venerdì 24 ottobre 2008

IL TOTALITARISMO

TOTALITARISMO



Il concetto di totalitarismo è la forma di governo – e l’ideologia –individuata da alcuni scienziati politici e storici per enucleare le caratteristiche di alcuni regimi nati nel XX secolo, che mobilitarono intere popolazioni nel nome di un'ideologia o di una nazione. Secondo questo modello teorico il totalitarismo è più oppressivo di un regime autoritario per quanto riguarda il pluralismo, sia politico che civile/sociale, ed i diritti politici.





CARATTERISTICHE DEL REGIME TOTALITARIO


In un regime totalitario:
1) i membri del partito unico al potere diventano l’élite del paese e sostituiscono il governo istituzionale; tutta la società è assoggettata a un’organizzazione gerarchica nella quale ogni individuo deve rispondere a qualcun altro sopra di lui, con l’unica eccezione del capo supremo, che non deve rispondere a nessuno. Tutti i gruppi non allineati al potere vengono annientati.
2) La soggezione totale dei singoli individui al partito è ottenuta mediante un’estesa burocrazia,
3) il monopolio dei mezzi di comunicazione, attraverso il massiccio uso della propaganda, che cerca di plagiare le menti di tutti i cittadini con una ideologia di stato.
4) un’efficiente polizia segreta,
5) il controllo politico delle forze armate e una forte centralizzazione dell’economia.
6) Il partito possiede tutti i mezzi di comunicazione (giornali, radio e televisione, teatro e cinema) attraverso i quali i cittadini ricevono informazioni, orientamenti, direttive. Infine, le forme di manifestazione del pensiero che non si conformano alla linea del partito – ossia alla sua interpretazione ideologica della realtà – sono colpite dalla censura.








DIFFERENZE CON UN REGIME AUTORITARIO


In un regime totalitario lo stato controlla quasi ogni aspetto della vita di un individuo, attraverso il massiccio uso della propaganda, che cerca di plagiare le menti di tutti i cittadini con una ideologia di stato. Un ruolo fondamentale in tal senso è svolto dalla scuola e dai mass media. Il partito unico totalitario controlla tutti i gangli della vita politica e sociale, infatti i governi totalitari non accettano le attività di individui o gruppi che non siano indirizzate al bene dello stato, mentre negli autoritarismi è presente un limitato pluralismo socio-culturale. Un'altra differenza con lo stato autoritario è che questo ha limiti prevedibili all'esercizio del potere, cioè è possibile "vivere tranquilli", è possibile non incorrere nella vendetta dello stato se si seguono alcune regole di comportamento; nello stato totalitario i limiti all'esercizio del potere sono mal definiti, incerti, si rischia di essere arrestati dalla polizia segreta, comunque presente anche negli autoritarismi, e venire puniti, attraverso un processo sommario o con il carcere o con la morte.
Una delle caratteristiche invece che accumunano il totalitarismo e l'autoritarismo è che spesso vengono create minacce interne ed esterne per consolidarne il potere attraverso la paura, come è stato fatto in Germania, additando gli ebrei come responsabili di molti mali che avevano afflitto o affligevano la nazione.





DIFFERENZE TRA DITTATURA E TOTALITARISMO


La dittatura esercita un potere negativo imponendo ai sudditi solo cosa non debbono fare o dire; il totalitarismo attua anche un potere impositivo prescrivendo che cosa i sudditi debbono fare, dire e pensare
la dittatura suole distinguere tra vita pubblica e vita privata, esigendo fedeltà solo nell'ambito della prima; il totalitarismo non riconosce simili distinzioni investendo l'intera vita dei sudditi,
la dittatura è spietata per quel che riguarda il potere politico ma ammette un ambito di vita morale da non invadere; il totalitarismo ha come unico criterio morale la sottomissione al volere del capo.





IL TOTALITARMO NELLA STORIA



Gli esempi più eclatanti di regimi totalitari sono stati la Germania sotto il nazionalsocialismo di Adolf Hitler e l’Unione Sovietica soprattutto durante il periodo stalinista. Non sono mancate altre manifestazioni del fenomeno, sia pure in forme meno compiute e articolate, ad esempio in Italia durante il regime fascista di Benito Mussolini, nei paesi europei del Blocco orientale, in Asia e in America latina: in questi casi, tuttavia, gli studiosi sottolineano l’assenza di alcuni elementi costitutivi dei totalitarismi nazista e sovietico, in particolare per quanto riguarda il grado di penetrazione dell’ideologia nella società e nelle istituzioni.

Benito Mussolini usò per primo il termine per definire il proprio regime, Leon Trotsky lo usava per indicare sia il fascismo che lo stalinismo come "fenomeni simmetrici" nel suo libro del 1936 La rivoluzione tradita. Hannah Arendt rese popolare il termine "totalitarismo" nel suo libro del 1951 Le origini del totalitarismo, in cui si esponevano le similitudini tra la Germania nazista e l'Unione Sovietica stalinista.
Durante la guerra fredda il termine divenne molto popolare come modo di screditare l'Unione Sovietica e di tracciare una linea di continuità tra la lotta per la libertà della seconda guerra mondiale e la lotta contro il comunismo della guerra fredda. Per questo divenne di uso comune negli Stati Uniti e anche altrove, specialmente nella NATO, e fu usato per definire ogni governo nazionalista, imperialista, fascista o comunista. Questo significato è rimasto molto comune anche oggi.
Purtuttavia alcuni regimi fascisti, come la Spagna di Francisco Franco o l'Italia di Mussolini prima della guerra e alcuni regimi socialisti, come la Yugoslavia di Josip Broz Tito o la Repubblica popolare cinese di Deng Xiaoping, sono considerati da alcuni studiosi più autoritari che totalitari.

Nazifascismo e stalinismo: due identici totalitarismi?Anche l'uso della categoria di totalitarismo per accomunare nazismo e stalinismo (la maggioranza degli storici preferiscono parlare di stalinismo o di socialismo reale per sottolineare una differenza con l'ideologia comunista) è controversa e oggi contestata da molti. Entrambi i regimi si basavano su un unico partito fortemente legato, centralizzato e guidato da un capo carismatico, entrambi facevano ricorso al terrore e alla propaganda così come alla polizia politica. Ma sembrano esserci anche forti differenze storiche. Alcuni affermano che, mentre il nazismo indicava all'esterno il proprio nemico e rivolgeva all'esterno le proprie forze distruttive (verso i popoli slavi e gli ebrei in primo luogo), lo stalinismo vedeva il nemico (potente forza di compattezza ideologica) all'interno e lo combatteva dentro i propri confini (ad esempio nello sterminio dei kulaki). Se queste premesse sono vere, allora deriva una differente natura del consenso nei due regimi: spontaneo quello al nazismo da parte dei tedeschi, imposto e formale quello dei russi nei confronti del partito bolscevico, perlomeno fino alla vittoria nella seconda guerra mondiale. Inoltre alcuni ritengono che per poter definire un fenomeno con un termine bisognerebbe che questo fosse "monolitico". Se questo fosse vero per il nazismo, non potrebbe esserlo per lo Stalinismo, che, in 30 anni di storia cambiò volto più volte (una fra tutte dopo la Grande guerra patriottica).








LE ORIGINI DEL TOTALITARISMO (RIASSUNTO)


"Le origini del totalitarismo" è il titolo di un libro di Hannah Arendt.
Riconosciuto alla sua pubblicazione nel 1951 come la trattazione più completa del totalitarismo - e in seguito definito un classico dal «Times Literary Supplement »- quest'opera continua da molti ad essere considerata il testo definitivo sulla storia dei regimi totalitari o - quantomeno - delle loro incarnazioni del XX secolo.
Il libro inizia con una disamina delle cause dell'antisemitismo europeo nel primo e medio XIX secolo, continuando poi con un esame dell'imperialismo coloniale europeo dal 1884 alla prima guerra mondiale.
L'ultima parte tratta delle istituzioni e delle azioni dei movimenti totalitari, esaminando in maniera approfondita le due più pure forme di governo totalitario del 1900: quelle cioè realizzatesi nella Germania del nazismo e nella Russia di Josif Stalin.
L'autrice discute la trasformazione delle classi sociali in masse, il ruolo della propaganda nel mondo non totalitario (all'esterno della nazione come nella popolazione ancora non totalitarizzata) e l'uso del terrore, condizione necessaria a questa forma di governo.
Nel capitolo conclusivo, la Arendt definisce l'alienazione e la riduzione dell'uomo a una macchina come requisiti necessari al dominio totale.



L'antisemitismoI banchieri ebrei furono da sempre prestatori eccellenti per lo stato nazionale: paradossalmente, furono loro a fornirgli i capitali necessari a permettere l’istituzione di monopoli e lotterie, con cui lo stato si affrancò dal bisogno di prestiti: nessun gruppo finanziario gentile aveva fiducia nelle capacità finanziarie degli stati. Verso la metà del XVIII secolo praticamente ogni corte aveva un proprio finanziatore ebreo, la cui influenza veniva sfruttata dalle piccole comunità ebraiche: attraverso quest’ultimo avevano un canale privilegiato per esprimere i propri problemi a corte, e questo contribuì a far sorgere un diffuso sentimento antiebraico tra i contadini gentili. Prestavano inoltre la loro fama e le loro conoscenze internazionali; la loro fitta rete di relazioni internazionali li rendeva pertanto sospettati di poter manovrare i singoli stati mediante una società segreta. Genericamente, poiché gli ebrei erano il solo gruppo sociale a poter essere identificato come “amico dello stato”, ogni classe o gruppo fosse in tensione con quest’ultimo riversava il proprio odio verso l’ebreo.
Se questi sono dunque motivi di odio antiebraico, l’antisemitismo vero e proprio nacque in Prussia nel 1807, dopo la sconfitta ad opera di Napoleone. La seguente abolizione generalizzata dei privilegi mise l’aristocrazia contro lo stato, determinata ad attaccare gli ebrei come "simbolo dello stato", sebbene questi fossero stati i primi a perdere dall’eguaglianza. Ogni uomo politico, poi, (come del resto gli ebrei più ricchi) aveva ottimi motivi per ritardare l’assimilazione ebraica: i ricchi ebrei continuavano a essere “ebrei speciali” (e quindi potenti) per le loro comunità, mentre i politici conservavano l’apparente cristianità dello stato e allo stesso tempo non concedevano pregi agli ebrei poveri delle regioni riannesse alla Prussia dopo il congresso di Vienna del 1816.
La forma di antisemitismo più moderna del XIX secolo fu quella dei primi partiti e movimenti antisemiti; questi ultimi, sfruttando la povertà generale della piccola borghesia seguente spregiudicate avventure come quella della compagnia di Panamá (e la correlata sfiducia nel classico sistema dei partiti) ottennero vasta popolarità proclamandosi “al di sopra dei partiti, contro nobili e giudei” per sostituirsi allo stato nazionale. Ciò è confermato dalla loro riluttanza a diffondere l’antisemitismo nei partiti esistenti: non si voleva cacciare gli ebrei, quanto usarne la cacciata come leva per sostituire il classico stato nazionale. Queste caratteristiche videro la loro massima espressione in Austria, nel partito liberale pangermanista di Schönerer: l’impero austro-ungarico fu sempre tormentato da persistenti differenze sociali tra le varie etnie, le quali ebbero tutte un ottimo motivo per essere scontente della monarchia degli Asburgo; per la consueta identificazione tra stato ed ebrei, a Schönerer fu facile trovare consenso predicando la cacciata violenta dell’ebreo e l’unificazione con la Germania (sebbene sopravanzato dai socialcristiani di Luger, che ottennero il consenso della destra tradizionale – Schönerer fomentava anche pulsioni anticattoliche-). Se in Austria l’apice dell’antisemitismo tradizionale si ebbe alla fine del XVIII secolo, in Francia fu invece prematuro: l’ebreo era perseguitato per retaggio dell’illuminismo, che in esso vedeva una figura chiave nell’appoggio all’aristocrazia; queste motivazioni arcaiche ne limitarono l’attrazione esercitata nel XX secolo.
Nei venti anni tra il declino dei partiti antisemiti e la prima guerra mondiale si ebbe l’età aurea della sicurezza: l’imperialismo e l’espansione economica divennero le sole materie di cui si occupassero i politici (e in grado di far presa sulle masse); nessuno sembrava accorgersi dell’imminente collasso delle strutture politiche tradizionali, e l’antisemitismo politico si sciolse come neve al sole; si tramutò nell’astio che il medio borghese provava per l’ebreo banchiere, membro della ricca elite a cui sognava di appartenere.
Il mondo accetta difficilmente l’idea che l’uguaglianza non spetti a tutti gli uomini come a esseri uguali tra loro, bensì a tutti gli uomini in quanto esseri diversi ma di pari dignità. L’esempio più clamoroso si ha con gli ebrei: quando gli fu accordata l’emancipazione fu sempre nei confronti di persone fuori dall’ordinario, e sempre da parte di ristretti gruppi di intellettuali. Quest’ultimi trattavano l’ebreo come proprio pari non perché ritenessero ogni uomo pari all’altro, ma perché ottima dimostrazione di come potessero esserci uomini normali e degni di stima anche all’interno della categoria dei diversi: l’ebreo si distingueva come essere sollevatosi dalla misera base. E, nel caso dei salotti parigini, si aggiungeva una morbosa attrazione verso lo sporco, l’indegno, che nell’ebreo trovava il suo apice; non cambiava pertanto l’idea che si aveva degli ebrei, quanto il modo di rapportarsi agli stessi. Durante tutto il XIX secolo, l’ebreo non cercherà di prendere coscienza della figura di paria del suo popolo e modificarla, bensì di diventare egli stesso un parvenue, ciò che non si è, mediante l’accettazione nei salotti bene. L’ossessione per l’assimilazione porterà gli ebrei a ridursi a cliques dell’ebreo tipo (ad esempio, in concomitanza dell’affaire Dreyfus si mostreranno spesso proni al tradimento); abbiamo così una curiosa situazione in cui l’antisemitismo politico imperversa, la plebe è carica d’odio per gli ebrei, e gli illustri rappresentanti di questi ultimi si rinchiudono nei salotti a cercare di apparire quanto più marci e corrotti possibile. Il più illustre esempio è Benjamin Disraeli, primo ministro inglese; il suo paese di nascita non conosceva quasi più l’ebraismo dopo la cacciata degli ebrei nel medioevo, per cui egli stesso sapeva molto poco delle sue origini. Con la mente sgombra, si fece facilmente suggestionare dalle chiacchiere antisemite così comuni nell’Europa continentale, e giunse ad auto-convincersi di appartenere a una stirpe di oscuri dominatori del mondo, non mancando di propagandare questa tesi quanto più possibile. Come gli ebrei dei salotti, voleva essere assimilato grazie alla sua diversità.
Fine 1894; Alfred Dreyfus, ufficiale dello stato maggiore francese, ebreo, viene accusato di aver venduto informazioni militari alla Germania. Il solo ufficiale dell’esercito convinto della sua innocenza, Piquart, viene trasferito a un incarico ad alto rischio in Tunisia (1896); da qui scoprirà che Dreyfus è stato incolpato per via di una maldestra falsificazione ad opera dell’ ufficiale francese Walsin Esterhazy e lo comunicherà al senato nel 1897. Nel teso clima di fine secolo questo processo dividerà la popolazione in una lotta tra conservatori e radicali (antidreyfusards e dreyfusards): ogni processo in quegli anni era guardato come la conferma o meno dell’avvenuta uguaglianza, e la situazione era complicata dall’antisemitismo seguente il fallimento della compagnia del Canale di Panamá; Quest’ultima, (comandata dall’ingegner Ferdinand De Lesseps, già creatore del canale di Suez) diretta verso il fallimento, cercò in tutti i modi di evitarlo corrompendo metà del parlamento e la stampa (per farsi elargire pesanti prestiti pubblici) servendosi di due ebrei come intermediari: Jacques Reinach per la destra e Cornelius Herz (assoldato da Reinach) per la sinistra. Quest’ultimo ricattò spesso il primo, portandolo al suicidio quando si fece elargire una grossa provvigione (circa 600.000 franchi) per un servizio che poi non rese; Reinach, disperato, diede la lista dei politici corrotti alla Libre Parole (giornale antisemita) in cambio della promessa di non venir nominato, per poi uccidersi. Una parte considerevole della media borghesia, rinfrancata dai prestiti statali (la cui concessione era teoricamente possibile solo a compagnie la cui onestà veniva controllata) aveva investito tutti i propri risparmi in questo affare, ritrovandosi ad essere ormai plebe, una caricatura del popolo in cui confluivano tutti i reietti dello stesso, costretta a chiedere prestiti ai banchieri ebrei. Persa completamente la fiducia nello stato, reclamava una mano forte ed antichi valori: esattamente le doti che esercito e clero (i gesuiti in special modo) proclamarono proprie, cavalcando l’ondata di sdegno e antisemitismo nella speranza di poter ripristinare la monarchia. Furono avversati e sconfitti, oltre che da Piquart, da illustri personaggi come Émile Zola e Georges Clemenceau: questi ultimi pubblicando articoli e guidando manifestazioni - sebbene fatti oggetto di agguati alle proprie abitazioni - costrinsero l’esercito quantomeno a congedare Esterhazy con disonore e si batterono per la revisione del processo, la quale avvenne in tutta furia nel 1899 (non discolpando Dreyfus ma concedendogli la grazia, per evitare ulteriori disordini durante l’esposizione universale di Parigi del 1900). Divenuto primo ministro, Clemenceau nel 1906 fece discolpare Dreyfus dalla corte di cassazione.



L'imperialismoL’imperialismo fu la naturale valvola di sfogo per capitali e uomini superflui: le aziende operanti sui mercati nazionali - ormai saturi – necessitavano di impiegare in qualche modo i capitali accumulati negli anni, mentre allo stesso tempo decine di migliaia di persone - rese superflue al mercato del lavoro dalle continue migliorie ai processi di produzione – necessitavano di impiego. Come nella rivoluzione francese il feudalesimo fu abbattuto prima nelle regioni in cui era meno forte (il popolo non tollera chi non contribuisce alla società; un signore feudale senza poteri ma ancora ricco diventa estremamente superfluo, esattamente come un capitalista che non offre un lavoro), era facile prevedere che si sarebbero potute verificare tensioni per via di queste due classi. L’apparente uovo di colombo fu l’espansione delle industrie sulle colonie: per la prima volta era la borghesia, il capitale, ad espandersi per proprio conto in terre straniere: il potere politico non farà altro che fornirgli protezione (servizi di polizia), per poi assumere il controllo (diretto nel caso della Francia, indiretto in quello dell’Inghilterra) solo quando l’espansione e l’imperialismo siano diventati pilastro della vita politica – quando cioè i borghesi e gli industriali, convinta la plebe che l’espansione economica fosse il solo obiettivo politico a fare gli interessi di tutta la nazione, si insediarono in parlamento allo scopo di favorire i propri affari. La borghesia, quindi, unica classe sociale ad aver finora dominato senza interessarsi mai della politica, divenne padrona di quest’ultima, contando sull’appoggio della plebe (gli scarti di tutte le classi sociali) e dei nazionalisti, che nell’imperialismo vedevano il trionfo della propria nazione sulle altre.
Prima dell’imperialismo le teorie razziali avevano valenza di semplici opinioni, e come tali confutabili; è solo con l’imperialismo che quest’ultime diventano vere ideologie, cioè singole ipotesi con cui si riesce a spiegare qualsiasi aspetto della vita. Prima di questa trasformazione erano perfettamente rappresentate dalle sciocchezze del Conte di Boulanvilliers o del Conte di Gobineau: mitici popoli germanici di razza superiore che, scesi in Francia, avevano fondato l’aristocrazia (nel caso del primo) o una teoria che spiegava - col mescolamento del sangue nobile a quello plebeo – l’ormai sopravvenuto declino dell’aristocrazia e permetteva al suo nobile teorizzatore di proclamarsi puro (in virtù del suo sangue mai mescolato) nel caso del secondo. Un po’ diverso il caso di Edmund Burke e del razzismo inglese: in una società che ancora conservava i privilegi aristocratici, esso estese la definizione di “razza pura” a tutto il popolo inglese, allo scopo di dare una consolazione alle classi più povere: seppur inferiori ai nobili, erano pur sempre superiori al resto del mondo.
La razza e la burocrazia divennero i pilastri dell’espansione imperialista. Solitamente si usava colonizzare una terra nel caso essa fosse stata ricca e scarsamente abitata, o impiantarvi una stazione marittima nel caso mancassero questi due requisiti; Nel Sudafrica gli olandesi attuarono la seconda opzione, usandolo come base per l’India per poi dimenticarsi dei propri uomini una volta aperto il canale di Suez; questi ultimi erano i Boeri, o Afrikaner, che si erano garantiti la sopravvivenza in terre così ostili sfruttando la propensione delle popolazioni autoctone a crederli esseri superiori per renderli schiavi. Quando in Sudafrica si scoprirono miniere di diamanti e folle di nobili avventurieri inglesi e scarti della società vi si riversarono, a contatto con i boeri ne mutuarono il razzismo; la madrepatria scoprì così che era possibile usare la sola forza bruta per assicurarsi il controllo di una popolazione. Il controllo istituzionale era invece affidato alla burocrazia imperialista: il primo e più fulgido esempio di questa fu l’inglese Lord Cromer. Console egiziano dal 1883 al 1907, arrivò animato da sentimenti nobili: tenere in mano inglese il canale di Suez così che essi potessero continuare a “proteggere l’India”, insegnando agli autoctoni la loro superiore cultura. Appena stabilitosi, non poté più credere che agli inglesi interessasse qualcosa di popoli che gli apparivano “arretrati”, ed iniziò a dominare il paese senza che gli fosse mai stata davvero concessa questa autorità. Il suo dominio di decreti provvisori, leggi non scritte, arbitrarietà perpetrate non da riconoscibili soldati ma da agenti segreti fu il modello per tutte le altre colonizzazioni.
I panmovimenti, attivi già dal 1870 (vedasi il partito pangermanista di Schonerer) con l’avvento dell’imperialismo iniziano a farsi violenti: Se i paesi con sbocchi sul mare si arrogano il diritto di espandersi negli altri continenti, i panmovimenti reclamano il diritto di annettere le terre loro confinanti; a differenza dell’imperialismo d’oltremare, in questo imperialismo continentale non è il capitale il motore ultimo delle azioni, quanto “un ampliata conoscenza etnica” e un nazionalismo tribale: l’idea che il proprio popolo fosse eletto da Dio al dominio, e che solo la divisione lo impedisse. Pangermanisti e panslavisti facevano affidamento sulle frustrazioni dei popoli che non avevano un proprio stato o non erano rappresentati; quando invece lo avevano – come i pangermanisti tedeschi – fidavano sulla frustrazione del popolo per non poter partecipare al banchetto dell’imperialismo d’oltremare. Crocevia di queste pulsioni fu l’impero Austro-Ungarico, dilaniato da pangermanisti austriaci e panslavisti ungheresi. Come già accennato prima, entrambi i movimenti erano intrisi di antisemitismo – come naturale, dato il loro odio nei confronti dello stato e l’identificazione dell’ebreo con questo – che sfogavano in violente azioni contro le comunità ebraiche: il loro assoluto disprezzo per la legalità era mutuato dall’arbitrarietà propria dell’impero Austro-Ungarico e dell'impero Russo, i quali non si facevano eccessivi scrupoli a disprezzare le proprie stesse leggi. I panmovimenti non riuscirono mai a sovvertire l’ordine nazionale, ma sfruttando bene la mancanza di fiducia del popolo nei confronti dei partiti tradizionali -corrotti o impossibilitati ad agire per il bene della popolazione- evidenziarono come lo stato nazionale non avesse mai risposto alle esigenze della popolazione.
Dopo la prima guerra mondiale quel che restava dell’impero Austro-Ungarico fu diviso in stati, ovviamente a loro volta suddivisi in minoranze (date le peculiari caratteristiche dell’Europa dell’est). Senza l’oppressiva burocrazia dell’impero, cade il mito dell’unione tra Stato (organo di governo) e nazione (popolo): dalla rivoluzione francese in poi si era sempre dato per scontato che il primo fosse diretta espressione del secondo, e il conferire i diritti umani ai propri cittadini avrebbe significato conferirli a tutto il popolo. In un contesto in cui non si poteva neanche definire un popolo come numericamente prevalente sull’altro (Cecoslovacchia, ad es.) e gli apolidi si erano affacciati sulla scena, si presentava il problema di cosa farne: non era possibile naturalizzarli in blocco, né dare asilo politico alle masse; rimpatriarli era impossibile perché non desiderati.



Il totalitarismoil regime totalitario, basato sul moto perpetuo, viene dimenticato in fretta quando quest’ultimo si arresta: basato sulle masse, deve fare i conti con la volubilità naturale di quest’ultime, specie se private dell’influenza del regime. La massa, a differenza della plebe, non è una caricatura della borghesia: è il risultato del crollo di ogni classe sociale dovuto alla disoccupazione e alla miseria, lo specchio di ogni classe sociale che non esiste più. Amorfa nei confronti della vita e sfiduciata nei confronti del sistema dei partiti: in quest’ultimo ogni partito rappresentava una classe sociale i cui membri si occupavano della politica per difenderne gli interessi, e lasciare agli altri appartenenti alla stessa la possibilità di condurre una vita apolitica. Alla caduta delle classi sociali i partiti tradizionali non rappresentarono più nulla se non la volontà di tenere in piedi il vecchio sistema; ma chi lo avrebbe voluto, in un sistema che finora aveva garantito solo miseria e alienazione? Cade quindi un altro mito della rivoluzione francese: che tutto il popolo si interessasse della politica, e chi non lo facesse fosse solo una minoranza (o se anche maggioranza, sarebbe stata irrilevante, semplice sfondo). Il totalitarismo necessita di masse senza la scintilla dell’individualità (ottimo motivo per cui si può definire il primo movimento antiborghese)
Come le masse, gli intellettuali appoggiavano i movimenti totalitari: essi avevano rifiutato il vecchio sistema basato sulle classi sociali prima che quest’ultime sparissero, e avrebbero salutato con gioia qualsiasi cosa significasse un netto cambiamento rispetto al passato; se le masse ammiravano Hitler come loro campione (un diseredato come loro), gli intellettuali lo ammiravano come estremo sovvertimento dell’ordine costituito: un plebeo gretto, meschino ma almeno schietto, al comando della nazione avrebbe messo in riga tutti i politicanti borghesi gretti e meschini quanto lui, ma fondamentalmente ipocriti. Al trionfo, Hitler li liquiderà, come ovvio: un intellettuale è pur sempre un espressione di individualità.
Plebe ed elite, quindi, seguono naturalmente il movimento totalitario; la massa, invece, va prima convinta: a questo pensa la propaganda. Essa serve sia per le masse non totalitarizzate, che per il mondo esterno, che per i membri del partito non ancora totalitari. Con essa si propugna l’ideologia, per mezzo del terrore (Esso è coadiuvante della propaganda, ma anche motore del movimento) e, in misura minore, della scienza. Una volta raggiunto il potere la propaganda viene sostituita dall’indottrinamento. L’abilità propagandistica dei nazisti non fu frutto di belle parole o dell’invenzione di nuovi concetti: essi scelsero tra le teorie già esistenti quelle che facevano più presa sulla massa (come l’antisemitismo). Il campo in cui invece furono realmente originali fu l’organizzazione: il nazismo era strutturato come un’organizzazione a strati. I frontisti erano i meno totalitari, poi venivano i membri del partito, poi le gerarchie più alte del partito. Questo è dovuto all’ideologia: il nazismo proclama di avere contro (e dover combattere) tutto il mondo: agli occhi di chi sta più in alto nella scala gerarchica, lo strato immediatamente precedente è il mondo non totalitario. Questa organizzazione vale in due sensi: conforta i membri del partito, e fa vedere alle masse ancora non totalitarizzate il lato meno estremo dei nazisti. Altra peculiarità nazista fu il duplicare qualsiasi organizzazione statale: formazioni paraprofessionali di medici, avvocati e quant’altro. Questo gli permise di sostituire rapidamente tutto l’apparato statale con uomini di fiducia, oltre che far sentire ogni ramo della società rappresentato nel nazismo. Al centro di tutto c’è il capo, ultimo strato dell’organizzazione, che si assume ogni responsabilità per quello che fanno i suoi uomini. Così facendo difende il movimento dall’esterno e allo stesso tempo (prendendosi le responsabilità di tutti) fa in modo che la vittima del terrore nazista non sappia da chi venga l’ordine -se non dal capo, un entità irraggiungibile. E’ quindi una organizzazione simile a quella delle società segrete:gerarchie secondo il grado di devozione e potere accentrato, oltre a un iniziazione e un rituale: la prima fu messa in atto con l’esame della razza, il secondo con l’adunata oceanica.
Una volta conquistato il potere, il regime consegna il potere ai suoi duplicati dell’autorità; ogni organizzazione tradizionale, come lo stato stesso, perde di valore e vi vengono confinati i meno utili alla causa. Il potere non è dello stato ma del partito: tanto più un istituzione è in vista, tanto meno potere ha; chi conta è colui che è meno in vista, e questi a sua volta non fa che il volere del capo, essenziale al movimento. L’immensa macchina burocratica che si viene a creare ha ragion d’esistere solo perché il nazismo ragiona in termini non utilitaristici: lo spreco di denaro e le sovrapposizioni di ruoli sono giustificabili di fronte all’ideale razziale, specialmente se guardate come fastidi momentanei in una futura storia millenaria. La sicurezza del dominio futuro si nota anche dall’applicazione di leggi retroattive nei paesi conquistati: si punisce chi non si è attenuto alla legge del Fuhrer quando è stata proclamata; era già in vigore anche nel proprio paese, mancavano solamente gli uomini (i soldati della Wehrmacht) incaricati di farla rispettare.
Il duplicato più importante è la polizia segreta: conquistato il potere, il movimento devia i fondi della polizia segreta ufficiale a favore della propria; quest’ultima all’estero prepara il terreno per il futuro dominio, mentre all’interno si occupa del nemico oggettivo: poiché un regime totalitario si basa sul moto perpetuo, una volta cessati i focolai di resistenza ha bisogno di un altro nemico contro cui scagliarsi, possibilmente un nemico che possa essere ritenuto tale dal mondo esterno, come gli ebrei. Questi ultimi sono i nemici oggettivi, quelli la cui colpevolezza è provata: sono colpevoli di non essere desiderati. Alla Gestapo, pertanto, sarà accordata più fiducia che a una qualsiasi polizia segreta ufficiale: non avrà mai il compito di scoprire chi trama contro il regime, né avrà potere di ignorarli o favorirli. Sarà semplicemente la prima a sapere, dopo il capo, chi deve essere ucciso. Non esistendo più la fase investigativa, il sospetto di reato viene sostituito dal delitto possibile: chiunque abbia la possibilità di fare qualcosa contro il regime è riconosciuto colpevole; Josif Stalin utilizzerà questo concetto facendo epurare tutte le cariche del partito con sufficiente autorità per preparare un colpo di stato, ad esempio. Questi concetti vengono abbandonati solo al raggiungimento del completo totalitarismo: da qui, le vittime verranno scelte a caso, nella negazione suprema della libertà: il regime non consente di scegliere neppure se diventare colpevole o meno; non consente di scegliere il suicidio in quanto - dopo anni di condizionamento atto a cancellare l’individualità – il condannato non ha neppure più la volontà per farlo. Se avesse conservato parte della propria personalità, quest’ultimo sa che sarebbe un gesto inutile: il proprio suicidio non ispirerebbe nessuno alla ribellione, perché nessuno saprebbe neppure del suo martirio: nel regime nazista la gente non muore, sparisce dal mondo, mediante l’eliminazione delle condizioni necessarie al ricordo e di chi potrebbe ricordare.
Per i nazisti il campo di concentramento è un laboratorio per l’annientamento della personalità, prima ancora che per lo sterminio. In questo ambiente completamente chiuso al mondo non totalitario, il prigioniero vede solo SS, inumani esecutori. Non ha contatti con altre categorie di detenuti a parte la propria, né finisce mai nel lager per qualche motivo: chi compie un reato finisce in carcere, e solo quando avrà scontato la pena prevista dalla legge sarà deportato, di modo che sia chiaro che non finisce lì per propria scelta: non perché ha scelto di essere contro il regime e agire di conseguenza, ma perché il regime ha scelto di essere contro di lui. Non a caso il criminale è praticamente il solo a poter diventare kapò: proprio perché sa di essere quantomeno indesiderabile, trova un motivo per spiegare la propria deportazione. Compiuta la distruzione dell’uomo come soggetto di diritto, si passa ad annullare la personalità morale: si rende impossibile il martirio non permettendo a nessuno di venirne a conoscenza, né è possibile morire per conto proprio piuttosto che aiutare il nazismo; ad esempio, si viene posti di fronte alla scelta se aiutare il nazismo tradendo amici che cospirano o non aiutarlo lasciandoli cospirare,ma facendo così condannare la propria famiglia. Una volta distrutta la personalità morale, dell’essere umano rimane solo l’individualità, la consapevolezza di essere unico; ma venendo quest’ultima in larga parte dalle proprie scelte e convinzioni morali, quel che ne rimane è solo la conoscenza del proprio nome e del proprio modo di reagire alle condizioni in cui ci si trova. Nulla che un numero di serie e un trattamento ugualmente umiliante (come la deportazione nudi nei carri bestiame) per tutti non possa cancellare. Il nazismo nel lager riduceva l’uomo a un fascio di nervi - né più né meno che una bestia - per imparare e riprodurne il più possibile i risultati sui propri cittadini. Si direbbe una menzogna affermando che il nazismo fosse più avverso agli ebrei che al popolo tedesco: esso era ugualmente contro ogni forma dell’essere umano; non voleva far sì che il popolo tedesco conquistasse il mondo, quanto riorganizzare la natura umana.