mercoledì 22 ottobre 2008

LA QUESTIONE MERIDIONALE

Il grande problema nasce all'indomani dell'unità d'Italia, quando le diverse realtà politico-economiche vengono aggregate sotto la corona sabauda

LA QUESTIONE MERIDIONALE:DAL 1861 DIBATTITI INFINITI
di MARCO UNIA

La questione meridionale nasce all'indomani dell'unità d'Italia, quando le diverse realtà politiche ed economiche della penisola vengono riunificate sotto la corona sabauda. Sin dal 1861 è evidente il profondo squilibrio economico che divide in due l'Italia, che al nord presenta un modello di sviluppo di tipo capitalistico del tutto assente nelle regioni del Mezzogiorno d'Italia. La produzione agricola costituisce ancora la principale attività del paese, ma essa viene praticata in forme diverse nelle regioni italiane, e ciò è ad un tempo effetto e causa della diverse organizzazione sociale vigente nelle due aree sopraccitate. Al nord si va sviluppando una gestione capitalistica delle aziende agricole che ha nel Piemonte e nella Lombardia le regioni trainanti.
Questo modello gestionale prevede l'investimento di cospicue quantità di denaro per l'ammodernamento costante degli strumenti di produzione delle aziende agricole, che ha per conseguenza un costante incremento della produzione e la progressiva meccanizzazione del lavoro. Le produzioni specialistiche del nord Italia - si pensi al riso- vanno allineandosi così agli standard delle più avanzate nazioni europee e sono in grado di presentarsi con successo sui mercati internazionali. Questo sistema di produzione, che viene incentivato dalle politiche liberiste in vigore nel Piemonte sabaudo, richiede e contribuisce a sviluppare una borghesia imprenditrice, disposta ad investire parti consistenti dei propri profitti per l'ammodernamento delle imprese e tende ad estinguere i comportamenti tipici dell'aristocrazia terriera che fondava la propria ricchezza su posizioni di rendita.
Opposta si presenta invece la situazione nel meridione d'Italia negli anni immediatamente a cavallo dell'unità. L'agricoltura non conosce in queste zone alcuna trasformazione di tipo capitalistico, laddove domina invece un tipo di organizzazione e di gestione di chiara origine feudale. Alla media e piccola proprietà diffusa nel centro e nel nord Italia si contrappone al sud l'immensa distesa del latifondo, di proprietà di una borghesia assenteista che ha rivelato non solo le proprietà ma anche gli usi e i modi dell'aristocrazia.
I vastissimi appezzamenti di terreno sono concessi in affitto ai contadini o vengono coltivati facendo ricorso alle masse di braccianti, seguendo tecniche in uso da secoli. Prevale al sud la coltivazione estensiva di grano destinato al mercato interno e all'auto- sostentamento, non competitivo sul piano internazionale per costi e metodi di produzione. La borghesia meridionale non era disposta a reinvestire i propri profitti nelle imprese agricole, che pertanto rimanevano in condizioni di arretratezza produttiva rispetto al nord Italia. L'atteggiamento della borghesia meridionale dell'epoca viene così tratteggiato dallo storico Francesco Barbagallo:
"La classe borghese dei grandi e medi proprietari terrieri nasceva e si rafforzava al di fuori di un reale conflitto con la proprietà nobiliare, anzi aspirava ad imitarne i costumi e le abitudini, e mutava dalla feudalità caratteri e forme del tradizionale sfruttamento della terra e dei contadini. L'appropriazione borghese della terra non comportava il superamento dei rapporti agrari e sociali più arretrati."
Nei primi anni unitari la questione meridionale, intesa come il problema dell'arretratezza economica ma anche sociale e politica del sud, non fu argomento di discussione. Altri problemi infatti sorsero tra il nord e il sud Italia, così gravi da minacciare la stessa unità appena raggiunta. Dal 1861 al 1865 si sviluppò in Basilicata, in Molise, in parte dell'Abruzzo, della Calabria e della Puglia il cosiddetto fenomeno del "brigantaggio". Organizzati in bande i briganti attaccavano i paesi, saccheggiavano negozi e davano fuoco agli edifici comunali, per poi fuggire nelle campagne o sulle alture. Si trattava di un fenomeno molto esteso, che coinvolse migliaia di persone e che ebbe moltissimi fiancheggiatori nel meridione e che fu espressione di un profondo disagio maturato in ampi strati della popolazione meridionale all'indomani dell'unificazione.
I briganti erano il simbolo del malcontento dei contadini e della massa popolare che aveva attivamente partecipato ai moti risorgimentali nella speranza d'ottenere cambiamenti importanti sotto il profilo economico e sociale e che era ora delusa nelle sue aspettative. L'annessione piemontese non aveva infatti portato per loro nessun miglioramento della situazione, lasciando immutati i rapporti di forza tra popolo e i ricchi borghesi proprietari della terra: dall'unità anzi erano venuti per loro solo danni, poiché era stato introdotto la coscrizione obbligatoria e erano state inasprite le tassazioni.
A questa sollevazione popolare le istituzioni italiane - che erano controllate in larga maggioranza da piemontesi - avevano reagito con grande durezza, inviando più della metà dell'esercito nelle zone dove operavano gli insorti, con l'autorizzazione ad applicare severissime norme di guerra che prevedevano ergastoli e fucilazioni per gli insorti.
Bloccati i tentativi insurrezionali, i successivi dieci anni non portarono significativi miglioramenti all'economia meridionale, che anzi entrò in una fase ancora più critica con la crisi agraria che investì l'Europa sul finire degli anni ottanta a causa dell'invasione sul mercato dei prodotti americani, resi ora disponibili dalla velocizzarsi del trasporto su nave e da prezzi di produzione assai competitivi.
La crisi agricola e l'assenza pressoché totale di sviluppo industriale resero dunque evidente il deficit economico meridionale e indussero intellettuali e uomini politici ad interrogarsi sui motivi di questa persistente arretratezza che non accennava a diminuire ma anzi sembrava amplificarsi con il trascorrere degli anni.
Il primo ad interrogarsi risolutamente sulla questione meridionale fu Pasquale Villari che nel 1875 pubblicò le "Lettere Meridionali". Uomo della destra storica, il Villari denunciò lo stato di crisi in cui versava il mezzogiorno, indagando soprattutto sull’inefficienza e la debolezza delle istituzioni politiche, che non erano riuscite a radicarsi nel territorio. La difficile situazione del meridione poteva essere risolta, a suo parere, solo riavvicinando il governo ai contadini meridionali, operando quindi una netta svolta nella politica della Destra storica, che per raggiungere il pareggio di bilancio non aveva esitato ad imporre tassazioni impopolari al contadiname, cosa che aveva creato forti tensioni con il proletariato agrario e industriale sia del nord che del sud Italia.
Il vero soggetto su cui si doveva puntare per una trasformazione radicale della situazione meridionale era però per il Villari la borghesia terriera, che doveva essere persuasa al cambiamento, secondo la formula già utilizzata in Inghilterra dai conservatori inglesi che avevano inteso che era necessario “riformare per conservare”. La tesi del Villari però difettava nella mancanza di analisi delle vere ragioni della persistenza di modelli semifeudali nella società meridionale e soprattutto era incapace di cogliere il ruolo ormai secondario che avrebbe svolto l’agricoltura nel sistema economico e sociale italiano degli anni a venire.
Più approfondite e scientificamente più fondate risultavano invece le analisi prodotte da Franchetti e Sonnino negli anni immediatamente successivi.
Sonnino concentrava la sua attenzione sulla realtà siciliana indagandone l’organizzazione della proprietà e i rapporti di produzione e derivando da quest’analisi le strategie per il miglioramento della situazione. Sonnino, aristocratico e colto conservatore, era scandalizzato dalle pratiche sociali ed economiche adottate dalla borghesia terriera meridionale, interessata solo a sfruttare al massimo le proprie risorse e i propri dipendenti. Il problema del Mezzogiorno, sosteneva giustamente Sonnino, era la permanenza a livello economico ma anche sociale della proprietà latifondista di origine feudale, che impediva lo sviluppo di una moderna economia di mercato.
Per risolvere la crisi, Sonnino sosteneva la necessità di una moderata riforma dei patti agrari e più in generale intendeva esportare nel sud Italia il modello mezzadrile in vigore in Toscana. Proprio in questa aspirazione a riproporre il modello paternalistico toscano - di cui egli stesso era interprete - stava il grave limite dell’analisi sonniniana, incapace di comprendere l’enorme diversità di ispirazioni e storia tra l’alta borghesia settentrionale e quella meridionale, interessata solo “ alla massima accumulazione di capitale”. Nella storia dell’economia italiana e in quella della questione meridionale, un momento particolarmente importante è quello della svolta protezionistica del 1887.
Il provvedimento viene varato sulla scorta di quelli approntati da quasi tutte le nazioni europee - con l’eccezione inglese- nello stesso periodo e che sono volti sia a tentare di porre un argine alla crisi agraria che al rafforzamento della produzione industriale, considerata adesso un elemento chiave per lo sviluppo delle economie nazionali. Le tariffe protezionistiche rendono difficile l’importazione di merci e favoriscono in tal modo l’industria nazionale che può immettere sul mercato interno i propri prodotti senza doversi preoccupare della concorrenza straniera. Si tratta di provvedimenti che rendono possibile grandi accumulazioni di capitali all’industria, che si giova anche delle commesse statali per le opere pubbliche e per le forniture militari, e che però penalizzano notevolmente i semplici cittadini, costretti ad acquistare merci a prezzi più elevati che in passato, quando vigeva un sistema di concorrenza.
La fine dell’economia liberista segna anche l’avvento del mito della forza della nazione, alla quale i governi decidono di sacrificare il benessere dei cittadini: il bene comune appare ora un valore superiore della volontà del singolo. In Italia, il provvedimento ha notevoli ripercussioni anche sullo sviluppo economico del sud Italia. Al nord infatti esiste, almeno in nuce, una struttura industriale pronta a cogliere i benefici derivanti dalle tariffe protezionistiche e anzi è proprio la classe imprenditrice del nord a domandare l’applicazione di queste leggi. Al sud, al contrario, non esistono poli industriali di rilievo, perché i pochi presenti sono stati spazzati via dalla concorrenza sorta durante i primi anni di libero mercato. La tariffa protezionistica avvantaggia in questo senso indubbiamente il nord Italia, amplificando le distanze con il mezzogiorno.
Eppure, a varare queste tariffe, è il primo governo della Sinistra Storica, guidato da De Pretis, politico di origine meridionale, ed espressione del crescente peso politico delle regioni del sud d’Italia. Perché dunque i politici meridionali accettano passivamente questo blocco protezionista che affossa l’economia meridionale? Si tratta di una delicata fase di passaggio, in cui viene formandosi l’alleanza tra classi sociali che controllerà il paese per molti anni a venire. La tariffa protezionistica, che è estesa anche alla produzione agricola, legherà indissolubilmente la proprietà terriera meridionale e la proprietà industriale e capitalistica settentrionale. La borghesia latifondista del sud viene avvantaggiata da dazi doganali che mantengono forzatamente competitiva la produzione agricola sul mercato interno, anche se questa si basa su processi di produzioni arcaici e arretrati.
La produzione di cereali, che ad esempio sarebbe stata spazzata via dalla concorrenza dei prodotti americani, si mantiene viva proprio grazie alla protezione doganale. L’accordo tra produttori del nord e latifondisti del sud ha però conseguenze estremamente negative per il meridione. Il vecchio sistema di sfruttamento economico in vigore al sud viene artificialmente mantenuto in vita e con esso si cristallizza anche l’arcaico sistema sociale già descritto e criticato da Sonnino. La proprietà agraria meridionale continua nel suo sfruttamento della classe contadina e nei suoi atteggiamenti feudali, conservando e anzi rafforzando il proprio potere politico attraverso l’alleanza con gli industriali del nord.
Ma questi ultimi hanno in realtà la guida del paese e costituisco il settore più moderno e avanzato dell’economia italiana e lentamente al nord l’incremento della produzione industriale dà benefici anche al proletariato industriale, seppure attraverso numerosi momenti di crisi, come quello attraversato a fine secolo. Il consolidarsi del blocco di potere dominante non impediva tuttavia l’emergere di voci di dissenso, che riproponevano il problema dell’arretratezza del mezzogiorno. A contestare l’insano equilibrio provvedevano talvolta esponenti della stessa borghesia agraria meridionale, che rifiutavano il modello di sviluppo economico italiano: due di questi erano Giustino Fortunato e Antonio De Viti De Marco. Giustino Fortunato si preoccupò inizialmente di tracciare un quadro della situazione meridionale basandosi su strumenti d’indagine di tipo positivista.
L’esigenza di combattere il diffuso razzismo verso i meridionali - accusati di pigrizia e indolenza - e di sfatare il mito del sud come terra opulenta, lo indusse ad una descrizione minuziosa della realtà fisica del meridione. L’arretratezza del meridione era dunque almeno in parte dovuta alle difficoltà ambientali che dovevano affrontare i suoi abitanti, come i terreni argillosi e cretosi, le lunghe siccità, la malaria e l’isolamento geografico. Ovviamente lo stesso Fortunato era consapevole che da solo quest’argomento era insufficiente per rendere conto delle difficoltà in cui versava il meridione, ma lo utilizzava per spazzare il campo da facili pregiudizi che si andavano diffondendo anche per la crescente popolarità delle tesi di Lombroso. Fatte queste premesse Fortunato procedeva ad una analisi critica della situazione, accusando anch’egli la borghesia meridionale per la totale mancanza d’intraprendenza economica.
Dapprima Fortunato ritenne di poter individuare nello Stato unitario il motore della trasformazione meridionale, attraverso un nuovo orientamento della politica fiscale e doganale e tramite l’onesta amministrazione della cosa pubblica. Ma presto questa speranza in uno Stato “ così forte di autorità e di mezzi da condurre tutto il popolo italiano sulle vie della coltura della morale della pubblica ricchezza” venne meno e Fortunato ricerco altrove i possibili correttivi della situazione. Ripose quindi le sue speranze nello sviluppo di una economia pienamente liberista ma dovette ammettere che vane erano le speranze nelle “libere energie vitali” della borghesia meridionale. Fu così che egli si orientò su posizioni decisamente pessimistiche, nel quale come ha scritto Franco Gaeta “ a lui non sarebbe stato possibile che abbracciare un pessimismo radicale e virile nel quale la condanna della borghesia meridionale avrebbe fatto tutt’uno con la censura apposta a tutto il processo risorgimentale.
Anche Antonio De Viti De Marco, grande produttore vitivinicolo pugliese, ripose le proprie speranze nel liberalismo economico come strumento della trasformazione del meridione. Egli criticò il recente sviluppo capitalistico italiano, sostenendo che esso era avvenuto avvantaggiando il nord a discapito del sud e che l’intero processo era patologico e artificioso perché avvenuto in deroga ai principi liberali. Nella sua idea la fine del protezionismo avrebbe permesso lo sviluppo di una agricoltura capitalistica anche nel sud Italia, liberata dalle pastoie. La tesi di Antonio De Viti De Marco era però inficiata da un grave errore prospettico, perché prevedeva e auspicava per l’Italia e non solo per il meridione uno sviluppo economico basato sulla prevalenza dell’agricoltura a discapito di quello industriale che, se applicato, avrebbe condannato l’Italia al sottosviluppo.
Tesi completamente opposta era invece sostenuta ad inizio secolo da Francesco Saverio Nitti, che nel primo dopoguerra diventerà presidente del consiglio. Pur senza concessioni all’autocommiserazione vittimistica, Nitti sottolineava come la povertà del meridione fosse in parte determinata da un processo di unificazione che aveva sottratto ricchezze al sud attraverso la tassazione per riversarle sotto forma di spese pubbliche al nord Italia. L’analisi di Nitti, parzialmente veritiera, non conduceva però ad una assoluzione della borghesia meridionale, i cui modi venivano anzi duramente criticati: ”E’ innegabile che politicamente i meridionali abbiano rappresentato un elemento di disordine. Le loro amministrazioni locali vanno, d’ordinario, male; i loro uomini politici non si occupano, nel maggior numero, che di partiti locali”. Come modificare la situazione che vedeva il sud-Italia arretrato economicamente ma anche politicamente e socialmente?
La risposta di Nitti era nello sviluppo dell’industria anche nel meridione. La trasformazione industriale avrebbe modificato anche la società, stimolando la nascita di una borghesia produttiva. E per sviluppare l’industria, occorreva una decisa azione del governo, che doveva sopperire alla mancanza di capitali disponibili per gli investimenti. Come fare? Lo Stato avrebbe dovuto anzitutto varare una riforma tributaria che favorisse gli investimenti produttivi nel sud soprattutto da parte dell’industria settentrionale che era in fase espansiva e aveva capitali da investire, oltre che tecnici e imprenditori capaci di avviare il progetto.
Aspetto principale della riforma proposta da Nitti era l’avviamento di un processo di industrializzazione di Napoli, città che stava attraversando un crescente degrado:
“ Il disordine della vita pubblica quale esso sia, è poca cosa di fronte al disordine profondo, alla depressione crescente della vita economica[...] Molte sono le forze ritardatrici: poche e scarse quelle che operano in senso utile. La borghesia è composta in gran parte da avvocati e medici: di classi che vivono dunque di due calamità sociali: la lite e la malattia; mancano, fatte pochissime eccezioni, elementi industriali operosi.”Napoli doveva dunque trasformarsi in un polo industriale capace di dare nuovo respiro all’economia meridionale e per farlo era necessario un deciso intervento dello Stato, che in deroga ai principi liberali avrebbe potuto ad esempio municipalizzare la produzione energetica per favorire lo sviluppo di nuovi stabilimenti.
Ma il progetto nittiano venne realizzato solo in parte, con la costruzione della acciaierie di Bagnoli, che però non modificarono né l’economia cittadina né tantomeno la situazione economica complessiva del meridione. L’irrisolta questione meridionale continuò così a tormentare le coscienze degli uomini politici e soprattutto degli intellettuali del sud Italia. Nuove ipotesi e nuovi studi furono intrapresi da Gaetano Salvemini, allievo di Villari a cui succedette alla cattedra di Firenze. Salvemini si interessò per tutta la vita alla questione meridionale e pertanto le sue tesi e prospettive risentono dei diversi orientamenti politici e intellettuali di una lunga carriera.
Inizialmente collocato su posizioni marxiste, Salvemini fu tra i primi a parlare del ruolo che le masse contadine avrebbero potuto e dovuto assumere nel processo di trasformazione del meridione. Lo storico pugliese fu uno dei primi meridionalisti a guardare ai contadini non come una massa inerte incapace di storia ma come un soggetto determinante per cambiare la società e l’economia del sud Italia. L’idea di dare ai contadini l’opportunità di incidere sulla loro storia rimase punto fisso del pensiero di Salvemini, anche quando si spostò da posizioni marxiste a posizioni democratiche ispirate alle idee federaliste del Cattaneo. Il suffragio universale gli apparve come il metodo più idoneo per dar voce alle masse meridionali e per molti anni si batté per veder realizzato questo progetto politico, che si compì nel 1914, alla vigilia della prima guerra mondiale.
L’approvazione del suffragio universale maschile ebbe come conseguenza l’affermarsi del Partito Socialista e del Partito Popolare alle elezioni politiche del 1919. E se il Partito Socialista faticò a lungo, sia prima che dopo queste elezioni, ad affrontare con rigore la questione meridionale e a presentare ipotesi congiunte per una sua risoluzione, Don Luigi Sturzo fu uno dei più lucidi interpreti di questa realtà nei primi anni del novecento. Il fondatore del Partito Popolare sostenne la necessità di difendere e rafforzare la piccola proprietà contadina meridionale, in cui vedeva l’unica forza capace di opporsi con successo ai latifondisti assenteisti. Sturzo intendeva favorire la nascita e lo sviluppo “di quel ceto medio economico, che è molto limitato nel mezzogiorno, e che è uno dei nessi connettivi più saldi della società.”
Con questa politica egli si opponeva sia al conservatorismo di destra che al rivoluzionarismo di sinistra. Rispetto al primo, il suo progetto prevedeva il coinvolgimento di quelle masse che invece era aborrito dal liberalismo conservatore di un Salandra o di un Sonnino; rispetto ai socialisti, che andavano reclutando nelle file delle confederazioni sindacali i braccianti e il proletariato urbano, si proponeva come alternativa di stabilità sociale contro gli intenti rivoluzionari dei primi. Se Sturzo in perfetta sintonia con l’ispirazione cattolica del suo partito rifuggiva la conflittualità di classe come strumento di trasformazione del Mezzogiorno, Antonio Gramsci si muoveva in direzione esattamente opposta. Il fondatore del partito comunista italiano s’ispirava ai principi rivoluzionari leninisti e agli esiti della rivoluzione russa per proporre la rivolta delle classi contadine come unico strumento di emancipazione del meridione.
Con il testo Alcuni temi della questione meridionale apparso sulla rivista ”Stato Operaio“ del 1930 Gramsci poneva i problemi del meridione al centro della sua analisi dell’intera storia italiana. Propriamente la questione meridionale diveniva parte della questione italiana e la crisi del sud era per Gramsci l’esito del fallimento dell’intero capitalismo italiano. La povertà del sud era il risultato dello sfruttamento da parte dei capitalisti del nord, che prosperavano alleandosi con la borghesia agraria meridionale. Proprio perché problema di carattere nazionale e non solo locale la sua risoluzione avrebbe portato l’intero paese su posizioni rivoluzionarie. Non era stato questo l’esito della rivoluzione russa?
Come i contadini s’erano accordati con i proletari e avevano condotto sotto la guida dei bolscevichi la battaglia rivoluzionaria, così poteva accadere in Italia. Anzi, secondo il dettame leninista il moto propulsivo rivoluzionario non sarebbe più giunto – come sosteneva Marx - dal proletariato industriale ma dalle masse contadine impoverite: la rivoluzione era più facile in paesi più arretrati che in paesi industrialmente più avanzati. In Italia la società socialista sarebbe stata imposta da un nuovo blocco di potere capace di bilanciare e sopravanzare il vecchio blocco agrario-industriale: l’alleanza tra proletariato del nord e le masse contadine del sud, secondo l’ordine lanciato nella terza internazionale.
Ma Gramsci era consapevole che il consenso delle classi meridionali era difficile da conquistare e che al nord bisognava sconfiggere il razzismo verso i meridionali, che era assai diffuso sin dall’epoca unitaria. Il problema principale per il partito comunista era comunque quello di penetrare tra le masse contadine del sud, diffidenti verso esiti rivoluzionari, socialmente frammentate e assoggettate agli intellettuali.
La borghesia intellettuale meridionale – notai, medici, avvocati, insegnanti - era infatti secondo Gramsci la custode e la garante del potere dei capitalisti del nord, a cui assicurava la pace sociale nel meridione ottenendone in cambio incarichi all’interno delle amministrazioni locali e favori clientelari. Per Gramsci, anche grandi intellettuali come Croce con il sostegno dato al mito del buon governo costituivano un sostegno irrinunciabile per il mantenimento della status quo meridionale, narcotizzando quelle istanze rivoluzionarie delle masse contadine che sole avrebbero potuto risolvere il problema del mezzogiorno.
Con le riflessioni di Gramsci finiva la prima parte del dibattito sulla questione meridionale, perché il fascismo, pur approntando misure speciali per cercare di risolvere la situazione, non fu mai disponibile ad una pubblica e sincera disamina della questione. Solo con la nascita della Repubblica, il dibattito riprenderà vigore.

BIBLIOGRAFIA
Il mito del buongoverno. La questione meridionale da Cavour a Gramsci, di M.L. Salvadori - Einaudi, Torino 1981.
Il sud nella storia d’Italia, di R. Villari - Laterza, Roma-Bari 1984
Le lettere meridionali ed altri scritti sulla questione sociale in Italia, di P.Villari - Loescher, Torino 1971
Il mezzogiorno e lo stato italiano, di G. Fortunato - Vallecchi, Firenze 1973
Napoli e la questione meridionale, di F.S. Nitti - Laterza, Bari 1958
La questione meridionale, di A. Gramsci - Editori Riuniti, Roma 1966