domenica 26 ottobre 2008

I SOFISTI

I SOFISTI

Lo sviluppo dei Sofisti ad Atene è legato a fattori filosofici e politici:
la filosofia sulla natura è arrivata ad una fase di stallo, tutto ciò che era da dire era già stato detto;
la crisi, dovuta al maggiore controllo del demos, in particolare con l'età di Pericle, porta all’abolizione dei valori tradizionali.
Il primo interesse dei Sofisti è la rottura con la tradizione giuridica, sociale, culturale, religiosa, fatta di regole insensate, basate sulla forza dell'autorità e del mito. Essi vengono perciò etichettati anche come "precursori dell'Illuminismo".
I sofisti ("i sapienti") erano dei maestri di virtù che si facevano pagare per i loro insegnamenti. Per tale motivo furono criticati aspramente dai loro contemporanei, soprattutto da Socrate (e poi da Platone e Aristotele) vennero chiamati offensivamente prostituti della cultura. In realtà la figura del sofista si pone in questo senso come precursore dell'educatore e dell'insegnante, in quanto si guadagnava da vivere vendendo il suo sapere. Coloro che maggiormente si affidarono agli insegnamenti di questi filosofi sono i ceti aristocratici. Essi furono i primi ad elaborare il concetto occidentale di cultura (paideia), non intesa come un insieme di conoscenze specializzate, ma come la formazione di un individuo nell'ambito di un popolo o di un contesto sociale. La retorica è l'argomento centrale del loro insegnamento; mediante la carica persuasiva della parola, infatti, essi insegnano la morale, le leggi, i sistemi politici. Educano quindi i giovani a diventare cittadini attivi, cioè avvocati o militanti politici; ma per essere cittadini attivi, oltre ad avere buone conoscenze, bisogna anche essere convincenti, perciò la retorica è alla base della sofistica. I sofisti, a differenza dei filosofi greci precedenti, non si interessano alla cosmologia e alla ricerca dell'arché originario, ma si concentrano sulla vita umana, diventando così i primi filosofi morali.
Ci sono due generazioni di sofisti:
Grandi sofisti: Protagora, Gorgia, Prodico e Ippia
Seconda generazione
Sofisti naturali: quelli che si interessano del rapporto natura-uomo,
Sofisti politici: Crizia, Trasimaco, Licofrone, Callicle
Eristi: portano all’esasperazione il metodo: Antifonte, Crizia, Menone.

Schema dei rapporti fra Socrate, i sofisti, Platone


PROTAGORA

A partire dalla metà del V secolo a.c. diverse città della Grecia vengono attraversate da nuovi personaggi: i sofisti. Il termine "sofista" significa letteralmente "colui che fa professione del proprio sapere". Molti sono i professionisti che mettono in vendita il loro sapere (gli artigiani o i medici, per esempio), ma i sofisti sostenevano che il loro sapere fosse ben più importante rispetto a quello degli artigiani o dei medici, giacché il loro è il sapere che consente di prendere parte con successo alla vita pubblica della città, quando si accede alle magistrature. Tutto questo trova fondamento nel termine aretè, la capacità di eccellere nella condotta pubblica e privata. In questo senso i sofisti si presentano come maestri di virtù. E' chiaro che questo sapere risulta importantissimo in contesti politici in cui le decisioni sono affidate alla totalità dei cittadini, come appunto avviene nella polis del V secolo a.C. Era dunque un sapere indispensabile soprattutto nelle democrazie. Ma il fatto che i sofisti si facciano pagare molto, fa sì che i loro clienti siano soprattutto giovani di famiglie agiate (Platone non potrà tollerare che essi facciano del sapere una materia vendibile e li definisce sprezzantemente "cacciatori di giovani ricchi", scrivendo un dialogo – il Sofista – contro di loro: certo per Platone la vita era più facile, visto che era ricco di famiglia e non aveva bisogno di farsi pagare per insegnare). Tra i sofisti spicca la figura di Protagora: egli nacque ad Abdera, in Tracia, verso il 480 a.C., svolse la sua attività di insegnamento girovagando per le città, soggiornando più volte ad Atene. Nel 444 Pericle diede avvio alla fondazione della colonia panellenica di Turii, in Italia meridionale, e Protagora prese parte al progetto di legislazione della città. Nel 411 diede pubblica lettura ad Atene del suo scritto Sugli dei e fu accusato di empietà e dovette così lasciare la città. La tradizione vuole che Protagora sia morto in un naufragio. All'attività orale di insegnante Protagora affiancò l'insegnamento mediante lo scritto; egli non fu autore di un'unica opera, ma di parecchie: Discorsi demolitori, Le antilogie, Sull'essere e scrisse pure a riguardo dei saperi tecnici. Protagora è passato alla storia per la sua celebre affermazione: "l'uomo è misura di tutte le cose, di quelle che sono in quanto sono, e di quelle che non sono in quanto non sono". E' difficile comprendere fino in fondo che cosa intendesse Protagora con "uomo" (l’uomo singolo? Il genere umano?). Con questa frase si sottolinea l'assoluta relatività della verità: si fa notare che ciascuno vede le cose alla sua maniera e in modo diverso rispetto agli altri; se io dico che una bevanda è dolce ed un altro dice che è amara, chi ha ragione dei due? Bisognerebbe avere un parametro che dice la verità, se è dolce o amara, il che è impossibile. Se io la sento dolce e un altro la sente amara, l'unica cosa da fare è chiedere il parere ad un terzo, ma non vi è mai un vero paragone con la cosa in questione. Per Protagora non si può trovare una verità assoluta: non si può stabilire se la bevanda è davvero dolce o se è amara: per me è amara, e per l'altro è dolce: o meglio, per chi la sente dolce è dolce, per chi la sente amara è amara: la verità è soggettiva. Non posso negare che sia amara a chi la sente amara solo perchè io la sento dolce: non c'è una verità generale, ognuno la vede a proprio modo. Non si possono cogliere le cose come realmente sono, ma solo come appaiono all'uomo, ovvero come riesce a percepirle. Le cose per me sono come a me appaiono: sento dolce il miele e, dunque, per me il miele è dolce. Però si fa notare che non tutte le affermazioni sono uguali: esse si distinguono sul piano pratico, poiché se, nel caso della bibita, non posso stabilire se è dolce o amara, tuttavia posso affermare che il dolce è meglio dell'amaro. Ma Protagora non restringe il significato di misura alla sola dimensione dell'esperienza percettiva delle cose. L'esperienza personale di ciascun individuo è più ampia delle singole sensazioni; essa non riguarda soltanto l'istante in cui avviene la singola percezione, bensì l'intera vita dell'individuo. In questo quadro si comprende meglio la portata dell'altra celebre affermazione di Protagora: "riguardo agli dei, non ho la possibilità di accertare né che sono, né che non sono, opponendosi a ciò molte cose: l'oscurità dell'argomento e la brevità della vita umana". Di talune cose, dunque, come per esempio degli dei, non si ha esperienza personale diretta (com'era invece nel caso della bevanda). Di queste cose non si può dire che l'uomo sia misura. L'esperienza personale , d'altronde, differenzia gli individui tra loro, anche per le diverse situazioni ambientali, culturali e politiche nelle quali essi vivono. In questa prospettiva si inquadra in modo centrale la collocazione dell'individuo nella città . La città è interpretata da Protagora come complesso apparato educativo, il quale mira a garantire la conservazione della città stessa mediante la trasmissione dei valori che ne sono alla base. Non potendo più disporre degli dei come termine di differenziazione per caratterizzare l'uomo (infatti ha detto di non conoscere come gli dei siano), Protagora individua questa differenziazione rispetto agli animali. Egli riconosce un'inferiorità dell'uomo rispetto alla specie animale per quanto riguarda le doti naturali, ma ravvisa nelle tecniche lo strumento che ha consentito all'uomo di capovolgere questa situazione svantaggiosa di partenza. Ma Protagora colloca al di sopra delle varie tecniche agricole e artigianali la tecnica politica, che è prerogativa di tutti i membri di una comunità. E' appunto la tecnica politica, ossia l'insieme di giustizia e di rispetto degli altri , che la città provvede a trasmettere, prima con l'insegnamento e poi con le leggi, a tutti i suoi membri a partire dall'infanzia. Ma se il veicolo fondamentale per la trasmissione dell'insegnamento etico/politico è la città, resta ancora spazio per l'insegnamento del sofista? Il fatto che individui diversi abbiano esperienze personali diverse non implica che essi debbano per forza sempre divergere nelle loro opinioni su certe cose. Protagora non assume una posizione solipsistica, non rinchiude ogni individuo in se stesso, in una sfera di incomunicabilità con gli altri. Egli ritiene invece che sussistano spazi di accordo possibile tra gli individui. Qui il sofista può innestare la sua opera, contribuendo all'azione educativa della città. Lo strumento principale con cui lavora il sofista è il linguaggio, che può avere efficacia persuasiva facendo appello alle esperienze personali dei singoli e contrapponendo non vero e falso, ma utile e dannoso sia per il singolo sia per la comunità. Protagora afferma che "intorno ad ogni oggetto ci sono due ragionamenti contrapposti". Questa contrapposizione non sta a significare che uno di essi sia vero e l'altro falso, in quanto ogni discorso non è che la formulazione dell'esperienza personale di ciascuno, la quale (per il relativismo assoluto) è sempre vera. Ma sul piano dei valori, che sono alla base di una città, i due discorsi non si equivalgono: in ultima istanza è la comunità che decide su quanto è giusto e su quanto è dannoso. Il sofista insegna ad usare il linguaggio in modo conforme ed utile alle esigenze della città, per esempio nell'assumere decisioni collettive, dove può anche essere importante "render più forte l'argomento più debole". In questa prospettiva, Protagora innesta la sua opera di specialista, analoga a quella del medico o dell'artigiano, e procede alla distinzione di vari tipi di discorsi, studiando le loro proprietà, i generi dei nomi, i tempi verbali... Il linguaggio cessa di essere uno strumento usato inconsapevolmente e diventa esso stesso oggetto di indagine e d'insegnamento: il celebre motto dei sofisti diventa "la parola può tutto". Proprio sulla nozione di relatività era incentrata la più famosa delle tesi di Protagora, trasmessaci da Platone nel Teeteto (dialogo dedicato a cosa significhi conoscere): "l’uomo è misura di tutte le cose, di quelle che sono in quanto sono e di quelle che non sono in quanto non sono". Questa frase, per l’impiego del termine "sono" e "non sono", sembra inquadrarsi in un contesto vivamente eleatico, anche se viene prospettato chiaramente il criterio per distinguere l’essere da non essere: è l’uomo il metro di misura, sicché Protagora propone un criterio di conoscenza puramente soggettivo. Sarà vero ciò che a me appare tale; viceversa, per lui sarà vero ciò che a lui appare tale, e così via. La conoscenza, in questo panorama, si riduce al sensismo: cosicché il miele appare dolce a chi è sano, ma amaro agli ammalati. Tuttavia, in questo groviglio di verità ciascuna diversa dalle altre e ciascuna non meno valida delle altre, Protagora elabora un criterio per stabilire quale opinione (quella del sano che sente dolce il miele, o quella del malato che lo sente amaro?) sia migliore: tale criterio è incentrato sull’utilità e si risolve, per tornare all’esempio del miele, nell’interrogativo se sia migliore l’opinione di chi è malato o di chi è sano. Naturalmente, si risponderà che è migliore l’opinione del sano, anche se, ad onor del vero, sul piano gnoseologico tutte le opinioni sono equivalenti: le sensazioni si traducono in conoscenza, cosicché la mia opinione, la tua, la sua e così via sono tutte vere, poiché l’uomo è misura di tutte le cose. Contro questa posizione protagorea si schiererà Platone che, nel Teeteto, smonterà l’argomentazione protagorea facendo notare che, se tutto è vero (come asserisce Protagora), allora è anche vero che esistono tesi false; e dato che, appunto, tutto è vero, è anche vero che ciò che dice Protagora è falso.

GORGIA
la vitaGorgia di Lentini è il più notevole rappresentante della antica sofistica dopo Protagora, e il creatore dell'arte retorica. Come date di nascita e morte possono essere assunte orientativamente quelle del 483 e del 375 a. C., morendo quindi ultra centenario. Con l'esercizio e con l'insegnamento dell'arte oratoria, una novità anche per il mondo greco, diventò ricco al punto da poter dedicare, a Delfi, una statua d'oro al dio Apollo. Nel 427 andò ad Atene come ambasciatore di Leontini, in cerca di alleanze contro lo scomodo potere siracusano, e lì si fece apprezzare come retore finissimo trovando imitatori: famoso il suo Epitafio, per commemorare dei soldati ateniesi morti in guerra. Dello stesso avviso non pare Platone che, nel suo Gorgia, lo pone in contrasto critico con Socrate (447, c):
"Ma vorrà poi Gorgia discutere con noi? Perché io vorrei sapere da lui quale è la virtù propria di quest'arte che egli professa e insegna e in che cosa precisamente consista".
E più avanti (449, a):
Socrate - 'Piuttosto, Gorgia, dicci tu stesso come dobbiamo chiamarti e che arte è la tua'.
Gorgia - 'La mia arte è la retorica'.
E ancora, (454/455):
Socrate - Ti sembra che sapere e credere, ossia 'scienza' e 'opinione', siano la stessa cosa?
Gorgia - No; direi che son cose distinte.
Socrate - E diresti bene. Infatti se uno ti domandasse: 'Gorgia v'è una opi nione falsa e una vera?' tu risponderesti di si, credo.
Gorgia - Di si, certo.
Socrate - Ma la scienza può essere falsa e vera?
Gorgia - Assolutamente no.
Socrate - E' proprio vero, quindi, che scienza e opinione non sono la stessa cosa.
Gorgia - Infatti.
Socrate - Eppure vi ha persuasione sia in quelli che hanno scienza che in quelli che hanno solo opinione.
Gorgia - Lo credo bene.
Socrate - Dobbiamo stabilire, pertanto, due specie di persuasione: quella che produce opinione senza il sapere, l'altra che produce scienza.
Gorgia - Hai ben ragione.
Socrate - E allora dimmi, o Gorgia, quale delle due persuasioni produce nei tribunali e nelle altre adunanze la retorica intorno al giusto e all'ingiusto? Quella, cioè, da cui deriva opinione senza sapere, oppure l'altra da cui deriva il sapere?
Gorgia - Evidentemente quella da cui deriva opinione senza sapere.
Socrate - Dunque la retorica, a quanto pare, è produttrice di quella persuasione che induce all'opinione senza il sapere, e non alla scienza del giusto e dell'ingiusto.
Gorgia - Così è.
Socrate - Di conseguenza il retore non insegna nei tribunali e nelle altre adunanze nulla intorno al giusto e all'ingiusto, ma suscita soltanto una semplice credenza. Ed infatti, come potrebbe in così breve tempo insegnare ad una moltitudine di gente cose di così grande importanza?
Gorgia - Sarebbe effettivamente impossibile.

Tale dialogo di Platone induce a riflettere: l'autore ambienta l'incontro nel 427 a.C, cioè quando Gorgia andò in Atene, ma parrebbe composto intorno al 395, dopo cioè l'avvenuta condanna a morte di Socrate; condanna ottenuta dal potere suggestionante della retorica, a danno del giusto Socrate. E il dialogo sopra riprodotto è colmo di rancore: "Quando dicesti che il retore avrebbe potuto servirsi della retorica anche ingiustamente, io rimasi perplesso (...)". L'animo di Gorgia si risentì dello scritto dell'allievo di Socrate che lo vedeva protagonista: il siciliano non avrebbe consentito che la nuova scienza venisse applicata malamente. Fanno fede i suoi componimenti ulteriori. Tra gli altri suoi viaggi vi sono quelli a Fere in Beozia e in Tessaglia, e fu altre volte in Atene. La sua dottrina contiene un intendimento dell'arte oratoria come produttrice di persuasione: non occorre cioè che chi ascolta si convinca che ciò che ode è la verità, bensì è più utile che questi si convinca praticamente, piegandosi alla causa sostenuta dall'oratore.
IL PENSIERO
Come Protagora, anche Gorgia scrisse molto e i suoi scritti erano per lo più orientati verso l'orazione, come il discorso Olimpico, proferito ad Olimpia per invitare i Greci a superare le loro discordie e affrontare uniti i barbari e l'Epitafio, finalizzato ad onorare gli Ateniesi caduti in guerra. Tra i suoi scritti va poi ricordato quello Sul non essere o Sulla natura, il cui titolo capovolge intenzionalmente quello dell'opera di Melisso; molto interessanti risultano anche essere L'encomio di Elena e La difesa di Palamede. Nel Non essere o Sulla natura troviamo le tre tesi fondamentali delle filosofia di Gorgia: 1) l'essere non è; 2) se anche fosse, non sarebbe conoscibile; 3) se anche fosse conoscibile, tale conoscenza non sarebbe comunicabile. Quindi per Gorgia, a differenza di Protagora, tutto è falso. Egli arriva a trarre queste conclusioni esaminando profondamente la filosofia ed in particolare quella eleatica: come gli eleatici, anche Gorgia si serve del ragionamento per assurdo: se l'essere ci fosse, sostiene Gorgia, non dovrebbe avere caratteristiche contraddittorie, come invece gli hanno attribuito gli eleatici. Gorgia ha notato che ci sono troppi contrasti tra i filosofi per quel che riguarda la questione dell'essere, cosicché egli addiviene alla conclusione che l'essere è troppo contraddittorio per esistere.

Nulla c'èSe qualcosa esiste, esso deve essere:
o "essere"
o "non essere"
o "essere" e "non essere" insieme
1. Innanzitutto il "non essere" non è
2. Ora, se l'"essere" fosse "essere", esso sarebbe:
a) o eterno
b) o generato
c) o eterno e generato insieme
a) Ponendo che l'"essere" sia eterno:
se è eterno non ha principio
se non ha principio è infinito
se è infinito non è in nessun luogo
se non è in nessun luogo non esiste
b) Ponendo che l'"essere" sia generato:
non può essere generato dal "non essere", poiché questo non è
non può essere generato dall'"essere", poiché, se così fosse, sarebbe già "essere"
c) Poiché non esistono né l'"essere", né il "non essere", un insieme di "essere" e "non essere" non sarebbe possibile.
Per questi motivi nulla c'è: l'"essere" non esiste.
Egli conclude che "l'essere non è" partendo dalle dimostrazioni che l'essere non è né uno né molti, né generato né ingenerato: sono affermazioni davvero contraddittorie. Ma la conseguenza più interessante e radicale che egli trae è probabilmente quella secondo cui non è possibile comunicare tramite il linguaggio ciò che è. Il linguaggio non ha nulla a che fare con la verità, non è possibile dire ad altri come realmente stiano le cose.

Se anche qualcosa ci fosse, non sarebbe conoscibile
1. Come ciò che si pensa non può essere definito esistente, viceversa neppure l'essere può dirsi di essere pensato.
2. Poi, neanche le cose che si pensano esistono. Infatti, se fosse vero l'inverso (cioè, che le cose che si pensano esistono), allora sarebbe lecito dire che se ci si immagina un asino che vola, di conseguenza si vede l'animale librarsi nell'aria. Ma ciò va contro l'esperienza, per cui non è possibile.
3. Ponendo, però, che il pensato esista, persino ciò che non esiste non può essere pensato. Ma questo non è vero, poiché si pensa anche a cose irreali. Di conseguenza l'essere non può essere pensato.
Gorgia avrebbe sostenuto che se le cose pensate non sono esistenti, allora le cose esistenti non sono pensate: in altri termini, il pensiero non avrebbe un contenuto proprio (poiché ciò che è pensato non esiste) e, per converso, se ne ricaverebbe che ciò che esiste non è pensato. Dunque, dato che penso cose che non esistono (dragoni o uomini volanti), allora ciò significa che il pensato non è in relazione con l’essere e, per converso, che l’essere non è in relazione col pensato. Ammettendo, infatti, per assurdo l’esistenza delle cose pensate, ne conseguirebbe che l’uomo che vola o il carro che procede sul mare (tutti oggetti del mio pensiero) dovrebbero esistere, ma l’esperienza confuta ciò. Se poi dico che il pensiero rispecchia l’esistente, non si spiega perché nel pensiero trovino cittadinanza anche l’uomo che vola o il carro che procede sul mare.

Se anche qualcosa fosse conoscibile, non sarebbe comunicabile agli altri1. Sapendo che le cose esistenti si percepiscono con la vista, l'udito e il tatto, l'unico vero modo per poterle comunicare ad un'altra persona sarebbe farle vedere, udire o toccare quella determinata cosa.
2. Però questo non è possibile, perciò si utilizza la parola.
3. Ma la parola è solo sé stessa, non la cosa che indica, cioè l'"essere". Quindi parola e "essere" differiscono tra loro: la parola non è "essere".
4. Per cui l'essere non potrà essere comunicato ad un altro, né attraverso i
cinque sensi, né attraverso la parola.Il terzo argomento addotto da Gorgia poggia sull’analogia con l’esperienza: giacché i sensi non interferiscono tra loro né si smentiscono a vicenda, si può essere spinti a credere che ciò valga anche per il pensato, cosicché le cose che né vedo né sento né tocco, ciononostante il pensiero mi attesta che esistono. Ma in questo modo mi troverei costretto, ancora una volta, ad ammettere l’esistenza dell’uomo che vola e del carro che procede sul mare. Con Gorgia, quindi, viene per la prima volta messa in discussione la possibilità di conoscere alcunché. Sembra essere una filosofia negativa e pessimista, ma in realtà non è così: il ragionamento conduttore è in sostanza che in assenza dell'essere l'uomo è onnipotente, non ha limitazioni.
Queste tre tesi di Gorgia sono l'anticipazione di quello che sarà il "nichilismo". Gorgia sosteneva che nulla è, se anche fosse non sarebbe conoscibile, se anche fosse conoscibile non sarebbe comunicabile. La verità, dunque, resta per Gorgia inaccessibile: ne consegue che tutto è falso, e non "tutto è vero", come invece credeva Protagora. Tutte le proposizioni possono, ad avviso di Gorgia, essere ribaltate attraverso l’arma della parola, equiparato dal pensatore di Lentini ad una forza irresistibile alla pari del destino dei tragici o della divinità: la parola può tutto. Anche con Gorgia Platone, a cui stava particolarmente a cuore la possibilità di distinguere il vero dal falso, compie un’operazione simile a quella operata nei confronti di Protagora: se tutto è falso, cosa ci vieta di pensare che anche ciò che dice Gorgia lo sia? Ci si è spesso interrogati se Gorgia fosse un nichilista ante litteram o se, piuttosto, volesse esercitarsi con argomentazioni dialettiche al limite del pensabile.
E’ tuttavia certo che l’obiettivo polemico del suo argomentare fosse l’eleatismo: egli si serve, nelle sue argomentazioni, della dimostrazione per assurdo; in altri termini, per dimostrare la verità di A, assume per assurdo che sia vero il contrario (non-A) e, a partire da tale assunzione, si mettono in luce tutte le contraddizioni che ne derivano, a tal punto che si è costretti a riconoscere la falsità di tale assunto (non-A) e ad ammettere la veridicità della tesi di partenza ad essa opposta (A).
Spieghiamoci meglio: se l'essere esiste, l'uomo trova lì un limite alle sue azioni; ma se l'essere non c'è (non è conoscibile) l'uomo non ha limiti. E' su questo presupposto che si basa l'onnipotenza della retorica di Gorgia: se l'essere è ed è conoscibile non si può far conoscere alla gente ciò che si vuole (perchè ci si deve attenere all'essere), ma se non c'è l'essere non si hanno limiti e si può convincere la gente di ogni cosa: chi può dire che una cosa sia falsa se non c'è un qualcosa a cui attenersi (l'essere)? La verità per Gorgia non conta niente perchè non esiste: ciò che conta è la capacità di argomentare. Gorgia era fratello di un medico e diceva che pur non sapendo nulla di medicina, riusciva più lui del fratello a convincere i pazienti ad assumere i farmaci. Il linguaggio è totalmente distaccato dalla verità: esso non consiste nell'enunciazione di conoscenze, bensì nella persuasione.

La retorica e l’arteNell'Elogio di Elena alla parola viene dato il potere di dominare la vita, influenzandone le scelte anche affettive, per cui la donna non ha colpa per quel che è accaduto tra i Greci e i Troiani perché fu spinta dagli dei o dalle parole. E saper accostare parola a parola può determinare la modellatura dell'animo del singolo, come del carattere della folla. La parola può modificare l'anima di chi la ode, e tramite la poesia può anche indurre nuove esperienze.
Per Gorgia la persuasione è indipendente dal valore di verità di ciò che viene detto, dal momento che la parola pronunciata esercita la sua influenza sull'apparato emotivo degli ascoltatori, non sulle loro eventuali capacità intellettive. La potenza della parola è equiparata da Gorgia alla potenza dei farmaci e degli incantesimi magici. Questo risultato può essere ottenuto sulla base di due presupposti. Il primo consiste nel rendersi conto della particolare condizione psicologica in cui si trovano di volta in volta i propri ascoltatori e di valutare il momento opportuno (in Greco kàiros) per parlare e dire determinate cose. Il secondo presupposto consiste nella capacità di usare diversi tipi di discorso appropriati alle circostanze. Il nucleo dell'insegnamento di Gorgia è proprio dato dallo studio delle differenti forme del discorso e della molteplicità delle figure stilistiche da usare Per ottenere gli effetti persuasivi desiderati. Gorgia elabora anche un'interessante teoria a riguardo dell'arte. L'età presofistica era un'età dove la filosofia era prettamente cosmologica, con i sofisti la filosofia assume istanze a carattere antropologico: l'oggetto della ricerca diventa l'uomo e tutto ciò che lo riguarda.
Gorgia parte dal presupposto che noi non possiamo conoscere l'essere: se l'essere esistesse, l'arte sarebbe solo una sua imitazione imperfetta; ma dato che non esiste, da una parte non ho limiti e dall'altra l'arte diventa una mia creazione. Dato che non c'è un vero mondo (l'essere non c'è), l'artista è un creatore di mondi: per Gorgia il buon artista è quello che riesce ad ingannare gli spettatori, e il buon spettatore è quello che si lascia ingannare dall'artista: tutto questo perchè l'essere non c'è.
Fu dunque grazie a Gorgia che la retorica si arricchì del lato più tecnico e formale della retorica, ed in questo modo l’oratoria venne in seguito ad assumere caratteristiche distinte e ben precise in base alle finalità verso le quali era diretta. Si formarono così i “generi” specifici della retorica: quello giudiziario, tipico delle perorazioni nei tribunali; quello deliberativo, praticato dagli oratori politici per convincere le folle a seguirli, ed infine quello epidittico (detto anche dimostrativo), che veniva impiegato in massima parte durante le occasioni a carattere ufficiale e che trovò impiego anche per la creazione di discorsi fittizi, utile strumento di esercizio per il retore consumato e più tardi semplice componimento “di maniera”.

La politicaUna domanda che ci si è sempre posti analizzando Gorgia e tutti i sofisti, è se essi fossero politicamente conservatori o rivoluzionari. Politicamente Gorgia ha idee tipicamente conservatrici: alla domanda "che cos'è la virtù?", egli rispondeva nel più tradizionale dei modi: "i giovani devono fare questo, i vecchi quello, le donne quell'altro....". Come mai un tipo innovativo come Gorgia seguiva la tradizione? Egli segue la tradizione perchè se non si ha un criterio per stabilire ciò che è giusto e ciò che è sbagliato (dato che l'essere non c'è), la cosa migliore da fare è seguire la tradizione, ciò che ci è stato tramandato dagli avi. Nonostante questo, i sofisti (ed in particolare Gorgia) rimangono rivoluzionari perchè seguono la tradizione solo perchè fa loro comodo. Nell'ambito sofistico emersero poi due diverse interpretazioni sul binomio convenzione - natura: esistono due tipi particolari tipi di leggi, quella decretata dalla natura e quella decretata dall'uomo. Facciamo un esempio: per legge della natura, il più forte tende ad avere la meglio sul più debole; ma per la legge artificiale creata dall'uomo, questo non può accadere perchè si è tutti uguali ed è la legge stessa che protegge il più debole dal più forte. Ma quale è quella giusta, quella naturale o quella convenzionale? I sofisti rispondono in maniera differenziata gli uni dagli altri.

CRIZIA



Nato ad Atene all’incirca verso il 460 da nobilissima famiglia (era cugino della madre di Platone), Crizia fu un elemento di spicco nella rivoluzione oligarchica che, dopo la vittoria spartana nella battaglia navale di Egospotami (405 a.C.) - battaglia che segnò la disfatta decisiva per Atene nella Guerra del Peloponneso – soppresse per qualche tempo la democrazia ad Atene. Egli fu uno dei Trenta Tiranni e, più di altri, fu responsabile del clima di terrore che si instaurò ad Atene sotto il loro regime autoritario, nonché delle atrocità da quelli perpetrate a danno di chiunque si fosse opposto al loro regime. Morì nel 403 a.C., combattendo a Munichia contro i democratici capeggiati da Trasibulo, restauratore della democrazia in Atene. E’ quasi certamente da ascrivere alla sinistra fama che Crizia si guadagnò col suo operato politico l’oblio in cui cadde la sua ricca produzione letteraria e filosofica, che comprendeva tragedie, elegie e trattati in prosa. Dei suoi drammi conosciamo solamente quattro titoli (Temnes, Radamanto, Piritoo, Sisifo). Dai frammenti superstiti, è possibile ricavare idee molto sommarie solo sul contenuto del Piritoo e di Sisifo: il primo trattava della discesa all’Ade di Piritoo e di Teseo per riportare alla luce Persefone, colà trattenuta da Ade stesso. Nel secondo, invece, - che trattava le vicende del mitico Sisifo, condannato ad un’eterna ed inutile fatica – è celeberrimo il passo in cui Crizia (il quale fu esponente di spicco della Sofistica schierata "a destra", ovvero in senso decisamente aristocratico e antipopolare) ipotizza che la credenza negli dei sia stata opera di un astuto individuo che, con la paura dell’occulto, volle caricare di sacro timore il diritto e la legge, affinché gli uomini venissero dissuasi dal commettere ingiustizie e crimini. Tale teoria deve essere considerata come la punta più avanzata dell’insegnamento sofistico: in essa coesistono l’idea del carattere convenzionale che presiedette alla nascita della legge e del diritto, e quella della civiltà come prodotto dell’intervento diretto dell’uomo, che con l’invenzione degli dei "che tutto vedono", anche il delitto concepito nel silenzio, è riuscito a superare il tempo in cui la vita umana era senza legge e a regolare la vita era la violenza, cosicché i malvagi non ricevevano punizione alcuna, i buoni non erano in alcun modo premiati. Infatti, come si noterà nella Repubblica platonica con il mito dell’anello di Gige, ci tratteniamo dal commettere azioni ingiuste esclusivamente perché temiamo di essere scoperti e, dunque, puniti: se solo avessimo la garanzia dell’impunità (garanzia che ha Gige, in possesso di un anello che lo rende invisibile), non esiteremmo minimamente a commettere ingiustizia. Proprio in ciò risiede la scaltrezza dell’inventore degli dei di cui parla Crizia: in ogni singolo momento della nostra vita siamo osservati dagli dei, cosicché, per evitare di essere punti, dobbiamo comportarci in conformità delle leggi. Se è vero che agiamo giustamente finché siamo osservati da un’autorità in grado di punirci, allora basterà ipotizzare un’autorità in grado di osservarci ininterrottamente per garantire una condotta irreprensibile: questo è lo scopo per cui sono stati escogitati gli dei, come autorità che ci tengono gli occhi addosso di continuo. Quella di Crizia sull’invenzione degli dèi è una teoria famosa, ripresa di tanto in tanto nei secoli seguenti (ad esempio da alcuni illuministi del Settecento).
Nel dramma satiresco Sisifo Crizia avrebbe esposto nel la sua concezione sull’origine della religione: egli sostiene che la religione è un prodotto assolutamente artificiale dell’uomo; la stessa cosa Prodico sostiene a proposito della legge. Opposta è invece la concezione che i due filosofi hanno della natura umana: per Prodico fondata sull’uguaglianza, per Crizia su uno stato permanente di guerra di tutti contro tutti (l’hobbesiano bellum omnium contra omnes), che troverà espressione nella celebre formula homo homini lupus, usata da Plauto (Asinaria, v. 495) e ripresa nel XVII secolo dal filosofo inglese Thomas Hobbes. La legge – secondo Crizia – si fonda sulla forza, unico strumento per garantire la giustizia. Ma lo stato basato esclusivamente sulla propria capacità repressiva non può esercitare un controllo efficace e continuo su tutti gli uomin. Per questo, secondo Crizia, fu necessario "inventare" la religione, come strumento per garantire l’ordine e la legalità. Crizia, quindi, dimostra di essere stato un attento studioso dei risvolti psicologici della natura umana.
Esponente d’eccezione della sofistica schierata in difesa di un’oligarchia spregiudicatamente interessata a una visione totalmente mondana del potere e della forza, Crizia fu fermamente convinto della superiorità naturale dell’aristocrazia, per la quale non possono esistere scrupoli morali d’alcun tipo. La religione e la legge esistono dunque per convenzione (nomos), non per natura (fusis). Pur disponendo di scarse informazioni in merito, possiamo dire che anche nelle elegie – di cui ci restano scarsissimi frammenti – è presente una fortissima connotazione ideologica di marca aristocratica, che accomuna i versi di Crizia a quelli dell’antico Teognide di Megara. Impronta altrettanto marcata avevano le Costituzioni, un’opera mista di poesia e prosa che trattava di Atene, della Tessaglia e di Sparta (quest’ultima esaltata più d’ogni altra, in virtù dei suoi ordinamenti oligarchici): la famosa Costituzione degli Ateniesi (risalente ai primi anni della Guerra del Peloponneso), nell’opuscolo, viene lucidamente analizzato, da un’angolazione reazionaria, l’assetto istituzionale e sociale della polis ateniese, di cui si riconosce la profonda coerenza e funzionalità in ordine allo scopo che esso si prefigge: assicurare l’egemonia del popolo ai danni dell’aristocrazia. Lo scritto ha struttura dialogica: in esso, i giudizi e le considerazioni dell’esponente della “destra radicale” vengono stimolati man mano dalle larvate obiezioni di un secondo interlocutore (la cui presenza è stata erroneamente cancellata dalla tradizione manoscritta); identificandosi nell’esponente della “destra radicale”, Crizia avrebbe utilizzato gli schemi dialettici tipici del suo maestro Socrate. L’opera si risolve in un’analisi serrata e lucida del regime democratico ateniese, del quale sono messi in evidenza quelli che Crizia ritiene elementi negativi (la mancanza di scrupoli morali nei governanti, la loro ignoranza, la venalità dei giudici, la libertà di parola concessa anche ai meteci e agli schiavi); in questa spietata e feroce valutazione della democrazia ateniese dell’età periclea, Crizia si attesta su posizioni di netta insofferenza per il popolo, inteso come una massa di inferiori che una città saggiamente governata (ovvero retta da un regime aristocratico) non dovrebbe neppure ammettere alle assemblee, ma anzi dovrebbe tenere in schiavitù. La contrapposizione di natura tra aristocratici e plebei è insanabile: il popolo, in quanto rozzo e ignorante, è inadatto a governare la polis.
L’ERISTICA
La Seconda Sofistica o eristica (L'espressione proviene probabilmente da Platone, che utilizzò il verbo erizein, “battagliare”, probabilmente ad indicare l’arte di battagliare con le parole) è una evoluzione della Prima Sofistica di Protagora e di Gorgia. All’eristica, infatti, non interessa se un discorso possa essere vero o falso né le definizioni delle parole che vengono impiegate; il suo unico fine è quello di confutare il proprio avversario e di persuaderlo di avere ragione mediante la retorica. Per questo i secondi sofisti si vantavano di poter confutare qualsiasi cosa che si dica esser vera o esser falsa. In questo senso la tecnica eristica è più simile alla manipolazione che alla persuasione. A causa di queste caratteristiche l’eristica ha finito per influenzare in modo eccessivamente negativo la fama dei sofisti, in particolare quella di Protagora e di Gorgia, il cui contributo importante – in particolare il relativismo culturale e il fenomenismo epistemico – nella storia della filosofia occidentale è stato riconosciuto solo di recente.
La dialettica eristica è il termine preciso che indica una tecnica dialettica utilizzata per sostenere le dispute con l'unico scopo di far prevalere le proprie ragioni su quelle dell'avversario, senza dare importanza alla verità in sé.