi vi sono quelli a Fere in Beozia e in Tessaglia, e fu altre volte in Atene. La sua dottrina contiene un intendimento dell'arte oratoria come produttrice di persuasione: non occorre cioè che chi ascolta si convinca che ciò che ode è la verità, bensì è più utile che questi si convinca praticamente, piegandosi alla causa sostenuta dall'oratore.
IL PENSIERO
Come Protagora, anche Gorgia scrisse molto e i suoi scritti erano per lo più orientati verso l'orazione, come il discorso Olimpico, proferito ad Olimpia per invitare i Greci a superare le loro discordie e affrontare uniti i barbari e l'Epitafio, finalizzato ad onorare gli Ateniesi caduti in guerra. Tra i suoi scritti va poi ricordato quello Sul non essere o Sulla natura, il cui titolo capovolge intenzionalmente quello dell'opera di Melisso; molto interessanti risultano anche essere L'encomio di Elena e La difesa di Palamede. Nel Non essere o Sulla natura troviamo le tre tesi fondamentali delle filosofia di Gorgia: 1) l'essere non è; 2) se anche fosse, non sarebbe conoscibile; 3) se anche fosse conoscibile, tale conoscenza non sarebbe comunicabile. Quindi per Gorgia, a differenza di Protagora, tutto è falso. Egli arriva a trarre queste conclusioni esaminando profondamente la filosofia ed in particolare quella eleatica: come gli eleatici, anche Gorgia si serve del ragionamento per assurdo: se l'essere ci fosse, sostiene Gorgia, non dovrebbe avere caratteristiche contraddittorie, come invece gli hanno attribuito gli eleatici. Gorgia ha notato che ci sono troppi contrasti tra i filosofi per quel che riguarda la questione dell'essere, cosicché egli addiviene alla conclusione che l'essere è troppo contraddittorio per esistere.

Nulla c'èSe qualcosa esiste, esso deve essere:
o "essere"
o "non essere"
o "essere" e "non essere" insieme
1. Innanzitutto il "non essere" non è
2. Ora, se l'"essere" fosse "essere", esso sarebbe:
a) o eterno
b) o generato
c) o eterno e generato insieme
a) Ponendo che l'"essere" sia eterno:
se è eterno non ha principio
se non ha principio è infinito
se è infinito non è in nessun luogo
se non è in nessun luogo non esiste
b) Ponendo che l'"essere" sia generato:
non può essere generato dal "non essere", poiché questo non è
non può essere generato dall'"essere", poiché, se così fosse, sarebbe già "essere"
c) Poiché non esistono né l'"essere", né il "non essere", un insieme di "essere" e "non essere" non sarebbe possibile.
Per questi motivi nulla c'è: l'"essere" non esiste.
Egli conclude che "l'essere non è" partendo dalle dimostrazioni che l'essere non è né uno né molti, né generato né ingenerato: sono affermazioni davvero contraddittorie. Ma la conseguenza più interessante e radicale che egli trae è probabilmente quella secondo cui non è possibile comunicare tramite il linguaggio ciò che è. Il linguaggio non ha nulla a che fare con la verità, non è possibile dire ad altri come realmente stiano le cose.

Se anche qualcosa ci fosse, non sarebbe conoscibile
1. Come ciò che si pensa non può essere definito esistente, viceversa neppure l'essere può dirsi di essere pensato.
2. Poi, neanche le cose che si pensano esistono. Infatti, se fosse vero l'inverso (cioè, che le cose che si pensano esistono), allora sarebbe lecito dire che se ci si immagina un asino che vola, di conseguenza si vede l'animale librarsi nell'aria. Ma ciò va contro l'esperienza, per cui non è possibile.
3. Ponendo, però, che il pensato esista, persino ciò che non esiste non può essere pensato. Ma questo non è vero, poiché si pensa anche a cose irreali. Di conseguenza l'essere non può essere pensato.
Gorgia avrebbe sostenuto che se le cose pensate non sono esistenti, allora le cose esistenti non sono pensate: in altri termini, il pensiero non avrebbe un contenuto proprio (poiché ciò che è pensato non esiste) e, per converso, se ne ricaverebbe che ciò che esiste non è pensato. Dunque, dato che penso cose che non esistono (dragoni o uomini volanti), allora ciò significa che il pensato non è in relazione con l’essere e, per converso, che l’essere non è in relazione col pensato. Ammettendo, infatti, per assurdo l’esistenza delle cose pensate, ne conseguirebbe che l’uomo che vola o il carro che procede sul mare (tutti oggetti del mio pensiero) dovrebbero esistere, ma l’esperienza confuta ciò. Se poi dico che il pensiero rispecchia l’esistente, non si spiega perché nel pensiero trovino cittadinanza anche l’uomo che vola o il carro che procede sul mare.

Se anche qualcosa fosse conoscibile, non sarebbe comunicabile agli altri1. Sapendo che le cose esistenti si percepiscono con la vista, l'udito e il tatto, l'unico vero modo per poterle comunicare ad un'altra persona sarebbe farle vedere, udire o toccare quella determinata cosa.
2. Però questo non è possibile, perciò si utilizza la parola.
3. Ma la parola è solo sé stessa, non la cosa che indica, cioè l'"essere". Quindi parola e "essere" differiscono tra loro: la parola non è "essere".
4. Per cui l'essere non potrà essere comunicato ad un altro, né attraverso i
cinque sensi, né attraverso la parola.Il terzo argomento addotto da Gorgia poggia sull’analogia con l’esperienza: giacché i sensi non interferiscono tra loro né si smentiscono a vicenda, si può essere spinti a credere che ciò valga anche per il pensato, cosicché le cose che né vedo né sento né tocco, ciononostante il pensiero mi attesta che esistono. Ma in questo modo mi troverei costretto, ancora una volta, ad ammettere l’esistenza dell’uomo che vola e del carro che procede sul mare. Con Gorgia, quindi, viene per la prima volta messa in discussione la possibilità di conoscere alcunché. Sembra essere una filosofia negativa e pessimista, ma in realtà non è così: il ragionamento conduttore è in sostanza che in assenza dell'essere l'uomo è onnipotente, non ha limitazioni.
Queste tre tesi di Gorgia sono l'anticipazione di quello che sarà il "nichilismo". Gorgia sosteneva che nulla è, se anche fosse non sarebbe conoscibile, se anche fosse conoscibile non sarebbe comunicabile. La verità, dunque, resta per Gorgia inaccessibile: ne consegue che tutto è falso, e non "tutto è vero", come invece credeva Protagora. Tutte le proposizioni possono, ad avviso di Gorgia, essere ribaltate attraverso l’arma della parola, equiparato dal pensatore di Lentini ad una forza irresistibile alla pari del destino dei tragici o della divinità: la parola può tutto. Anche con Gorgia Platone, a cui stava particolarmente a cuore la possibilità di distinguere il vero dal falso, compie un’operazione simile a quella operata nei confronti di Protagora: se tutto è falso, cosa ci vieta di pensare che anche ciò che dice Gorgia lo sia? Ci si è spesso interrogati se Gorgia fosse un nichilista ante litteram o se, piuttosto, volesse esercitarsi con argomentazioni dialettiche al limite del pensabile.
E’ tuttavia certo che l’obiettivo polemico del suo argomentare fosse l’eleatismo: egli si serve, nelle sue argomentazioni, della dimostrazione per assurdo; in altri termini, per dimostrare la verità di A, assume per assurdo che sia vero il contrario (non-A) e, a partire da tale assunzione, si mettono in luce tutte le contraddizioni che ne derivano, a tal punto che si è costretti a riconoscere la falsità di tale assunto (non-A) e ad ammettere la veridicità della tesi di partenza ad essa opposta (A).
Spieghiamoci meglio: se l'essere esiste, l'uomo trova lì un limite alle sue azioni; ma se l'essere non c'è (non è conoscibile) l'uomo non ha limiti. E' su questo presupposto che si basa l'onnipotenza della retorica di Gorgia: se l'essere è ed è conoscibile non si può far conoscere alla gente ciò che si vuole (perchè ci si deve attenere all'essere), ma se non c'è l'essere non si hanno limiti e si può convincere la gente di ogni cosa: chi può dire che una cosa sia falsa se non c'è un qualcosa a cui attenersi (l'essere)? La verità per Gorgia non conta niente perchè non esiste: ciò che conta è la capacità di argomentare. Gorgia era fratello di un medico e diceva che pur non sapendo nulla di medicina, riusciva più lui del fratello a convincere i pazienti ad assumere i farmaci. Il linguaggio è totalmente distaccato dalla verità: esso non consiste nell'enunciazione di conoscenze, bensì nella persuasione.

La retorica e l’arteNell'Elogio di Elena alla parola viene dato il potere di dominare la vita, influenzandone le scelte anche affettive, per cui la donna non ha colpa per quel che è accaduto tra i Greci e i Troiani perché fu spinta dagli dei o dalle parole. E saper accostare parola a parola può determinare la modellatura dell'animo del singolo, come del carattere della folla. La parola può modificare l'anima di chi la ode, e tramite la poesia può anche indurre nuove esperienze.
Per Gorgia la persuasione è indipendente dal valore di verità di ciò che viene detto, dal momento che la parola pronunciata esercita la sua influenza sull'apparato emotivo degli ascoltatori, non sulle loro eventuali capacità intellettive. La potenza della parola è equiparata da Gorgia alla potenza dei farmaci e degli incantesimi magici. Questo risultato può essere ottenuto sulla base di due presupposti. Il primo consiste nel rendersi conto della particolare condizione psicologica in cui si trovano di volta in volta i propri ascoltatori e di valutare il momento opportuno (in Greco kàiros) per parlare e dire determinate cose. Il secondo presupposto consiste nella capacità di usare diversi tipi di discorso appropriati alle circostanze. Il nucleo dell'insegnamento di Gorgia è proprio dato dallo studio delle differenti forme del discorso e della molteplicità delle figure stilistiche da usare Per ottenere gli effetti persuasivi desiderati. Gorgia elabora anche un'interessante teoria a riguardo dell'arte. L'età presofistica era un'età dove la filosofia era prettamente cosmologica, con i sofisti la filosofia assume istanze a carattere antropologico: l'oggetto della ricerca diventa l'uomo e tutto ciò che lo riguarda.
Gorgia parte dal presupposto che noi non possiamo conoscere l'essere: se l'essere esistesse, l'arte sarebbe solo una sua imitazione imperfetta; ma dato che non esiste, da una parte non ho limiti e dall'altra l'arte diventa una mia creazione. Dato che non c'è un vero mondo (l'essere non c'è), l'artista è un creatore di mondi: per Gorgia il buon artista è quello che riesce ad ingannare gli spettatori, e il buon spettatore è quello che si lascia ingannare dall'artista: tutto questo perchè l'essere non c'è.
Fu dunque grazie a Gorgia che la retorica si arricchì del lato più tecnico e formale della retorica, ed in questo modo l’oratoria venne in seguito ad assumere caratteristiche distinte e ben precise in base alle finalità verso le quali era diretta. Si formarono così i “generi” specifici della retorica: quello giudiziario, tipico delle perorazioni nei tribunali; quello deliberativo, praticato dagli oratori politici per convincere le folle a seguirli, ed infine quello epidittico (detto anche dimostrativo), che veniva impiegato in massima parte durante le occasioni a carattere ufficiale e che trovò impiego anche per la creazione di discorsi fittizi, utile strumento di esercizio per il retore consumato e più tardi semplice componimento “di maniera”.

La politicaUna domanda che ci si è sempre posti analizzando Gorgia e tutti i sofisti, è se essi fossero politicamente conservatori o rivoluzionari. Politicamente Gorgia ha idee tipicamente conservatrici: alla domanda "che cos'è la virtù?", egli rispondeva nel più tradizionale dei modi: "i giovani devono fare questo, i vecchi quello, le donne quell'altro....". Come mai un tipo innovativo come Gorgia seguiva la tradizione? Egli segue la tradizione perchè se non si ha un criterio per stabilire ciò che è giusto e ciò che è sbagliato (dato che l'essere non c'è), la cosa migliore da fare è seguire la tradizione, ciò che ci è stato tramandato dagli avi. Nonostante questo, i sofisti (ed in particolare Gorgia) rimangono rivoluzionari perchè seguono la tradizione solo perchè fa loro comodo. Nell'ambito sofistico emersero poi due diverse interpretazioni sul binomio convenzione - natura: esistono due tipi particolari tipi di leggi, quella decretata dalla natura e quella decretata dall'uomo. Facciamo un esempio: per legge della natura, il più forte tende ad avere la meglio sul più debole; ma per la legge artificiale creata dall'uomo, questo non può accadere perchè si è tutti uguali ed è la legge stessa che protegge il più debole dal più forte. Ma quale è quella giusta, quella naturale o quella convenzionale? I sofisti rispondono in maniera differenziata gli uni dagli altri.

CRIZIA



Nato ad Atene all’incirca verso il 460 da nobilissima famiglia (era cugino della madre di Platone), Crizia fu un elemento di spicco nella rivoluzione oligarchica che, dopo la vittoria spartana nella battaglia navale di Egospotami (405 a.C.) - battaglia che segnò la disfatta decisiva per Atene nella Guerra del Peloponneso – soppresse per qualche tempo la democrazia ad Atene. Egli fu uno dei Trenta Tiranni e, più di altri, fu responsabile del clima di terrore che si instaurò ad Atene sotto il loro regime autoritario, nonché delle atrocità da quelli perpetrate a danno di chiunque si fosse opposto al loro regime. Morì nel 403 a.C., combattendo a Munichia contro i democratici capeggiati da Trasibulo, restauratore della democrazia in Atene. E’ quasi certamente da ascrivere alla sinistra fama che Crizia si guadagnò col suo operato politico l’oblio in cui cadde la sua ricca produzione letteraria e filosofica, che comprendeva tragedie, elegie e trattati in prosa. Dei suoi drammi conosciamo solamente quattro titoli (Temnes, Radamanto, Piritoo, Sisifo). Dai frammenti superstiti, è possibile ricavare idee molto sommarie solo sul contenuto del Piritoo e di Sisifo: il primo trattava della discesa all’Ade di Piritoo e di Teseo per riportare alla luce Persefone, colà trattenuta da Ade stesso. Nel secondo, invece, - che trattava le vicende del mitico Sisifo, condannato ad un’eterna ed inutile fatica – è celeberrimo il passo in cui Crizia (il quale fu esponente di spicco della Sofistica schierata "a destra", ovvero in senso decisamente aristocratico e antipopolare) ipotizza che la credenza negli dei sia stata opera di un astuto individuo che, con la paura dell’occulto, volle caricare di sacro timore il diritto e la legge, affinché gli uomini venissero dissuasi dal commettere ingiustizie e crimini. Tale teoria deve essere considerata come la punta più avanzata dell’insegnamento sofistico: in essa coesistono l’idea del carattere convenzionale che presiedette alla nascita della legge e del diritto, e quella della civiltà come prodotto dell’intervento diretto dell’uomo, che con l’invenzione degli dei "che tutto vedono", anche il delitto concepito nel silenzio, è riuscito a superare il tempo in cui la vita umana era senza legge e a regolare la vita era la violenza, cosicché i malvagi non ricevevano punizione alcuna, i buoni non erano in alcun modo premiati. Infatti, come si noterà nella Repubblica platonica con il mito dell’anello di Gige, ci tratteniamo dal commettere azioni ingiuste esclusivamente perché temiamo di essere scoperti e, dunque, puniti: se solo avessimo la garanzia dell’impunità (garanzia che ha Gige, in possesso di un anello che lo rende invisibile), non esiteremmo minimamente a commettere ingiustizia. Proprio in ciò risiede la scaltrezza dell’inventore degli dei di cui parla Crizia: in ogni singolo momento della nostra vita siamo osservati dagli dei, cosicché, per evitare di essere punti, dobbiamo comportarci in conformità delle leggi. Se è vero che agiamo giustamente finché siamo osservati da un’autorità in grado di punirci, allora basterà ipotizzare un’autorità in grado di osservarci ininterrottamente per garantire una condotta irreprensibile: questo è lo scopo per cui sono stati escogitati gli dei, come autorità che ci tengono gli occhi addosso di continuo. Quella di Crizia sull’invenzione degli dèi è una teoria famosa, ripresa di tanto in tanto nei secoli seguenti (ad esempio da alcuni illuministi del Settecento).
Nel dramma satiresco Sisifo Crizia avrebbe esposto nel la sua concezione sull’origine della religione: egli sostiene che la religione è un prodotto assolutamente artificiale dell’uomo; la stessa cosa Prodico sostiene a proposito della legge. Opposta è invece la concezione che i due filosofi hanno della natura umana: per Prodico fondata sull’uguaglianza, per Crizia su uno stato permanente di guerra di tutti contro tutti (l’hobbesiano bellum omnium contra omnes), che troverà espressione nella celebre formula homo homini lupus, usata da Plauto (Asinaria, v. 495) e ripresa nel XVII secolo dal filosofo inglese Thomas Hobbes. La legge – secondo Crizia – si fonda sulla forza, unico strumento per garantire la giustizia. Ma lo stato basato esclusivamente sulla propria capacità repressiva non può esercitare un controllo efficace e continuo su tutti gli uomin. Per questo, secondo Crizia, fu necessario "inventare" la religione, come strumento per garantire l’ordine e la legalità. Crizia, quindi, dimostra di essere stato un attento studioso dei risvolti psicologici della natura umana.
Esponente d’eccezione della sofistica schierata in difesa di un’oligarchia spregiudicatamente interessata a una visione totalmente mondana del potere e della forza, Crizia fu fermamente convinto della superiorità naturale dell’aristocrazia, per la quale non possono esistere scrupoli morali d’alcun tipo. La religione e la legge esistono dunque per convenzione (nomos), non per natura (fusis). Pur disponendo di scarse informazioni in merito, possiamo dire che anche nelle elegie – di cui ci restano scarsissimi frammenti – è presente una fortissima connotazione ideologica di marca aristocratica, che accomuna i versi di Crizia a quelli dell’antico Teognide di Megara. Impronta altrettanto marcata avevano le Costituzioni, un’opera mista di poesia e prosa che trattava di Atene, della Tessaglia e di Sparta (quest’ultima esaltata più d’ogni altra, in virtù dei suoi ordinamenti oligarchici): la famosa Costituzione degli Ateniesi (risalente ai primi anni della Guerra del Peloponneso), nell’opuscolo, viene lucidamente analizzato, da un’angolazione reazionaria, l’assetto istituzionale e sociale della polis ateniese, di cui si riconosce la profonda coerenza e funzionalità in ordine allo scopo che esso si prefigge: assicurare l’egemonia del popolo ai danni dell’aristocrazia. Lo scritto ha struttura dialogica: in esso, i giudizi e le considerazioni dell’esponente della “destra radicale” vengono stimolati man mano dalle larvate obiezioni di un secondo interlocutore (la cui presenza è stata erroneamente cancellata dalla tradizione manoscritta); identificandosi nell’esponente della “destra radicale”, Crizia avrebbe utilizzato gli schemi dialettici tipici del suo maestro Socrate. L’opera si risolve in un’analisi serrata e lucida del regime democratico ateniese, del quale sono messi in evidenza quelli che Crizia ritiene elementi negativi (la mancanza di scrupoli morali nei governanti, la loro ignoranza, la venalità dei giudici, la libertà di parola concessa anche ai meteci e agli schiavi); in questa spietata e feroce valutazione della democrazia ateniese dell’età periclea, Crizia si attesta su posizioni di netta insofferenza per il popolo, inteso come una massa di inferiori che una città saggiamente governata (ovvero retta da un regime aristocratico) non dovrebbe neppure ammettere alle assemblee, ma anzi dovrebbe tenere in schiavitù. La contrapposizione di natura tra aristocratici e plebei è insanabile: il popolo, in quanto rozzo e ignorante, è inadatto a governare la polis.
L’ERISTICA
La Seconda Sofistica o eristica (L'espressione proviene probabilmente da Platone, che utilizzò il verbo erizein, “battagliare”, probabilmente ad indicare l’arte di battagliare con le parole) è una evoluzione della Prima Sofistica di Protagora e di Gorgia. All’eristica, infatti, non interessa se un discorso possa essere vero o falso né le definizioni delle parole che vengono impiegate; il suo unico fine è quello di confutare il proprio avversario e di persuaderlo di avere ragione mediante la retorica. Per questo i secondi sofisti si vantavano di poter confutare qualsiasi cosa che si dica esser vera o esser falsa. In questo senso la tecnica eristica è più simile alla manipolazione che alla persuasione. A causa di queste caratteristiche l’eristica ha finito per influenzare in modo eccessivamente negativo la fama dei sofisti, in particolare quella di Protagora e di Gorgia, il cui contributo importante – in particolare il relativismo culturale e il fenomenismo epistemico – nella storia della filosofia occidentale è stato riconosciuto solo di recente.
La dialettica eristica è il termine preciso che indica una tecnica dialettica utilizzata per sostenere le dispute con l'unico scopo di far prevalere le proprie ragioni su quelle dell'avversario, senza dare importanza alla verità in sé.

venerdì 24 ottobre 2008

IL TOTALITARISMO

TOTALITARISMO



Il concetto di totalitarismo è la forma di governo – e l’ideologia –individuata da alcuni scienziati politici e storici per enucleare le caratteristiche di alcuni regimi nati nel XX secolo, che mobilitarono intere popolazioni nel nome di un'ideologia o di una nazione. Secondo questo modello teorico il totalitarismo è più oppressivo di un regime autoritario per quanto riguarda il pluralismo, sia politico che civile/sociale, ed i diritti politici.





CARATTERISTICHE DEL REGIME TOTALITARIO


In un regime totalitario:
1) i membri del partito unico al potere diventano l’élite del paese e sostituiscono il governo istituzionale; tutta la società è assoggettata a un’organizzazione gerarchica nella quale ogni individuo deve rispondere a qualcun altro sopra di lui, con l’unica eccezione del capo supremo, che non deve rispondere a nessuno. Tutti i gruppi non allineati al potere vengono annientati.
2) La soggezione totale dei singoli individui al partito è ottenuta mediante un’estesa burocrazia,
3) il monopolio dei mezzi di comunicazione, attraverso il massiccio uso della propaganda, che cerca di plagiare le menti di tutti i cittadini con una ideologia di stato.
4) un’efficiente polizia segreta,
5) il controllo politico delle forze armate e una forte centralizzazione dell’economia.
6) Il partito possiede tutti i mezzi di comunicazione (giornali, radio e televisione, teatro e cinema) attraverso i quali i cittadini ricevono informazioni, orientamenti, direttive. Infine, le forme di manifestazione del pensiero che non si conformano alla linea del partito – ossia alla sua interpretazione ideologica della realtà – sono colpite dalla censura.








DIFFERENZE CON UN REGIME AUTORITARIO


In un regime totalitario lo stato controlla quasi ogni aspetto della vita di un individuo, attraverso il massiccio uso della propaganda, che cerca di plagiare le menti di tutti i cittadini con una ideologia di stato. Un ruolo fondamentale in tal senso è svolto dalla scuola e dai mass media. Il partito unico totalitario controlla tutti i gangli della vita politica e sociale, infatti i governi totalitari non accettano le attività di individui o gruppi che non siano indirizzate al bene dello stato, mentre negli autoritarismi è presente un limitato pluralismo socio-culturale. Un'altra differenza con lo stato autoritario è che questo ha limiti prevedibili all'esercizio del potere, cioè è possibile "vivere tranquilli", è possibile non incorrere nella vendetta dello stato se si seguono alcune regole di comportamento; nello stato totalitario i limiti all'esercizio del potere sono mal definiti, incerti, si rischia di essere arrestati dalla polizia segreta, comunque presente anche negli autoritarismi, e venire puniti, attraverso un processo sommario o con il carcere o con la morte.
Una delle caratteristiche invece che accumunano il totalitarismo e l'autoritarismo è che spesso vengono create minacce interne ed esterne per consolidarne il potere attraverso la paura, come è stato fatto in Germania, additando gli ebrei come responsabili di molti mali che avevano afflitto o affligevano la nazione.





DIFFERENZE TRA DITTATURA E TOTALITARISMO


La dittatura esercita un potere negativo imponendo ai sudditi solo cosa non debbono fare o dire; il totalitarismo attua anche un potere impositivo prescrivendo che cosa i sudditi debbono fare, dire e pensare
la dittatura suole distinguere tra vita pubblica e vita privata, esigendo fedeltà solo nell'ambito della prima; il totalitarismo non riconosce simili distinzioni investendo l'intera vita dei sudditi,
la dittatura è spietata per quel che riguarda il potere politico ma ammette un ambito di vita morale da non invadere; il totalitarismo ha come unico criterio morale la sottomissione al volere del capo.





IL TOTALITARMO NELLA STORIA



Gli esempi più eclatanti di regimi totalitari sono stati la Germania sotto il nazionalsocialismo di Adolf Hitler e l’Unione Sovietica soprattutto durante il periodo stalinista. Non sono mancate altre manifestazioni del fenomeno, sia pure in forme meno compiute e articolate, ad esempio in Italia durante il regime fascista di Benito Mussolini, nei paesi europei del Blocco orientale, in Asia e in America latina: in questi casi, tuttavia, gli studiosi sottolineano l’assenza di alcuni elementi costitutivi dei totalitarismi nazista e sovietico, in particolare per quanto riguarda il grado di penetrazione dell’ideologia nella società e nelle istituzioni.

Benito Mussolini usò per primo il termine per definire il proprio regime, Leon Trotsky lo usava per indicare sia il fascismo che lo stalinismo come "fenomeni simmetrici" nel suo libro del 1936 La rivoluzione tradita. Hannah Arendt rese popolare il termine "totalitarismo" nel suo libro del 1951 Le origini del totalitarismo, in cui si esponevano le similitudini tra la Germania nazista e l'Unione Sovietica stalinista.
Durante la guerra fredda il termine divenne molto popolare come modo di screditare l'Unione Sovietica e di tracciare una linea di continuità tra la lotta per la libertà della seconda guerra mondiale e la lotta contro il comunismo della guerra fredda. Per questo divenne di uso comune negli Stati Uniti e anche altrove, specialmente nella NATO, e fu usato per definire ogni governo nazionalista, imperialista, fascista o comunista. Questo significato è rimasto molto comune anche oggi.
Purtuttavia alcuni regimi fascisti, come la Spagna di Francisco Franco o l'Italia di Mussolini prima della guerra e alcuni regimi socialisti, come la Yugoslavia di Josip Broz Tito o la Repubblica popolare cinese di Deng Xiaoping, sono considerati da alcuni studiosi più autoritari che totalitari.

Nazifascismo e stalinismo: due identici totalitarismi?Anche l'uso della categoria di totalitarismo per accomunare nazismo e stalinismo (la maggioranza degli storici preferiscono parlare di stalinismo o di socialismo reale per sottolineare una differenza con l'ideologia comunista) è controversa e oggi contestata da molti. Entrambi i regimi si basavano su un unico partito fortemente legato, centralizzato e guidato da un capo carismatico, entrambi facevano ricorso al terrore e alla propaganda così come alla polizia politica. Ma sembrano esserci anche forti differenze storiche. Alcuni affermano che, mentre il nazismo indicava all'esterno il proprio nemico e rivolgeva all'esterno le proprie forze distruttive (verso i popoli slavi e gli ebrei in primo luogo), lo stalinismo vedeva il nemico (potente forza di compattezza ideologica) all'interno e lo combatteva dentro i propri confini (ad esempio nello sterminio dei kulaki). Se queste premesse sono vere, allora deriva una differente natura del consenso nei due regimi: spontaneo quello al nazismo da parte dei tedeschi, imposto e formale quello dei russi nei confronti del partito bolscevico, perlomeno fino alla vittoria nella seconda guerra mondiale. Inoltre alcuni ritengono che per poter definire un fenomeno con un termine bisognerebbe che questo fosse "monolitico". Se questo fosse vero per il nazismo, non potrebbe esserlo per lo Stalinismo, che, in 30 anni di storia cambiò volto più volte (una fra tutte dopo la Grande guerra patriottica).








LE ORIGINI DEL TOTALITARISMO (RIASSUNTO)


"Le origini del totalitarismo" è il titolo di un libro di Hannah Arendt.
Riconosciuto alla sua pubblicazione nel 1951 come la trattazione più completa del totalitarismo - e in seguito definito un classico dal «Times Literary Supplement »- quest'opera continua da molti ad essere considerata il testo definitivo sulla storia dei regimi totalitari o - quantomeno - delle loro incarnazioni del XX secolo.
Il libro inizia con una disamina delle cause dell'antisemitismo europeo nel primo e medio XIX secolo, continuando poi con un esame dell'imperialismo coloniale europeo dal 1884 alla prima guerra mondiale.
L'ultima parte tratta delle istituzioni e delle azioni dei movimenti totalitari, esaminando in maniera approfondita le due più pure forme di governo totalitario del 1900: quelle cioè realizzatesi nella Germania del nazismo e nella Russia di Josif Stalin.
L'autrice discute la trasformazione delle classi sociali in masse, il ruolo della propaganda nel mondo non totalitario (all'esterno della nazione come nella popolazione ancora non totalitarizzata) e l'uso del terrore, condizione necessaria a questa forma di governo.
Nel capitolo conclusivo, la Arendt definisce l'alienazione e la riduzione dell'uomo a una macchina come requisiti necessari al dominio totale.



L'antisemitismoI banchieri ebrei furono da sempre prestatori eccellenti per lo stato nazionale: paradossalmente, furono loro a fornirgli i capitali necessari a permettere l’istituzione di monopoli e lotterie, con cui lo stato si affrancò dal bisogno di prestiti: nessun gruppo finanziario gentile aveva fiducia nelle capacità finanziarie degli stati. Verso la metà del XVIII secolo praticamente ogni corte aveva un proprio finanziatore ebreo, la cui influenza veniva sfruttata dalle piccole comunità ebraiche: attraverso quest’ultimo avevano un canale privilegiato per esprimere i propri problemi a corte, e questo contribuì a far sorgere un diffuso sentimento antiebraico tra i contadini gentili. Prestavano inoltre la loro fama e le loro conoscenze internazionali; la loro fitta rete di relazioni internazionali li rendeva pertanto sospettati di poter manovrare i singoli stati mediante una società segreta. Genericamente, poiché gli ebrei erano il solo gruppo sociale a poter essere identificato come “amico dello stato”, ogni classe o gruppo fosse in tensione con quest’ultimo riversava il proprio odio verso l’ebreo.
Se questi sono dunque motivi di odio antiebraico, l’antisemitismo vero e proprio nacque in Prussia nel 1807, dopo la sconfitta ad opera di Napoleone. La seguente abolizione generalizzata dei privilegi mise l’aristocrazia contro lo stato, determinata ad attaccare gli ebrei come "simbolo dello stato", sebbene questi fossero stati i primi a perdere dall’eguaglianza. Ogni uomo politico, poi, (come del resto gli ebrei più ricchi) aveva ottimi motivi per ritardare l’assimilazione ebraica: i ricchi ebrei continuavano a essere “ebrei speciali” (e quindi potenti) per le loro comunità, mentre i politici conservavano l’apparente cristianità dello stato e allo stesso tempo non concedevano pregi agli ebrei poveri delle regioni riannesse alla Prussia dopo il congresso di Vienna del 1816.
La forma di antisemitismo più moderna del XIX secolo fu quella dei primi partiti e movimenti antisemiti; questi ultimi, sfruttando la povertà generale della piccola borghesia seguente spregiudicate avventure come quella della compagnia di Panamá (e la correlata sfiducia nel classico sistema dei partiti) ottennero vasta popolarità proclamandosi “al di sopra dei partiti, contro nobili e giudei” per sostituirsi allo stato nazionale. Ciò è confermato dalla loro riluttanza a diffondere l’antisemitismo nei partiti esistenti: non si voleva cacciare gli ebrei, quanto usarne la cacciata come leva per sostituire il classico stato nazionale. Queste caratteristiche videro la loro massima espressione in Austria, nel partito liberale pangermanista di Schönerer: l’impero austro-ungarico fu sempre tormentato da persistenti differenze sociali tra le varie etnie, le quali ebbero tutte un ottimo motivo per essere scontente della monarchia degli Asburgo; per la consueta identificazione tra stato ed ebrei, a Schönerer fu facile trovare consenso predicando la cacciata violenta dell’ebreo e l’unificazione con la Germania (sebbene sopravanzato dai socialcristiani di Luger, che ottennero il consenso della destra tradizionale – Schönerer fomentava anche pulsioni anticattoliche-). Se in Austria l’apice dell’antisemitismo tradizionale si ebbe alla fine del XVIII secolo, in Francia fu invece prematuro: l’ebreo era perseguitato per retaggio dell’illuminismo, che in esso vedeva una figura chiave nell’appoggio all’aristocrazia; queste motivazioni arcaiche ne limitarono l’attrazione esercitata nel XX secolo.
Nei venti anni tra il declino dei partiti antisemiti e la prima guerra mondiale si ebbe l’età aurea della sicurezza: l’imperialismo e l’espansione economica divennero le sole materie di cui si occupassero i politici (e in grado di far presa sulle masse); nessuno sembrava accorgersi dell’imminente collasso delle strutture politiche tradizionali, e l’antisemitismo politico si sciolse come neve al sole; si tramutò nell’astio che il medio borghese provava per l’ebreo banchiere, membro della ricca elite a cui sognava di appartenere.
Il mondo accetta difficilmente l’idea che l’uguaglianza non spetti a tutti gli uomini come a esseri uguali tra loro, bensì a tutti gli uomini in quanto esseri diversi ma di pari dignità. L’esempio più clamoroso si ha con gli ebrei: quando gli fu accordata l’emancipazione fu sempre nei confronti di persone fuori dall’ordinario, e sempre da parte di ristretti gruppi di intellettuali. Quest’ultimi trattavano l’ebreo come proprio pari non perché ritenessero ogni uomo pari all’altro, ma perché ottima dimostrazione di come potessero esserci uomini normali e degni di stima anche all’interno della categoria dei diversi: l’ebreo si distingueva come essere sollevatosi dalla misera base. E, nel caso dei salotti parigini, si aggiungeva una morbosa attrazione verso lo sporco, l’indegno, che nell’ebreo trovava il suo apice; non cambiava pertanto l’idea che si aveva degli ebrei, quanto il modo di rapportarsi agli stessi. Durante tutto il XIX secolo, l’ebreo non cercherà di prendere coscienza della figura di paria del suo popolo e modificarla, bensì di diventare egli stesso un parvenue, ciò che non si è, mediante l’accettazione nei salotti bene. L’ossessione per l’assimilazione porterà gli ebrei a ridursi a cliques dell’ebreo tipo (ad esempio, in concomitanza dell’affaire Dreyfus si mostreranno spesso proni al tradimento); abbiamo così una curiosa situazione in cui l’antisemitismo politico imperversa, la plebe è carica d’odio per gli ebrei, e gli illustri rappresentanti di questi ultimi si rinchiudono nei salotti a cercare di apparire quanto più marci e corrotti possibile. Il più illustre esempio è Benjamin Disraeli, primo ministro inglese; il suo paese di nascita non conosceva quasi più l’ebraismo dopo la cacciata degli ebrei nel medioevo, per cui egli stesso sapeva molto poco delle sue origini. Con la mente sgombra, si fece facilmente suggestionare dalle chiacchiere antisemite così comuni nell’Europa continentale, e giunse ad auto-convincersi di appartenere a una stirpe di oscuri dominatori del mondo, non mancando di propagandare questa tesi quanto più possibile. Come gli ebrei dei salotti, voleva essere assimilato grazie alla sua diversità.
Fine 1894; Alfred Dreyfus, ufficiale dello stato maggiore francese, ebreo, viene accusato di aver venduto informazioni militari alla Germania. Il solo ufficiale dell’esercito convinto della sua innocenza, Piquart, viene trasferito a un incarico ad alto rischio in Tunisia (1896); da qui scoprirà che Dreyfus è stato incolpato per via di una maldestra falsificazione ad opera dell’ ufficiale francese Walsin Esterhazy e lo comunicherà al senato nel 1897. Nel teso clima di fine secolo questo processo dividerà la popolazione in una lotta tra conservatori e radicali (antidreyfusards e dreyfusards): ogni processo in quegli anni era guardato come la conferma o meno dell’avvenuta uguaglianza, e la situazione era complicata dall’antisemitismo seguente il fallimento della compagnia del Canale di Panamá; Quest’ultima, (comandata dall’ingegner Ferdinand De Lesseps, già creatore del canale di Suez) diretta verso il fallimento, cercò in tutti i modi di evitarlo corrompendo metà del parlamento e la stampa (per farsi elargire pesanti prestiti pubblici) servendosi di due ebrei come intermediari: Jacques Reinach per la destra e Cornelius Herz (assoldato da Reinach) per la sinistra. Quest’ultimo ricattò spesso il primo, portandolo al suicidio quando si fece elargire una grossa provvigione (circa 600.000 franchi) per un servizio che poi non rese; Reinach, disperato, diede la lista dei politici corrotti alla Libre Parole (giornale antisemita) in cambio della promessa di non venir nominato, per poi uccidersi. Una parte considerevole della media borghesia, rinfrancata dai prestiti statali (la cui concessione era teoricamente possibile solo a compagnie la cui onestà veniva controllata) aveva investito tutti i propri risparmi in questo affare, ritrovandosi ad essere ormai plebe, una caricatura del popolo in cui confluivano tutti i reietti dello stesso, costretta a chiedere prestiti ai banchieri ebrei. Persa completamente la fiducia nello stato, reclamava una mano forte ed antichi valori: esattamente le doti che esercito e clero (i gesuiti in special modo) proclamarono proprie, cavalcando l’ondata di sdegno e antisemitismo nella speranza di poter ripristinare la monarchia. Furono avversati e sconfitti, oltre che da Piquart, da illustri personaggi come Émile Zola e Georges Clemenceau: questi ultimi pubblicando articoli e guidando manifestazioni - sebbene fatti oggetto di agguati alle proprie abitazioni - costrinsero l’esercito quantomeno a congedare Esterhazy con disonore e si batterono per la revisione del processo, la quale avvenne in tutta furia nel 1899 (non discolpando Dreyfus ma concedendogli la grazia, per evitare ulteriori disordini durante l’esposizione universale di Parigi del 1900). Divenuto primo ministro, Clemenceau nel 1906 fece discolpare Dreyfus dalla corte di cassazione.



L'imperialismoL’imperialismo fu la naturale valvola di sfogo per capitali e uomini superflui: le aziende operanti sui mercati nazionali - ormai saturi – necessitavano di impiegare in qualche modo i capitali accumulati negli anni, mentre allo stesso tempo decine di migliaia di persone - rese superflue al mercato del lavoro dalle continue migliorie ai processi di produzione – necessitavano di impiego. Come nella rivoluzione francese il feudalesimo fu abbattuto prima nelle regioni in cui era meno forte (il popolo non tollera chi non contribuisce alla società; un signore feudale senza poteri ma ancora ricco diventa estremamente superfluo, esattamente come un capitalista che non offre un lavoro), era facile prevedere che si sarebbero potute verificare tensioni per via di queste due classi. L’apparente uovo di colombo fu l’espansione delle industrie sulle colonie: per la prima volta era la borghesia, il capitale, ad espandersi per proprio conto in terre straniere: il potere politico non farà altro che fornirgli protezione (servizi di polizia), per poi assumere il controllo (diretto nel caso della Francia, indiretto in quello dell’Inghilterra) solo quando l’espansione e l’imperialismo siano diventati pilastro della vita politica – quando cioè i borghesi e gli industriali, convinta la plebe che l’espansione economica fosse il solo obiettivo politico a fare gli interessi di tutta la nazione, si insediarono in parlamento allo scopo di favorire i propri affari. La borghesia, quindi, unica classe sociale ad aver finora dominato senza interessarsi mai della politica, divenne padrona di quest’ultima, contando sull’appoggio della plebe (gli scarti di tutte le classi sociali) e dei nazionalisti, che nell’imperialismo vedevano il trionfo della propria nazione sulle altre.
Prima dell’imperialismo le teorie razziali avevano valenza di semplici opinioni, e come tali confutabili; è solo con l’imperialismo che quest’ultime diventano vere ideologie, cioè singole ipotesi con cui si riesce a spiegare qualsiasi aspetto della vita. Prima di questa trasformazione erano perfettamente rappresentate dalle sciocchezze del Conte di Boulanvilliers o del Conte di Gobineau: mitici popoli germanici di razza superiore che, scesi in Francia, avevano fondato l’aristocrazia (nel caso del primo) o una teoria che spiegava - col mescolamento del sangue nobile a quello plebeo – l’ormai sopravvenuto declino dell’aristocrazia e permetteva al suo nobile teorizzatore di proclamarsi puro (in virtù del suo sangue mai mescolato) nel caso del secondo. Un po’ diverso il caso di Edmund Burke e del razzismo inglese: in una società che ancora conservava i privilegi aristocratici, esso estese la definizione di “razza pura” a tutto il popolo inglese, allo scopo di dare una consolazione alle classi più povere: seppur inferiori ai nobili, erano pur sempre superiori al resto del mondo.
La razza e la burocrazia divennero i pilastri dell’espansione imperialista. Solitamente si usava colonizzare una terra nel caso essa fosse stata ricca e scarsamente abitata, o impiantarvi una stazione marittima nel caso mancassero questi due requisiti; Nel Sudafrica gli olandesi attuarono la seconda opzione, usandolo come base per l’India per poi dimenticarsi dei propri uomini una volta aperto il canale di Suez; questi ultimi erano i Boeri, o Afrikaner, che si erano garantiti la sopravvivenza in terre così ostili sfruttando la propensione delle popolazioni autoctone a crederli esseri superiori per renderli schiavi. Quando in Sudafrica si scoprirono miniere di diamanti e folle di nobili avventurieri inglesi e scarti della società vi si riversarono, a contatto con i boeri ne mutuarono il razzismo; la madrepatria scoprì così che era possibile usare la sola forza bruta per assicurarsi il controllo di una popolazione. Il controllo istituzionale era invece affidato alla burocrazia imperialista: il primo e più fulgido esempio di questa fu l’inglese Lord Cromer. Console egiziano dal 1883 al 1907, arrivò animato da sentimenti nobili: tenere in mano inglese il canale di Suez così che essi potessero continuare a “proteggere l’India”, insegnando agli autoctoni la loro superiore cultura. Appena stabilitosi, non poté più credere che agli inglesi interessasse qualcosa di popoli che gli apparivano “arretrati”, ed iniziò a dominare il paese senza che gli fosse mai stata davvero concessa questa autorità. Il suo dominio di decreti provvisori, leggi non scritte, arbitrarietà perpetrate non da riconoscibili soldati ma da agenti segreti fu il modello per tutte le altre colonizzazioni.
I panmovimenti, attivi già dal 1870 (vedasi il partito pangermanista di Schonerer) con l’avvento dell’imperialismo iniziano a farsi violenti: Se i paesi con sbocchi sul mare si arrogano il diritto di espandersi negli altri continenti, i panmovimenti reclamano il diritto di annettere le terre loro confinanti; a differenza dell’imperialismo d’oltremare, in questo imperialismo continentale non è il capitale il motore ultimo delle azioni, quanto “un ampliata conoscenza etnica” e un nazionalismo tribale: l’idea che il proprio popolo fosse eletto da Dio al dominio, e che solo la divisione lo impedisse. Pangermanisti e panslavisti facevano affidamento sulle frustrazioni dei popoli che non avevano un proprio stato o non erano rappresentati; quando invece lo avevano – come i pangermanisti tedeschi – fidavano sulla frustrazione del popolo per non poter partecipare al banchetto dell’imperialismo d’oltremare. Crocevia di queste pulsioni fu l’impero Austro-Ungarico, dilaniato da pangermanisti austriaci e panslavisti ungheresi. Come già accennato prima, entrambi i movimenti erano intrisi di antisemitismo – come naturale, dato il loro odio nei confronti dello stato e l’identificazione dell’ebreo con questo – che sfogavano in violente azioni contro le comunità ebraiche: il loro assoluto disprezzo per la legalità era mutuato dall’arbitrarietà propria dell’impero Austro-Ungarico e dell'impero Russo, i quali non si facevano eccessivi scrupoli a disprezzare le proprie stesse leggi. I panmovimenti non riuscirono mai a sovvertire l’ordine nazionale, ma sfruttando bene la mancanza di fiducia del popolo nei confronti dei partiti tradizionali -corrotti o impossibilitati ad agire per il bene della popolazione- evidenziarono come lo stato nazionale non avesse mai risposto alle esigenze della popolazione.
Dopo la prima guerra mondiale quel che restava dell’impero Austro-Ungarico fu diviso in stati, ovviamente a loro volta suddivisi in minoranze (date le peculiari caratteristiche dell’Europa dell’est). Senza l’oppressiva burocrazia dell’impero, cade il mito dell’unione tra Stato (organo di governo) e nazione (popolo): dalla rivoluzione francese in poi si era sempre dato per scontato che il primo fosse diretta espressione del secondo, e il conferire i diritti umani ai propri cittadini avrebbe significato conferirli a tutto il popolo. In un contesto in cui non si poteva neanche definire un popolo come numericamente prevalente sull’altro (Cecoslovacchia, ad es.) e gli apolidi si erano affacciati sulla scena, si presentava il problema di cosa farne: non era possibile naturalizzarli in blocco, né dare asilo politico alle masse; rimpatriarli era impossibile perché non desiderati.



Il totalitarismoil regime totalitario, basato sul moto perpetuo, viene dimenticato in fretta quando quest’ultimo si arresta: basato sulle masse, deve fare i conti con la volubilità naturale di quest’ultime, specie se private dell’influenza del regime. La massa, a differenza della plebe, non è una caricatura della borghesia: è il risultato del crollo di ogni classe sociale dovuto alla disoccupazione e alla miseria, lo specchio di ogni classe sociale che non esiste più. Amorfa nei confronti della vita e sfiduciata nei confronti del sistema dei partiti: in quest’ultimo ogni partito rappresentava una classe sociale i cui membri si occupavano della politica per difenderne gli interessi, e lasciare agli altri appartenenti alla stessa la possibilità di condurre una vita apolitica. Alla caduta delle classi sociali i partiti tradizionali non rappresentarono più nulla se non la volontà di tenere in piedi il vecchio sistema; ma chi lo avrebbe voluto, in un sistema che finora aveva garantito solo miseria e alienazione? Cade quindi un altro mito della rivoluzione francese: che tutto il popolo si interessasse della politica, e chi non lo facesse fosse solo una minoranza (o se anche maggioranza, sarebbe stata irrilevante, semplice sfondo). Il totalitarismo necessita di masse senza la scintilla dell’individualità (ottimo motivo per cui si può definire il primo movimento antiborghese)
Come le masse, gli intellettuali appoggiavano i movimenti totalitari: essi avevano rifiutato il vecchio sistema basato sulle classi sociali prima che quest’ultime sparissero, e avrebbero salutato con gioia qualsiasi cosa significasse un netto cambiamento rispetto al passato; se le masse ammiravano Hitler come loro campione (un diseredato come loro), gli intellettuali lo ammiravano come estremo sovvertimento dell’ordine costituito: un plebeo gretto, meschino ma almeno schietto, al comando della nazione avrebbe messo in riga tutti i politicanti borghesi gretti e meschini quanto lui, ma fondamentalmente ipocriti. Al trionfo, Hitler li liquiderà, come ovvio: un intellettuale è pur sempre un espressione di individualità.
Plebe ed elite, quindi, seguono naturalmente il movimento totalitario; la massa, invece, va prima convinta: a questo pensa la propaganda. Essa serve sia per le masse non totalitarizzate, che per il mondo esterno, che per i membri del partito non ancora totalitari. Con essa si propugna l’ideologia, per mezzo del terrore (Esso è coadiuvante della propaganda, ma anche motore del movimento) e, in misura minore, della scienza. Una volta raggiunto il potere la propaganda viene sostituita dall’indottrinamento. L’abilità propagandistica dei nazisti non fu frutto di belle parole o dell’invenzione di nuovi concetti: essi scelsero tra le teorie già esistenti quelle che facevano più presa sulla massa (come l’antisemitismo). Il campo in cui invece furono realmente originali fu l’organizzazione: il nazismo era strutturato come un’organizzazione a strati. I frontisti erano i meno totalitari, poi venivano i membri del partito, poi le gerarchie più alte del partito. Questo è dovuto all’ideologia: il nazismo proclama di avere contro (e dover combattere) tutto il mondo: agli occhi di chi sta più in alto nella scala gerarchica, lo strato immediatamente precedente è il mondo non totalitario. Questa organizzazione vale in due sensi: conforta i membri del partito, e fa vedere alle masse ancora non totalitarizzate il lato meno estremo dei nazisti. Altra peculiarità nazista fu il duplicare qualsiasi organizzazione statale: formazioni paraprofessionali di medici, avvocati e quant’altro. Questo gli permise di sostituire rapidamente tutto l’apparato statale con uomini di fiducia, oltre che far sentire ogni ramo della società rappresentato nel nazismo. Al centro di tutto c’è il capo, ultimo strato dell’organizzazione, che si assume ogni responsabilità per quello che fanno i suoi uomini. Così facendo difende il movimento dall’esterno e allo stesso tempo (prendendosi le responsabilità di tutti) fa in modo che la vittima del terrore nazista non sappia da chi venga l’ordine -se non dal capo, un entità irraggiungibile. E’ quindi una organizzazione simile a quella delle società segrete:gerarchie secondo il grado di devozione e potere accentrato, oltre a un iniziazione e un rituale: la prima fu messa in atto con l’esame della razza, il secondo con l’adunata oceanica.
Una volta conquistato il potere, il regime consegna il potere ai suoi duplicati dell’autorità; ogni organizzazione tradizionale, come lo stato stesso, perde di valore e vi vengono confinati i meno utili alla causa. Il potere non è dello stato ma del partito: tanto più un istituzione è in vista, tanto meno potere ha; chi conta è colui che è meno in vista, e questi a sua volta non fa che il volere del capo, essenziale al movimento. L’immensa macchina burocratica che si viene a creare ha ragion d’esistere solo perché il nazismo ragiona in termini non utilitaristici: lo spreco di denaro e le sovrapposizioni di ruoli sono giustificabili di fronte all’ideale razziale, specialmente se guardate come fastidi momentanei in una futura storia millenaria. La sicurezza del dominio futuro si nota anche dall’applicazione di leggi retroattive nei paesi conquistati: si punisce chi non si è attenuto alla legge del Fuhrer quando è stata proclamata; era già in vigore anche nel proprio paese, mancavano solamente gli uomini (i soldati della Wehrmacht) incaricati di farla rispettare.
Il duplicato più importante è la polizia segreta: conquistato il potere, il movimento devia i fondi della polizia segreta ufficiale a favore della propria; quest’ultima all’estero prepara il terreno per il futuro dominio, mentre all’interno si occupa del nemico oggettivo: poiché un regime totalitario si basa sul moto perpetuo, una volta cessati i focolai di resistenza ha bisogno di un altro nemico contro cui scagliarsi, possibilmente un nemico che possa essere ritenuto tale dal mondo esterno, come gli ebrei. Questi ultimi sono i nemici oggettivi, quelli la cui colpevolezza è provata: sono colpevoli di non essere desiderati. Alla Gestapo, pertanto, sarà accordata più fiducia che a una qualsiasi polizia segreta ufficiale: non avrà mai il compito di scoprire chi trama contro il regime, né avrà potere di ignorarli o favorirli. Sarà semplicemente la prima a sapere, dopo il capo, chi deve essere ucciso. Non esistendo più la fase investigativa, il sospetto di reato viene sostituito dal delitto possibile: chiunque abbia la possibilità di fare qualcosa contro il regime è riconosciuto colpevole; Josif Stalin utilizzerà questo concetto facendo epurare tutte le cariche del partito con sufficiente autorità per preparare un colpo di stato, ad esempio. Questi concetti vengono abbandonati solo al raggiungimento del completo totalitarismo: da qui, le vittime verranno scelte a caso, nella negazione suprema della libertà: il regime non consente di scegliere neppure se diventare colpevole o meno; non consente di scegliere il suicidio in quanto - dopo anni di condizionamento atto a cancellare l’individualità – il condannato non ha neppure più la volontà per farlo. Se avesse conservato parte della propria personalità, quest’ultimo sa che sarebbe un gesto inutile: il proprio suicidio non ispirerebbe nessuno alla ribellione, perché nessuno saprebbe neppure del suo martirio: nel regime nazista la gente non muore, sparisce dal mondo, mediante l’eliminazione delle condizioni necessarie al ricordo e di chi potrebbe ricordare.
Per i nazisti il campo di concentramento è un laboratorio per l’annientamento della personalità, prima ancora che per lo sterminio. In questo ambiente completamente chiuso al mondo non totalitario, il prigioniero vede solo SS, inumani esecutori. Non ha contatti con altre categorie di detenuti a parte la propria, né finisce mai nel lager per qualche motivo: chi compie un reato finisce in carcere, e solo quando avrà scontato la pena prevista dalla legge sarà deportato, di modo che sia chiaro che non finisce lì per propria scelta: non perché ha scelto di essere contro il regime e agire di conseguenza, ma perché il regime ha scelto di essere contro di lui. Non a caso il criminale è praticamente il solo a poter diventare kapò: proprio perché sa di essere quantomeno indesiderabile, trova un motivo per spiegare la propria deportazione. Compiuta la distruzione dell’uomo come soggetto di diritto, si passa ad annullare la personalità morale: si rende impossibile il martirio non permettendo a nessuno di venirne a conoscenza, né è possibile morire per conto proprio piuttosto che aiutare il nazismo; ad esempio, si viene posti di fronte alla scelta se aiutare il nazismo tradendo amici che cospirano o non aiutarlo lasciandoli cospirare,ma facendo così condannare la propria famiglia. Una volta distrutta la personalità morale, dell’essere umano rimane solo l’individualità, la consapevolezza di essere unico; ma venendo quest’ultima in larga parte dalle proprie scelte e convinzioni morali, quel che ne rimane è solo la conoscenza del proprio nome e del proprio modo di reagire alle condizioni in cui ci si trova. Nulla che un numero di serie e un trattamento ugualmente umiliante (come la deportazione nudi nei carri bestiame) per tutti non possa cancellare. Il nazismo nel lager riduceva l’uomo a un fascio di nervi - né più né meno che una bestia - per imparare e riprodurne il più possibile i risultati sui propri cittadini. Si direbbe una menzogna affermando che il nazismo fosse più avverso agli ebrei che al popolo tedesco: esso era ugualmente contro ogni forma dell’essere umano; non voleva far sì che il popolo tedesco conquistasse il mondo, quanto riorganizzare la natura umana.

mercoledì 22 ottobre 2008

LA QUESTIONE MERIDIONALE

Il grande problema nasce all'indomani dell'unità d'Italia, quando le diverse realtà politico-economiche vengono aggregate sotto la corona sabauda

LA QUESTIONE MERIDIONALE:DAL 1861 DIBATTITI INFINITI
di MARCO UNIA

La questione meridionale nasce all'indomani dell'unità d'Italia, quando le diverse realtà politiche ed economiche della penisola vengono riunificate sotto la corona sabauda. Sin dal 1861 è evidente il profondo squilibrio economico che divide in due l'Italia, che al nord presenta un modello di sviluppo di tipo capitalistico del tutto assente nelle regioni del Mezzogiorno d'Italia. La produzione agricola costituisce ancora la principale attività del paese, ma essa viene praticata in forme diverse nelle regioni italiane, e ciò è ad un tempo effetto e causa della diverse organizzazione sociale vigente nelle due aree sopraccitate. Al nord si va sviluppando una gestione capitalistica delle aziende agricole che ha nel Piemonte e nella Lombardia le regioni trainanti.
Questo modello gestionale prevede l'investimento di cospicue quantità di denaro per l'ammodernamento costante degli strumenti di produzione delle aziende agricole, che ha per conseguenza un costante incremento della produzione e la progressiva meccanizzazione del lavoro. Le produzioni specialistiche del nord Italia - si pensi al riso- vanno allineandosi così agli standard delle più avanzate nazioni europee e sono in grado di presentarsi con successo sui mercati internazionali. Questo sistema di produzione, che viene incentivato dalle politiche liberiste in vigore nel Piemonte sabaudo, richiede e contribuisce a sviluppare una borghesia imprenditrice, disposta ad investire parti consistenti dei propri profitti per l'ammodernamento delle imprese e tende ad estinguere i comportamenti tipici dell'aristocrazia terriera che fondava la propria ricchezza su posizioni di rendita.
Opposta si presenta invece la situazione nel meridione d'Italia negli anni immediatamente a cavallo dell'unità. L'agricoltura non conosce in queste zone alcuna trasformazione di tipo capitalistico, laddove domina invece un tipo di organizzazione e di gestione di chiara origine feudale. Alla media e piccola proprietà diffusa nel centro e nel nord Italia si contrappone al sud l'immensa distesa del latifondo, di proprietà di una borghesia assenteista che ha rivelato non solo le proprietà ma anche gli usi e i modi dell'aristocrazia.
I vastissimi appezzamenti di terreno sono concessi in affitto ai contadini o vengono coltivati facendo ricorso alle masse di braccianti, seguendo tecniche in uso da secoli. Prevale al sud la coltivazione estensiva di grano destinato al mercato interno e all'auto- sostentamento, non competitivo sul piano internazionale per costi e metodi di produzione. La borghesia meridionale non era disposta a reinvestire i propri profitti nelle imprese agricole, che pertanto rimanevano in condizioni di arretratezza produttiva rispetto al nord Italia. L'atteggiamento della borghesia meridionale dell'epoca viene così tratteggiato dallo storico Francesco Barbagallo:
"La classe borghese dei grandi e medi proprietari terrieri nasceva e si rafforzava al di fuori di un reale conflitto con la proprietà nobiliare, anzi aspirava ad imitarne i costumi e le abitudini, e mutava dalla feudalità caratteri e forme del tradizionale sfruttamento della terra e dei contadini. L'appropriazione borghese della terra non comportava il superamento dei rapporti agrari e sociali più arretrati."
Nei primi anni unitari la questione meridionale, intesa come il problema dell'arretratezza economica ma anche sociale e politica del sud, non fu argomento di discussione. Altri problemi infatti sorsero tra il nord e il sud Italia, così gravi da minacciare la stessa unità appena raggiunta. Dal 1861 al 1865 si sviluppò in Basilicata, in Molise, in parte dell'Abruzzo, della Calabria e della Puglia il cosiddetto fenomeno del "brigantaggio". Organizzati in bande i briganti attaccavano i paesi, saccheggiavano negozi e davano fuoco agli edifici comunali, per poi fuggire nelle campagne o sulle alture. Si trattava di un fenomeno molto esteso, che coinvolse migliaia di persone e che ebbe moltissimi fiancheggiatori nel meridione e che fu espressione di un profondo disagio maturato in ampi strati della popolazione meridionale all'indomani dell'unificazione.
I briganti erano il simbolo del malcontento dei contadini e della massa popolare che aveva attivamente partecipato ai moti risorgimentali nella speranza d'ottenere cambiamenti importanti sotto il profilo economico e sociale e che era ora delusa nelle sue aspettative. L'annessione piemontese non aveva infatti portato per loro nessun miglioramento della situazione, lasciando immutati i rapporti di forza tra popolo e i ricchi borghesi proprietari della terra: dall'unità anzi erano venuti per loro solo danni, poiché era stato introdotto la coscrizione obbligatoria e erano state inasprite le tassazioni.
A questa sollevazione popolare le istituzioni italiane - che erano controllate in larga maggioranza da piemontesi - avevano reagito con grande durezza, inviando più della metà dell'esercito nelle zone dove operavano gli insorti, con l'autorizzazione ad applicare severissime norme di guerra che prevedevano ergastoli e fucilazioni per gli insorti.
Bloccati i tentativi insurrezionali, i successivi dieci anni non portarono significativi miglioramenti all'economia meridionale, che anzi entrò in una fase ancora più critica con la crisi agraria che investì l'Europa sul finire degli anni ottanta a causa dell'invasione sul mercato dei prodotti americani, resi ora disponibili dalla velocizzarsi del trasporto su nave e da prezzi di produzione assai competitivi.
La crisi agricola e l'assenza pressoché totale di sviluppo industriale resero dunque evidente il deficit economico meridionale e indussero intellettuali e uomini politici ad interrogarsi sui motivi di questa persistente arretratezza che non accennava a diminuire ma anzi sembrava amplificarsi con il trascorrere degli anni.
Il primo ad interrogarsi risolutamente sulla questione meridionale fu Pasquale Villari che nel 1875 pubblicò le "Lettere Meridionali". Uomo della destra storica, il Villari denunciò lo stato di crisi in cui versava il mezzogiorno, indagando soprattutto sull’inefficienza e la debolezza delle istituzioni politiche, che non erano riuscite a radicarsi nel territorio. La difficile situazione del meridione poteva essere risolta, a suo parere, solo riavvicinando il governo ai contadini meridionali, operando quindi una netta svolta nella politica della Destra storica, che per raggiungere il pareggio di bilancio non aveva esitato ad imporre tassazioni impopolari al contadiname, cosa che aveva creato forti tensioni con il proletariato agrario e industriale sia del nord che del sud Italia.
Il vero soggetto su cui si doveva puntare per una trasformazione radicale della situazione meridionale era però per il Villari la borghesia terriera, che doveva essere persuasa al cambiamento, secondo la formula già utilizzata in Inghilterra dai conservatori inglesi che avevano inteso che era necessario “riformare per conservare”. La tesi del Villari però difettava nella mancanza di analisi delle vere ragioni della persistenza di modelli semifeudali nella società meridionale e soprattutto era incapace di cogliere il ruolo ormai secondario che avrebbe svolto l’agricoltura nel sistema economico e sociale italiano degli anni a venire.
Più approfondite e scientificamente più fondate risultavano invece le analisi prodotte da Franchetti e Sonnino negli anni immediatamente successivi.
Sonnino concentrava la sua attenzione sulla realtà siciliana indagandone l’organizzazione della proprietà e i rapporti di produzione e derivando da quest’analisi le strategie per il miglioramento della situazione. Sonnino, aristocratico e colto conservatore, era scandalizzato dalle pratiche sociali ed economiche adottate dalla borghesia terriera meridionale, interessata solo a sfruttare al massimo le proprie risorse e i propri dipendenti. Il problema del Mezzogiorno, sosteneva giustamente Sonnino, era la permanenza a livello economico ma anche sociale della proprietà latifondista di origine feudale, che impediva lo sviluppo di una moderna economia di mercato.
Per risolvere la crisi, Sonnino sosteneva la necessità di una moderata riforma dei patti agrari e più in generale intendeva esportare nel sud Italia il modello mezzadrile in vigore in Toscana. Proprio in questa aspirazione a riproporre il modello paternalistico toscano - di cui egli stesso era interprete - stava il grave limite dell’analisi sonniniana, incapace di comprendere l’enorme diversità di ispirazioni e storia tra l’alta borghesia settentrionale e quella meridionale, interessata solo “ alla massima accumulazione di capitale”. Nella storia dell’economia italiana e in quella della questione meridionale, un momento particolarmente importante è quello della svolta protezionistica del 1887.
Il provvedimento viene varato sulla scorta di quelli approntati da quasi tutte le nazioni europee - con l’eccezione inglese- nello stesso periodo e che sono volti sia a tentare di porre un argine alla crisi agraria che al rafforzamento della produzione industriale, considerata adesso un elemento chiave per lo sviluppo delle economie nazionali. Le tariffe protezionistiche rendono difficile l’importazione di merci e favoriscono in tal modo l’industria nazionale che può immettere sul mercato interno i propri prodotti senza doversi preoccupare della concorrenza straniera. Si tratta di provvedimenti che rendono possibile grandi accumulazioni di capitali all’industria, che si giova anche delle commesse statali per le opere pubbliche e per le forniture militari, e che però penalizzano notevolmente i semplici cittadini, costretti ad acquistare merci a prezzi più elevati che in passato, quando vigeva un sistema di concorrenza.
La fine dell’economia liberista segna anche l’avvento del mito della forza della nazione, alla quale i governi decidono di sacrificare il benessere dei cittadini: il bene comune appare ora un valore superiore della volontà del singolo. In Italia, il provvedimento ha notevoli ripercussioni anche sullo sviluppo economico del sud Italia. Al nord infatti esiste, almeno in nuce, una struttura industriale pronta a cogliere i benefici derivanti dalle tariffe protezionistiche e anzi è proprio la classe imprenditrice del nord a domandare l’applicazione di queste leggi. Al sud, al contrario, non esistono poli industriali di rilievo, perché i pochi presenti sono stati spazzati via dalla concorrenza sorta durante i primi anni di libero mercato. La tariffa protezionistica avvantaggia in questo senso indubbiamente il nord Italia, amplificando le distanze con il mezzogiorno.
Eppure, a varare queste tariffe, è il primo governo della Sinistra Storica, guidato da De Pretis, politico di origine meridionale, ed espressione del crescente peso politico delle regioni del sud d’Italia. Perché dunque i politici meridionali accettano passivamente questo blocco protezionista che affossa l’economia meridionale? Si tratta di una delicata fase di passaggio, in cui viene formandosi l’alleanza tra classi sociali che controllerà il paese per molti anni a venire. La tariffa protezionistica, che è estesa anche alla produzione agricola, legherà indissolubilmente la proprietà terriera meridionale e la proprietà industriale e capitalistica settentrionale. La borghesia latifondista del sud viene avvantaggiata da dazi doganali che mantengono forzatamente competitiva la produzione agricola sul mercato interno, anche se questa si basa su processi di produzioni arcaici e arretrati.
La produzione di cereali, che ad esempio sarebbe stata spazzata via dalla concorrenza dei prodotti americani, si mantiene viva proprio grazie alla protezione doganale. L’accordo tra produttori del nord e latifondisti del sud ha però conseguenze estremamente negative per il meridione. Il vecchio sistema di sfruttamento economico in vigore al sud viene artificialmente mantenuto in vita e con esso si cristallizza anche l’arcaico sistema sociale già descritto e criticato da Sonnino. La proprietà agraria meridionale continua nel suo sfruttamento della classe contadina e nei suoi atteggiamenti feudali, conservando e anzi rafforzando il proprio potere politico attraverso l’alleanza con gli industriali del nord.
Ma questi ultimi hanno in realtà la guida del paese e costituisco il settore più moderno e avanzato dell’economia italiana e lentamente al nord l’incremento della produzione industriale dà benefici anche al proletariato industriale, seppure attraverso numerosi momenti di crisi, come quello attraversato a fine secolo. Il consolidarsi del blocco di potere dominante non impediva tuttavia l’emergere di voci di dissenso, che riproponevano il problema dell’arretratezza del mezzogiorno. A contestare l’insano equilibrio provvedevano talvolta esponenti della stessa borghesia agraria meridionale, che rifiutavano il modello di sviluppo economico italiano: due di questi erano Giustino Fortunato e Antonio De Viti De Marco. Giustino Fortunato si preoccupò inizialmente di tracciare un quadro della situazione meridionale basandosi su strumenti d’indagine di tipo positivista.
L’esigenza di combattere il diffuso razzismo verso i meridionali - accusati di pigrizia e indolenza - e di sfatare il mito del sud come terra opulenta, lo indusse ad una descrizione minuziosa della realtà fisica del meridione. L’arretratezza del meridione era dunque almeno in parte dovuta alle difficoltà ambientali che dovevano affrontare i suoi abitanti, come i terreni argillosi e cretosi, le lunghe siccità, la malaria e l’isolamento geografico. Ovviamente lo stesso Fortunato era consapevole che da solo quest’argomento era insufficiente per rendere conto delle difficoltà in cui versava il meridione, ma lo utilizzava per spazzare il campo da facili pregiudizi che si andavano diffondendo anche per la crescente popolarità delle tesi di Lombroso. Fatte queste premesse Fortunato procedeva ad una analisi critica della situazione, accusando anch’egli la borghesia meridionale per la totale mancanza d’intraprendenza economica.
Dapprima Fortunato ritenne di poter individuare nello Stato unitario il motore della trasformazione meridionale, attraverso un nuovo orientamento della politica fiscale e doganale e tramite l’onesta amministrazione della cosa pubblica. Ma presto questa speranza in uno Stato “ così forte di autorità e di mezzi da condurre tutto il popolo italiano sulle vie della coltura della morale della pubblica ricchezza” venne meno e Fortunato ricerco altrove i possibili correttivi della situazione. Ripose quindi le sue speranze nello sviluppo di una economia pienamente liberista ma dovette ammettere che vane erano le speranze nelle “libere energie vitali” della borghesia meridionale. Fu così che egli si orientò su posizioni decisamente pessimistiche, nel quale come ha scritto Franco Gaeta “ a lui non sarebbe stato possibile che abbracciare un pessimismo radicale e virile nel quale la condanna della borghesia meridionale avrebbe fatto tutt’uno con la censura apposta a tutto il processo risorgimentale.
Anche Antonio De Viti De Marco, grande produttore vitivinicolo pugliese, ripose le proprie speranze nel liberalismo economico come strumento della trasformazione del meridione. Egli criticò il recente sviluppo capitalistico italiano, sostenendo che esso era avvenuto avvantaggiando il nord a discapito del sud e che l’intero processo era patologico e artificioso perché avvenuto in deroga ai principi liberali. Nella sua idea la fine del protezionismo avrebbe permesso lo sviluppo di una agricoltura capitalistica anche nel sud Italia, liberata dalle pastoie. La tesi di Antonio De Viti De Marco era però inficiata da un grave errore prospettico, perché prevedeva e auspicava per l’Italia e non solo per il meridione uno sviluppo economico basato sulla prevalenza dell’agricoltura a discapito di quello industriale che, se applicato, avrebbe condannato l’Italia al sottosviluppo.
Tesi completamente opposta era invece sostenuta ad inizio secolo da Francesco Saverio Nitti, che nel primo dopoguerra diventerà presidente del consiglio. Pur senza concessioni all’autocommiserazione vittimistica, Nitti sottolineava come la povertà del meridione fosse in parte determinata da un processo di unificazione che aveva sottratto ricchezze al sud attraverso la tassazione per riversarle sotto forma di spese pubbliche al nord Italia. L’analisi di Nitti, parzialmente veritiera, non conduceva però ad una assoluzione della borghesia meridionale, i cui modi venivano anzi duramente criticati: ”E’ innegabile che politicamente i meridionali abbiano rappresentato un elemento di disordine. Le loro amministrazioni locali vanno, d’ordinario, male; i loro uomini politici non si occupano, nel maggior numero, che di partiti locali”. Come modificare la situazione che vedeva il sud-Italia arretrato economicamente ma anche politicamente e socialmente?
La risposta di Nitti era nello sviluppo dell’industria anche nel meridione. La trasformazione industriale avrebbe modificato anche la società, stimolando la nascita di una borghesia produttiva. E per sviluppare l’industria, occorreva una decisa azione del governo, che doveva sopperire alla mancanza di capitali disponibili per gli investimenti. Come fare? Lo Stato avrebbe dovuto anzitutto varare una riforma tributaria che favorisse gli investimenti produttivi nel sud soprattutto da parte dell’industria settentrionale che era in fase espansiva e aveva capitali da investire, oltre che tecnici e imprenditori capaci di avviare il progetto.
Aspetto principale della riforma proposta da Nitti era l’avviamento di un processo di industrializzazione di Napoli, città che stava attraversando un crescente degrado:
“ Il disordine della vita pubblica quale esso sia, è poca cosa di fronte al disordine profondo, alla depressione crescente della vita economica[...] Molte sono le forze ritardatrici: poche e scarse quelle che operano in senso utile. La borghesia è composta in gran parte da avvocati e medici: di classi che vivono dunque di due calamità sociali: la lite e la malattia; mancano, fatte pochissime eccezioni, elementi industriali operosi.”Napoli doveva dunque trasformarsi in un polo industriale capace di dare nuovo respiro all’economia meridionale e per farlo era necessario un deciso intervento dello Stato, che in deroga ai principi liberali avrebbe potuto ad esempio municipalizzare la produzione energetica per favorire lo sviluppo di nuovi stabilimenti.
Ma il progetto nittiano venne realizzato solo in parte, con la costruzione della acciaierie di Bagnoli, che però non modificarono né l’economia cittadina né tantomeno la situazione economica complessiva del meridione. L’irrisolta questione meridionale continuò così a tormentare le coscienze degli uomini politici e soprattutto degli intellettuali del sud Italia. Nuove ipotesi e nuovi studi furono intrapresi da Gaetano Salvemini, allievo di Villari a cui succedette alla cattedra di Firenze. Salvemini si interessò per tutta la vita alla questione meridionale e pertanto le sue tesi e prospettive risentono dei diversi orientamenti politici e intellettuali di una lunga carriera.
Inizialmente collocato su posizioni marxiste, Salvemini fu tra i primi a parlare del ruolo che le masse contadine avrebbero potuto e dovuto assumere nel processo di trasformazione del meridione. Lo storico pugliese fu uno dei primi meridionalisti a guardare ai contadini non come una massa inerte incapace di storia ma come un soggetto determinante per cambiare la società e l’economia del sud Italia. L’idea di dare ai contadini l’opportunità di incidere sulla loro storia rimase punto fisso del pensiero di Salvemini, anche quando si spostò da posizioni marxiste a posizioni democratiche ispirate alle idee federaliste del Cattaneo. Il suffragio universale gli apparve come il metodo più idoneo per dar voce alle masse meridionali e per molti anni si batté per veder realizzato questo progetto politico, che si compì nel 1914, alla vigilia della prima guerra mondiale.
L’approvazione del suffragio universale maschile ebbe come conseguenza l’affermarsi del Partito Socialista e del Partito Popolare alle elezioni politiche del 1919. E se il Partito Socialista faticò a lungo, sia prima che dopo queste elezioni, ad affrontare con rigore la questione meridionale e a presentare ipotesi congiunte per una sua risoluzione, Don Luigi Sturzo fu uno dei più lucidi interpreti di questa realtà nei primi anni del novecento. Il fondatore del Partito Popolare sostenne la necessità di difendere e rafforzare la piccola proprietà contadina meridionale, in cui vedeva l’unica forza capace di opporsi con successo ai latifondisti assenteisti. Sturzo intendeva favorire la nascita e lo sviluppo “di quel ceto medio economico, che è molto limitato nel mezzogiorno, e che è uno dei nessi connettivi più saldi della società.”
Con questa politica egli si opponeva sia al conservatorismo di destra che al rivoluzionarismo di sinistra. Rispetto al primo, il suo progetto prevedeva il coinvolgimento di quelle masse che invece era aborrito dal liberalismo conservatore di un Salandra o di un Sonnino; rispetto ai socialisti, che andavano reclutando nelle file delle confederazioni sindacali i braccianti e il proletariato urbano, si proponeva come alternativa di stabilità sociale contro gli intenti rivoluzionari dei primi. Se Sturzo in perfetta sintonia con l’ispirazione cattolica del suo partito rifuggiva la conflittualità di classe come strumento di trasformazione del Mezzogiorno, Antonio Gramsci si muoveva in direzione esattamente opposta. Il fondatore del partito comunista italiano s’ispirava ai principi rivoluzionari leninisti e agli esiti della rivoluzione russa per proporre la rivolta delle classi contadine come unico strumento di emancipazione del meridione.
Con il testo Alcuni temi della questione meridionale apparso sulla rivista ”Stato Operaio“ del 1930 Gramsci poneva i problemi del meridione al centro della sua analisi dell’intera storia italiana. Propriamente la questione meridionale diveniva parte della questione italiana e la crisi del sud era per Gramsci l’esito del fallimento dell’intero capitalismo italiano. La povertà del sud era il risultato dello sfruttamento da parte dei capitalisti del nord, che prosperavano alleandosi con la borghesia agraria meridionale. Proprio perché problema di carattere nazionale e non solo locale la sua risoluzione avrebbe portato l’intero paese su posizioni rivoluzionarie. Non era stato questo l’esito della rivoluzione russa?
Come i contadini s’erano accordati con i proletari e avevano condotto sotto la guida dei bolscevichi la battaglia rivoluzionaria, così poteva accadere in Italia. Anzi, secondo il dettame leninista il moto propulsivo rivoluzionario non sarebbe più giunto – come sosteneva Marx - dal proletariato industriale ma dalle masse contadine impoverite: la rivoluzione era più facile in paesi più arretrati che in paesi industrialmente più avanzati. In Italia la società socialista sarebbe stata imposta da un nuovo blocco di potere capace di bilanciare e sopravanzare il vecchio blocco agrario-industriale: l’alleanza tra proletariato del nord e le masse contadine del sud, secondo l’ordine lanciato nella terza internazionale.
Ma Gramsci era consapevole che il consenso delle classi meridionali era difficile da conquistare e che al nord bisognava sconfiggere il razzismo verso i meridionali, che era assai diffuso sin dall’epoca unitaria. Il problema principale per il partito comunista era comunque quello di penetrare tra le masse contadine del sud, diffidenti verso esiti rivoluzionari, socialmente frammentate e assoggettate agli intellettuali.
La borghesia intellettuale meridionale – notai, medici, avvocati, insegnanti - era infatti secondo Gramsci la custode e la garante del potere dei capitalisti del nord, a cui assicurava la pace sociale nel meridione ottenendone in cambio incarichi all’interno delle amministrazioni locali e favori clientelari. Per Gramsci, anche grandi intellettuali come Croce con il sostegno dato al mito del buon governo costituivano un sostegno irrinunciabile per il mantenimento della status quo meridionale, narcotizzando quelle istanze rivoluzionarie delle masse contadine che sole avrebbero potuto risolvere il problema del mezzogiorno.
Con le riflessioni di Gramsci finiva la prima parte del dibattito sulla questione meridionale, perché il fascismo, pur approntando misure speciali per cercare di risolvere la situazione, non fu mai disponibile ad una pubblica e sincera disamina della questione. Solo con la nascita della Repubblica, il dibattito riprenderà vigore.

BIBLIOGRAFIA
Il mito del buongoverno. La questione meridionale da Cavour a Gramsci, di M.L. Salvadori - Einaudi, Torino 1981.
Il sud nella storia d’Italia, di R. Villari - Laterza, Roma-Bari 1984
Le lettere meridionali ed altri scritti sulla questione sociale in Italia, di P.Villari - Loescher, Torino 1971
Il mezzogiorno e lo stato italiano, di G. Fortunato - Vallecchi, Firenze 1973
Napoli e la questione meridionale, di F.S. Nitti - Laterza, Bari 1958
La questione meridionale, di A. Gramsci - Editori Riuniti, Roma 1966